lunedì 22 luglio 2019


Omaggio a N. G.

Io sono convinta di non sapere quasi niente e quel po’ che so tendo a dimenticarlo. A volte mi convinco di non amarlo oppure mi dimentico che lo amo e glielo dico e penso che ne resterà distrutto. Lui non ne rimane distrutto perché sa già sempre tutto quello che mi accade dentro, mentre io credo di rivelargli chissà quale terribile segreto. Non sono le cose che sa a distruggerlo ma quelle che non sa, dietro alle quali si strugge e diventa smunto e pallido finché non le capisce. Quando litighiamo io arrivo ad odiarlo, lo odio davvero e senza riserve. Lui invece aspetta, angosciandosi, che torni a casa e fuma le mie sigarette e beve le bevande che bevo io e legge i libri che stavo leggendo. Io in preda alla furia sono sicura di lasciarlo e proprio quando ne sono più sicura mi assale una nostalgia lancinante e penso a lui non in ricordi precisi ma in una nube di sensazioni in cui lui è un vapore tiepido e benefico che avvolge tutte le cose e tutte le cose rende immensamente necessarie e tenere.
Quando stiamo bene insieme lui è felice e ha quel muso soddisfatto da gatto al caldo, io invece mi chiedo tutto il tempo se stiamo bene per davvero o è forse che ci abituiamo. Lui sa che me lo chiedo in testa continuamente, allora mi dice che stiamo bene insieme per davvero e quando lo dice io capisco che quella è la verità con cui lui ha un rapporto amico e spontaneo, io invece no, avendo fin da bambina difficoltà a distinguere tra quella e i mondi che tengo inventati nella mente.
Quando ancora viveva dai suoi, la madre lo svegliava ogni mattina con il latte caldo e lo investiva di chiacchiere e di fatti. Io non mi sveglio mai quando esce di casa la mattina presto, ma a volte è lui che mi porta il caffè caldo, felice di fare con me come sua madre con lui, e però non mi parla di chiacchiere e di fatti perché a entrambi non piace parlare appena svegli. Amiamo però discorrere in certi momenti e a lungo di noi, delle vite nostre e dei nostri amici. Io da vicino, accalorandomi molto e prendendo tutto molto a cuore, lui da lontano senza mai scaldarsi per nulla. È nelle sue calme e nelle sue ire molto democratico, prendendosela con l’uno o con l’altro senza pregiudizio ma solo col suo giudizio immediato, che è sempre all’inizio molto sicuro e netto. È in verità un moderato, anche se lui si ritiene mediocre. Così mi disse una volta, come dice tutte le cose su di sé, come fossero dati di fatto che nulla hanno a che fare con lui. Quei suoi dati di fatto lo fanno però soffrire in un modo silenzioso e sotterraneo. Io non penso che sia mediocre nel senso che si dice lui e in nessun senso. Penso invece che abbia il dono di cogliere con la sensibilità sua cose molto complicate e spiegarle nella maniera più semplice. Io invece affronto le cose più semplici rendendole enormemente complesse.
Lui e io piacciamo sempre molto ai nostri vari padroni di casa, perché siamo giovani e ci vogliamo molto bene. Una volta una di loro, francese, mi disse quando eravamo sole a bere un succo d’arancia in giardino, che lui le piaceva perché era humaine. Io pensai che era quello che piaceva anche a me più di tutto in lui. Piacciamo molto anche ai nostri amici più giovani, che vengono i pomeriggi nella nostra casa e quando ci guardano vedono come qualcosa di stabile e terrestre. Noi ci guardiamo e ci sorridiamo con estrema dolcezza ed è allora che sappiamo bene quante volte ci siamo sballottati nel nostro mare in tempesta e quante volte abbiamo rischiato di cappottarci con tutto quanto, e in quel momento ci sentiamo quasi eroici nell’aver solcato con coraggio il nostro amore.
Siamo entrambi molto melodrammatici e “melodrammatico” è un aggettivo che ci piace ripeterci un po’ con scherno un po’ con rispetto. Io lo sono con grandi furie e scene e urla, lui sprofondando a volte nel più nero pessimismo, scoppiando da lì dentro in pianti da bambino, quelli in cui navigano, annacquate, parole sconnesse e in quelli lui vuole solo restare a piangere e che lo si abbracci.
Era lui una volta un gran reazionario, più per una fedeltà di principio che per convinzione. È infatti una persona che ama l’ordine e che le cose siano sistemate al proprio posto, potendo restare a guardare per ore quei video in cui gli oggetti si incastrano perfettamente oppure vengono tagliati lungo precise linee rette. Io sono inglobata dal disordine, interiore e esteriore. Ma in quel caos primigenio, in cui galleggio come un feto, vedo pianeti e costellazioni e mi sembra di capirli chiaramente per un attimo prima che mutino e si cambino in un caos nuovo e sconosciuto. In quel disordine mi colpiscono, pure, come meteoriti dei pensieri fissi in certi periodi della mia esistenza, dei tigni, delle battaglie che mi rendono coraggiosa, insofferente, generosa e cattiva. E così passo lunghi pomeriggi a pensare della costituzione,del libero amore etero e omosessuale, del valore del femminismo oggi, della necessità di inclusione dell’altro. Quando scrivo però prevale la rabbia e finisco a scrivere per lo più parole infuocate contro i razzisti, i maschilisti, gli opportunisti e i furbi. E ce l’ho sempre e in maniera lamentosa e scontenta con tutti i potenti e i governi che si sono succeduti.
Lui ora è un po’ meno reazionario e a me piace pensare che è per quelle parole infuocate che io gli dico in quei lunghi pomeriggi in cui scrivo contro. Ma in verità penso che sia rimasto deluso dall’ordine e da quelli che lo professavano, avendo visto che è tutto un caos e nessuno è sincero o fa bene quello che dovrebbe fare. Certe volte vagheggia di fare un governo con a capo sé stesso e mi dice che io sarei il primo ministro o il ministro dell’istruzione. Io gli dico che non mi va di fare il primo ministro e in generale nessun ministro, solo magari se ci fosse un ministro dell’ascolto e io potessi mettermi lì ad ascoltare una a una le persone per capire cosa chiedono e se lo sanno davvero quel che vogliono.
Lui è capace di piacere a qualunque essere umano si fermi a parlare un po’ più a lungo con lui, di qualunque età, genere e convinzione sia, e io penso che è per quel suo essere humaine che diceva la francese. È aperto e fermo nell’ascoltare, ma non condiscendente. Io, invece, quando le persone mi si confessano, mi affretto subito a giustificarle ai loro occhi, pensando che in quel momento soffrono e che sta a me alleviare la loro sofferenza. Lui è di una bontà profonda, intatta e inestirpabile, ma a volte si incattivisce su piccole cose come i bambini, diventando allora maligno e dispettoso. È però, quando glielo si fa notare, capace di pentirsi e ammettere naturalmente il proprio torto. A me costa moltissimo ammettere il mio torto ed è per questo che vivo attentissima a non far torto a nessuno, ma la cosa a volte mi dà una grande spossatezza. Le persone che mi vogliono bene dicono che anche io sono profondamente buona, ma io non lo credo e faccio con lui lunghi pianti per il fatto che sono una persona orribile e cattiva. Lui mi consola e non crede affatto che io sia orribile e cattiva, allora mi sento ancora di più una menzognera, capace di ingannare chiunque.
Lui ha l’idea di sé stesso come una persona molto ordinata, pratica e fattiva. Non è in realtà, al di fuori del lavoro, nessuna di queste cose, perdendosi nella vita domestica nelle più piccole minuzie. La nostra casa è piccola e piena di roba buttata un po’ ovunque, con su una parete una grande scatola marrone con un armadio a muro da montare su cui lui riponeva grandi speranze di riordino, ma che non abbiamo mai più montato dopo averlo allegramente comprato. Abbiamo anche molti quadri senza cornice che teniamo stesi come tovaglie su una grossa consolle di legno e un piccolo quadro di un certo Lemonnier francese che abbiamo preso a Parigi e che ci rende molto fieri perché è il primo e solo quadro di autore che abbiamo comprato, e ci piace ripeterci “il nostro Lemonnier” come fosse un grande quadro di un noto autore. Quando lui, stanco delle robe accatastate e del poco spazio, dice che dobbiamo trasferirci e mi trascina a vedere case grandi, brutte e impersonali, io gli dico “ma non abbiamo mai appeso nemmeno i quadri!” con un tale tremolio accorato nella voce che lui si sgonfia e dice che va bene, traslocheremo un’altra volta. Intanto i quadri restano lì, stesi come tovaglie, e ogni giorno ci passiamo davanti e pensiamo di appenderli ma non lo facciamo.
A tutti e due piace viaggiare, ma lui lo farebbe in modo svagato, impreparato e libero. Io invece devo studiare il posto, studiare gli hotel e scrivere in una lista tutto quello da portare. La prima gita che facemmo insieme, lui mi disse che saremmo andati per un giorno nella natura e mi indicò un’oasi piena di alberi e di cascate. Indossai allora, in modo che a me pareva appropriato, un pantalone verde militare con molte tasche e una maglietta pure verde militare e avevo sulle spalle uno zaino e un sacco. Quando gli aprii la porta lui scoppiò a ridere, e poi per l’intero giorno tutte le volte che mi guardava in mezzo agli altri vestiti normali. Ancora oggi quando ci ripensa viene preso da una così genuina allegria che io quasi lo invidio e vorrei essere stata lui in quel momento in cui gli ho aperto la porta in pantaloni militari verdi e maglietta verde e sacco in spalla.
Mi piace di noi quel modo che abbiamo di avvertirci anche quando non ci capiamo e litighiamo su di noi o su un certo nostro amico, su un fatto di politica o sull’educazione di ipotetici figli che forse avremo. Succede le volte in cui litighiamo seriamente, e io tremo di rabbia e lui fuma e beve e legge, che pare che siamo lontani nel tempo e nello spazio pure essendo nella stessa stanza e allora è come se quel nostro avvertici sia relegato in un sotterraneo minuscolo che io vedo come da una finestra lontana e penso che sarà troppo stretto e che questa volta non riusciremo a tornarci. E quel nostro sbatterci e urlare l’uno contro l’altro è nient’altro il tentativo di entrambi di tornare in quel sotterraneo in comune e la paura di perderlo. Ma poi succede sempre che l’uno o l’altro ci torni e la finestra allora è come se si allargasse e la sentissi all’improvviso vicinissima nel cuore. Quelli sono i nostri momenti migliori, in cui ci sentiamo più veri e coraggiosi e ridiamo e piangiamo e tutto il mondo alla fine entra in quel sotterraneo che è diventato enorme, caldo e accogliente.
Quando ancora non stavamo insieme era per me lui il metro di paragone di tutti gli altri uomini e però sempre lo sfuggivo. Lui invece sapeva fin da ragazzo che era me che voleva e questo non lo faceva fuggire, guardandomi nella mia fuga sempre da un punto che a me pareva lontano, solido e fisso. Se gli succedeva, però, qualcosa di brutto io soffrivo come fosse successo a me stessa, e tornavo a consolarlo in quel punto solido e fisso e mi ci trovavo bene come se ci fossi sempre rimasta.
Io qualcosa so e qualcosa ricordo, ma a volte penso di non ricordare e ho paura del mio cuore muto, arido e vuoto. Lui davvero non ricorda, avendo una memoria che è sottile e acquosa, ma il suo cuore è sempre pieno, irrorato e coltivato come un giardino. Lo ricordo in ogni evento importante della mia vita, vicino a me, con la sua faccia tranquilla, lieta, speranzosa e viva. Non ci diciamo mai niente riguardo al futuro, io perché il futuro me lo figuro sempre pericoloso, nero e difficile, lui perché sa che i piani a lungo termine mi rendono selvatica e spaventata come in trappola. E però se dovessi immaginare il futuro, sarebbe per me in quel sotterraneo con una sola finestra e dentro sempre ci sarebbe lui, come in tutte le cose importanti della mia vita, con quei suoi occhi amorosi, lieti, speranzosi e vivi.

venerdì 15 dicembre 2017

Un corpo solo


Sono tornato a casa perché mio fratello sta morendo. Ha ventinove anni, due più di me, lavora nel negozio dei miei e vive nella stessa strada dove siamo cresciuti. Mi ha chiamato lui, ma non per guardarlo morire. «Fosse per questo non ti avrei scomodato, Vincé. Non è mica una bella cosa vedere la gente morire.» Mi ha chiamato per la partita. La maledettissima partita di qualificazione per il torneo. Tommaso gioca da tre anni in una squadra di rugby del suo quartiere, quando torno giù e ci vediamo non fa che descrivermi per ore le partite in mezzo al fango e sotto la pioggia. E più c’è fango e più c’è pioggia più lui è contento, gli si illuminano gli occhi ed è come se quegli ostacoli là spazzassero via tutto il resto. Spazzassero via il fatto che ha un cancro alla pelle, ad esempio. «Io sono il mediano di mischia. Come fanno senza di me?» «Ma chi se ne fotte del rugby. Fammi il piacere.» «Io. Io me ne fotto, hai capito? Non li posso lasciare soli. Per questo ho chiamato a te.»
Scuoto la testa e guardo la sua faccia tirata, il corpo è debole, poggiato sul lettino come fosse stato dimenticato là. Gli occhi invece no. Gli occhi hanno assorbito tutta la forza che è sparita dal resto e mi fissano senza mollarmi un attimo. Un pallone ovale stretto saldo tra le braccia. «Mi devi aiutare. Devi essere me». «Ma che cazzo dici, Tommà? Sei diventato scemo?» «Devi essere il mio rimpiazzo. Almeno finché non mi rimetto in forze. Un po’ di tempo ce l’ho prima che mi diventi definitivo.» Non riesco a guardarlo per troppo. Ѐ più forte di me. Devo passare a fissare la flebo, il televisore spento o le mie scarpe, perché se no mi viene voglia di piangere e questo non me lo perdonerebbe.
«Te lo ricordi a Pasquale?» «Chi Pasquale?» «Puccettone.» «Ah, Puccettone e come no. Come sta?» «Bene bene, si è aperto un chiosco nella piazzetta.» «Ma dai.» «Devi andare da lui.» «E perché?» «Perché ti deve spiegare.» «Ma cosa? Ancora fai?» «Ti devi allenare, Vincè. La partita è tra un mese.» «Sei diventato tutto scemo.»
***
Nel rugby lo scopo è semplice: appoggiare il pallone oltre la linea di meta. Tutto il resto è un gran casino di regole, passaggi, mischie, infortuni e falli. Un po’ come la vita. La meta è chiara. Ѐ come ci arrivi che fa tutta la differenza del mondo. Lo puoi fare in tanti modi. Puoi calciare da lontano accettando il rischio, puoi prendere quello che desideri in mano e iniziare a correre tenendotelo stretto, puoi condividerlo con chi ti è più vicino e tenerlo d’occhio ed essere pronto quando sta per ripassartelo. Una cosa è certa, che non puoi farlo da solo. Neanche nascere puoi farlo da solo. Questa cosa è fondamentale da capire se vuoi capire il rugby. Non sarai mai solo. Mai. Non puoi dimenticarlo manco un istante perché se no finisce che ti perdi i vari richiami della tua squadra. E avanzi che sei praticamente cieco. I compagni ti sono dietro o al lato. Non è con gli occhi che puoi vedere. Devi imparare a sentire. Come fossero parti del tuo corpo, come se foste collegati e devi solo metterti in ascolto per capire dove sono e cosa fanno. Perché è questo che si fa: corri cieco verso una meta che non sai come raggiungerai e da un momento all’altro ti possono atterrare prendendoti ai fianchi e ti può arrivare addosso una pioggia di corpi che ti bloccano. La vita, appunto.
***
«Che piacere vederti, Viciè. Veramente. Ti trovo bene.» «Pure per me, Pasquà.» «Non scendi mai.» «Eh lo so. Il lavoro…» «Eh, il lavoro.»
Pasquale mi mette la tazzina bollente davanti e poi passa lo strofinaccio sul bancone. Se non fosse per quel guanciale di barba tutto intorno alla faccia, avrei detto che ha continuato ad avere undici anni per tutto questo tempo. «Non sei cambiato per niente proprio.»
Già a undici anni era grosso e massiccio. Faceva paura quando si arrabbiava e si metteva a urlare. Ma non succedeva quasi mai. Era una delle persone più pacifiche che conoscessi. Riusciva a mantenere la calma sempre. Quasi. Si arrabbiava quando qualcuno di noi faceva una cazzata. Quando Ferruccio ha iniziato a farsi, ad esempio. Chissà come sta. Chissà se è morto o in prigione. E Cristiano. E Maria Pia.
«Mi dispiace per tua madre, l’altro anno.» «Grazie. Ma era vecchia, che ci vuoi fare. Io per Tommaso proprio non…» Mi guarda e si ferma. «Mi dispiace, Viciè.» Annuisco.
«Tommaso ha detto che giocherai con noi.» «Ci provo, Pasquà. Non vi assicuro niente. Non ci capisco un cazzo di questo sport.» Fa un gran sorriso. «Ma non c’è niente da capire. Devi solo mettertici dentro e fare. Ah, e non aver paura di farti male. Cioè all’inizio sì, è normale. Poi capisci e smetti.» «Di farti male?» «Di avere paura.»
A diciotto anni non mi importava cosa avrei fatto, volevo solo andarmene da lì. Da quella città stretta, dalle case popolari, dall’assenza di tutto, dalle stesse facce che facevano le stesse stronzate, dalle notizie di quelli che venivano beccati o che morivano troppo giovani. Io volevo studiare e ho studiato. Trovarmi un lavoro e l’ho trovato. E non tornare più. Ma non ce l’ho fatta. Non con Tommaso così. Ho lasciato tutto, ho lasciato il lavoro e sono di nuovo qua. A non fare un cazzo. A vedere le stesse persone. Gli stessi palazzi di trenta metri con le minuscole finestre e i minuscoli balconi schierati come soldatini.
Dopo un po’ che ero là, senza incontrare nessuno, senza uscire mai di casa, Tommaso se n’è uscito con sta storia del rugby.  «Ci stanno tutti, vedrai. Tutti quelli del gruppo. L’abbiamo fondata proprio noi la squadra.» «Ma perché io? Non so giocare. Perché non può farlo un altro della squadra oppure uno nuovo?» «Perché nel rugby, Vincé, si passa solo all’indietro. Ricordatelo questo.»
***
Aspettiamo i ragazzi per l’allenamento. Non hanno proprio un campo. Giocano nel parco, attenti a non colpire vecchiette o affondare carrozzine. «Tutto allenamento per la precisione dei tiri.» Hanno provato a chiedere spazi al comune, ma non ne vogliono sapere. «Noi siamo una squadra popolare. Che vuol dire che non ci facciamo pagare la quota. Lo sport deve essere per tutti. A disposizione. Ma ci mancano gli spazi.» Spazi. Se guardo a come è cambiata la mia città in questi otto anni, direi che è un problema comune. Gli spazi vuoti è come se se li fossero mangiati e gli fossero tornati su palazzi e pompe di benzina come rigurgiti. Il rugby ha bisogno di spazio. E fango. E docce. «Non scordarti le docce, sono una cosa fondamentale. Quando giochi e sudi per due ore d’inverno, se non ti lavi e non ti asciughi ti si ghiaccia tutto addosso e sei fottuto.»
Pasquale mi è venuto a prendere davanti casa, come se non sapessi dove sta il parco del Mercatello. Ma forse ha pensato che sarebbe stato meglio per me averlo vicino, aspettando di rivedere tutti loro.
«Che cosa fai tu? Placchi, corri, attacchi?» Pasquale si fa professionale: «nel rugby devi capire una cosa. Tutti fanno tutto. Devi saper correre, placcare, difendere, attaccare, passare. Devi essere pronto a fare quello che serve. Troppo facile se ti limiti a stare nel tuo. Devi saper cambiare. Essere flessibile. Adeguarti a quello che ti si prospetta volta per volta. Devi essere imprevedibile. Come l’ovale quando rimbalza.» «Però ci sono i ruoli no? Mio fratello era mediano di mischia.» «Ѐ mediano di mischia. Tu sei solo il rimpiazzo, non ti montare.» «Tu che sei?» «Io sono un pilone.» «Che fa il pilone?» «Tiene insieme tutto. E regge il colpo nella mischia. La mischia è quando stanno tutti abbracciati e poi spingono contro quegli altri avversari. Più o meno.» «E tu che fai?» «Sto là perché non crolli tutto.»
«No, non ci posso credere! Vincenzo!» Mi salta al collo e per un attimo vedo solo uno schermo di capelli biondi. «Maria Pia?» «Vincenzo ciao! Come sono felice che sei sceso.» Maria Pia è una ragazza tutta gambe. Esile. Il suo nome di battaglia nel rugby è la gazzella di Pastena. «Vedessi come corre.» Me la ricordo a dodici anni, con quelle gambe secche e nemmeno una curva. La prendevamo in giro a sangue, ma lei rideva, ci mostrava il dito medio e continuava a giocare con noi. Poi a quattordici d’improvviso gli erano spuntati tette e sedere e aveva iniziato a uscire con vari ragazzi, mentre a noi esplodevano i brufoli in faccia e le femmine ci gettavano occhiate schifate. Da allora ci guardava con commiserazione, ma a vendicarsi non si è mai vendicata, bisogna riconoscerle la superiorità morale. «Uè, Maria Pia. Che fai qua?» «Come che faccio? Che fanno loro senza di me.» Prende la rincorsa e si butta addosso a Puccettone, che l’acchiappa al volo. Poi la bacia. «Ma no, fantastico. State insieme.» «Ma non te l’ha detto Tommaso?» «No!» «Che stronzo.» Ridono. E rido pure io. Non so perché, ma questa cosa mi rende molto felice. «Allora si inizia?» «Ma giochi pure te?» «Eccerto. Sono un’ala di tre quarti. Corro un sacco. Come sai da tutte le gare che perdevate da piccoli.» Inizia a fare un giro del parco.
Io tiro il braccio a Puccettone e regredisco improvvisamente: «Pasquà, ma ci stanno le ragazze?» Lui mi guarda con commiserazione, la stessa espressione di Maria Pia a quattordici anni. «Sì ci stanno pure le ragazze, Vincé. Siamo una squadra mista. Ci sono trenta ragazzi e dieci ragazze.» «Sì ma come fanno? Cioè qua ci si scontra, ci si mena.» «Si vede che non hai mai litigato con Maria Pia.» «Ma non sono, tipo, grosse.» «Non è che sei tanto grosso pure te, eh. Il bello del rugby è che c’è un posto per tutti. Per quello piazzato, quello alto e magro, quello basso. Senti, ti ricordi che io facevo pugilato, sì? Anche lì era misto, ma non riuscivo a colpire le ragazze che mi facevano sempre una pezza. Poi con i ragazzi abbiamo fatto sta cosa del rugby e ho visto questi omoni che non si facevano problemi a buttarsi addosso alle ragazze e loro che riuscivano a farli cadere placcandoli. E non mi sono fatto più questioni. Sanno difendersi, ti assicuro.» «Ma come è successo che avete messo su questa squadra?» «Può dirtelo lui. L’idea è stata la sua.» Guardo oltre il dito di Puccettone e lo vedo che viene verso di me sorridendo.
Ferruccio è stato il mio migliore amico dai cinque ai sedici anni. Eravamo indivisibili. Stava sempre a casa mia o andavamo al parco a cacciare lumache. A casa sua non ci andavo mai. I miei non volevano. Il padre era stato arrestato e si era preso sette anni. La madre piangeva in continuazione. Poi il fratello di Ferro si iniziò a drogare. Lui aveva quindici anni allora e diventò sempre incazzato. Intrattabile. Litigavamo continuamente e cercava di attaccare briga per ogni stronzata. Smettemmo di vederci. Poi seppi che il fratello era morto di overdose. Partii per l’università e ogni volta che chiamavo, Tommaso mi teneva aggiornato su quello che gli succedeva: aveva iniziato a farsi. Aveva rubato. Era stato arrestato. A un certo punto gli dissi di smetterla. Non ne volevo sapere più niente.
«Ferrù…» Vorrei dirgli tante cose. Che mi dispiace, è una. Che avrei dovuto capire. Che gli sarei dovuto stare vicino. Che dovevo tornare a cercarlo. «Enzo!» Mi abbraccia forte, poi mi dà dei colpi sulle spalle, «Sono fiero di te. La laurea, il lavoro. Tommaso mi ha sempre tenuto informato di tutto.» «Io…» Lui mi guarda con gli occhi cerchiati e sorridenti « Vincè, non preoccuparti. Tutta acqua passata. Poi non c’era niente di bello da dirti.»
«Avanti forza, correre. Poi in cerchio per le flessioni.» Sono arrivati tutti alla spicciolata, io sto attaccato a Ferro come alla gonna della mamma. Alcuni non li conoscevo. «Vedi quello? Stava facendo jogging al parco una mattina, Puccettò gli ha urlato: vieni ad allenarti con noi. Lui si è girato dietro, poi ha fatto: ma chi io? Ѐ un anno e mezzo che è il nostro tallonatore.» «E loro?» «Sono Abdul e Mohammed. Siamo andati a reclutare giocatori al centro di accoglienza. Hanno avuto il permesso di soggiorno l’altro ieri. » «Oh c’è Annalisa, e Corsaro! Ma che hanno?» «Ciao belli. Ciao a tutti.» «Uè ma c’è Vincenzo!» «Ma che avete? Limoni?» «Sì, limoni. Abbiamo altre due casse in macchina. Dobbiamo fare il limoncello. Chi ci dà una mano?» Prima dell’allenamento si pelano limoni. «Ti è andata bene che non era periodo di raccolta dei pomodori. Ѐ tremendo.» «Ma Annalisa non era laureata in matematica? E Corsaro faceva lettere.» Annalisa ride. «Non si combinava molto. E c’erano queste terre di mio nonno a Giovi. Abbiamo detto, ma chi ce lo fa fare. E siamo andati a coltivare la terra. Loro ci aiutano coi lavori. Attento a non pelare la parte bianca. Abbiamo tanti progetti belli. Devi passare a vedere una volta.» «Non andare. Ti mettono a raccogliere patate.» «Ok, basta così. Iniziamo l’allenamento.» «Acchiappa a Ferruccio, è già partito.» «Vado a mettere i limoni in macchina. Mi aiuti?» Accompagno Annalisa all’auto. «Era eccitatissimo che venissi a giocare con noi. Anche se non lo fa vedere. » «Pasquale mi ha detto che l’idea della squadra è stata sua.» «Ah, non la sai la storia?» «No.» «Beh, te la devi far raccontare da lui.» «Annalì, in che ruolo gioca Ferruccio?» «Ѐ il numero 8.» «Che fa di particolare l’8?» «Diciamo che è importante nella mischia, è quello che è dietro a tutti, all’ultimo, ma dà la spinta agli altri. Se non ci fosse lui a controllare, a incanalare la forza, a dare la palla al mediano, gli altri non saprebbero cosa fare.»
***
I tre giocatori davanti si allacciano per le braccia, ai lati ci sono i piloni, che reggono gli urti e sostengono la mischia, al centro il tallonatore che cerca di uncinare il pallone coi piedi, prima degli avversari, e spingerlo indietro verso i suoi. I due di dietro incastrano le teste sotto i fianchi di quelli davanti e si fanno compatti grazie agli altri due dell’ultima fila che incrociano le braccia e tengono la testa all’esterno della fila davanti. Questa struttura fa sì che la forza degli otto corpi venga potenziata e incanalata nella spinta che gli impone il numero otto da dietro. La stretta che li unisce fa in modo che quei corpi diventino un corpo solo che ha la potenza di tutti. Ma solo se sono legati bene e se si sostengono gli uni con gli altri questa cosa funziona, altrimenti si disfa e l’energia si disperde.
«BASSI, TOCCO, VIA!» Siamo al secondo giro di birre. Abbiamo brindato a noi, alle docce, a Tommaso, alla Prof. Scarrapieco, alle tette di Annalisa quando era in terza media e alla vittoria del prossimo 14 settembre. «Io però con quelli non lo so se lo faccio il terzo tempo.» «Il terzo tempo è un obbligo morale.» « Ma che obbligo e obbligo. Ѐ la parte migliore.» «Ragà, ma che cazzo è sto terzo tempo. Non avevate detto che erano due?» Corsaro mi spiega: «Dopo le partite si va sempre a bere insieme agli avversari. Quello è il terzo tempo.» «Ma come a bere? Con loro?» «Eccerto, dopo essersi menati per un’ora e venti, è l’unica cosa che resta da fare.»
Ferruccio è uscito a fumare e mi ha chiesto di accompagnarlo. Mi sento bene dove sto, come non mi succedeva da anni. «Ferrù, come ti è venuto di fare sta squadra?» Lui mi guarda e soffia il fumo. «Così, tre anni fa stavo in comunità e ci facevano fare dei laboratori. Era ottobre, tipo. In uno venivano degli allenatori a spiegarci vari sport e io sentii questo che parlava delle regole del rugby. Un bel casino, ma intrigante. E in qualche modo familiare. Nel senso che quelle regole un po’ te le senti dentro, non è proprio apprenderle da fuori, ma riconoscerle in te, nelle tue reazioni, hai presente?» «No, veramente.» «Ti faccio l’esempio che mi ha colpito quel giorno: quando il giocatore che ha la palla cade, quello che deve fare, che gli viene istintivo fare, è proteggere la palla. E i compagni della sua squadra che lo vedono…» «Gli si buttano addosso!» «Sì, bravo, gli si buttano addosso. Per proteggerlo e per permettergli di salvare la palla. Capisci? Gli fanno da schermo, lo coprono per proteggerlo dagli avversari.» Rifletto un attimo. «Ferro, ma tre anni fa era quando Tommaso è uscito dall’ospedale, dopo che si era tolto il primo tumore.»
***
Hanno sospeso la chemio a Tommaso. Lui sta peggio. Ma non gli faceva più effetto. Hanno detto che gli avrebbero dato solo cure palliative. «Mi ero scocciato di andare all’ospedale. Meglio così.» Gli ho raccontato l’ultimo allenamento, di come ho trasformato la touche in maul e lui mi ha detto di farmi spiegare il rolling da Pasquale. Mancano dieci giorni alla partita e ci stiamo allenando praticamente ogni sera e poi stiamo insieme fino a tardi. A parte Cristiano che la mattina alle 4 deve andare al mercato. Ѐ come non averli mai lasciati. Ma non è essere tornato indietro. O forse sì, ma è tornare indietro per andare avanti. «Adesso parli come un vero rugbista.» «Ti salutano tutti. Ferro mi ha detto di chiamarti capocchiò, così ti incazzavi.» Tommaso ride. «Vogliono sapere se vieni alla partita.» Lo sguardo di Tommaso sembra incrinarsi un attimo, ma forse no. Forse è una mia impressione, «Dì a tutti che ci vediamo nel terzo tempo.»

Giovanna Stanzione





domenica 3 settembre 2017

VITA, ASCESA E DECLINO, ANCORA ASCESA E DI NUOVO DECLINO DELL’ILLUSTRISSIMO PROF. ROLANDO CADORNO

L’illustrissimo professor Rolando Cadorno nacque nelle Marche, in un paese di 15.000 anime, quando ancora la sera si riunivano tutti nei bar per vedere la televisione.
Era un bambino gracile e giallognolo e, per quanti sforzi facessero i genitori, non gli si poteva far fare assolutamente nulla.
Per diciotto anni della sua vita si limitò a vivere l’essenziale come quelle zecche che restano immobili attaccate a un muro aspettando il momento buono per lasciarsi cadere su un cane di passaggio.
Il momento buono arrivò nel settembre del 1963 quando, sbalordendo tutti, il giovane Rolando superò i test d’ingresso della Facoltà di Giurisprudenza della città, arrivando primo in graduatoria.
Farò il magistrato – disse ai genitori che lo guardavano come uno sconosciuto. Era la prima volta che mostrava di sapere che esistesse il tempo futuro.
Andò a vivere da solo nella grande città universitaria e letteralmente scomparve, ingoiato dai codici e dai manuali.
Riemerse quattro anni dopo un po’ più giallo e con una pergamena di laurea del suo stesso colore stretta in mano.
Vinse il concorso di magistratura e iniziò la sua ascesa nell’ordine giudiziario.
Divenne noto, ben presto e suo malgrado, per essere un giudice rivoluzionario.
Erano gli anni in cui un pugno di gente levava un gran polverone mettendo ogni cosa in discussione. Il sistema giudiziario era perennemente sotto attacco e, se esplodevano le bombe di tanto in tanto nelle piazze e nelle stazioni, sistematicamente i giudici venivano falciati fuori dai tribunali.
Mentre molti dei suoi colleghi davano le dimissioni, riparavano all’estero o resistevano coraggiosamente, il giovane giudice Cadorno non faceva nessuna di queste cose.
Semplicemente continuava il suo lavoro come aveva sempre fatto, passando in mezzo alle sventagliate di proiettili come in mezzo allo sferragliare dei tram.
Entrava nella sua aula e dava le sue sentenze senza badare né alle blandizie degli avvocati né agli insulti dei bombaroli.
Si fece così la fama di coraggioso, giusto, incorruttibile.
Quando i giornalisti presero a intervistarlo e gli chiedevano se pensasse che i brigadisti dovessero difendersi da soli, rifiutando gli avvocati, rispondeva pensoso: perché no?
Quando gli domandavano a chi dovessero appartenere i diritti civili, rispondeva: a chi li vuole.
Divenne così il paladino dei progressisti e dei garantisti e il simbolo delle lotte per l’autodifesa in tribunale e la cittadinanza universale.
Si ritrovò iscritto al PCI, per volontà dello stesso Berlinguer, e alla Magistratura democratica.
Lo portavano sui palchi e quando iniziava a parlare si faceva sempre un silenzio di tomba, anche perché aveva un tono di voce talmente flebile che nessuno riusciva effettivamente a capire cosa dicesse. Anche i più feroci e arrabbiati oppositori politici che lo affrontavano nei dibattiti, dopo un po’ tacevano spiazzati, perché sembrava che stessero litigando con sé stessi.
Quando i tempi andarono poco a poco calmandosi e nessuno più ammazzava i giudici fuor dai propri desideri, Cadorno lasciò così, come era arrivato, la carriera giudiziaria. Pur di non perderlo, allora, lo fecero professore onorario e lo misero su una cattedra all’Università.
Nel suo scranno da professore, il giudice Rolando Cadorno finì poco a poco nel dimenticatoio pubblico. La cosa non parve turbarlo. 
Gli studenti lo imitavano nei corridoi chiamandolo Professor Cadavere, i colleghi lo ignoravano e la politica sembrava aver deciso di fare a meno di lui. La stella dell’esimio prof. Cadorno sembrava esauritasi in sé stessa, e tutti si comportavano come se fosse stata una svista, una cosa un po’ imbarazzante che aveva accomunato tutti su cui si doveva tacere.
Il prof. Cadorno continuava a insegnare e a scrivere libri.
Per una strana catena di eventi, spiegabile solo con l’insondabilità dei meccanismi editoriali, i libri del professor Cadorno, che in Italia non leggevano neppure i suoi studenti, finirono tradotti in spagnolo e venduti a man bassa nelle università del piccolo ma turbolento Stato sudamericano del Benedicto.
In capo a una decina d’anni non c’era nessun studente di diritto in Benedicto che non conoscesse il nome dell’Illustre professor Cadorno. Era diventato il simbolo e l’archetipo del grande diritto occidentale che – partendo dai gloriosi giuristi latini, Cicerone, Gaio e Giustiniano, passando per i glossatori medievali e i grandi illuministi settecenteschi – si era convogliato tutto in quel piccolo uomo.
Allora accadde che in Benedicto venne indetto un concorso con in palio una borsa di studio che prevedeva un breve viaggio in Europa, a vincerlo fu Josè Eduardo Pinilla, giovane appassionato ricercatore. Il giovane appassionato benedictino era allora volato in Italia per andare a conoscere il grande professor Rolando Cadorno e invitarlo a onorare il loro Paese con la sua presenza. Avrebbero voluto mandare un ambasciatore a farlo, ma il governo era caduto l’ennesima volta e ogni volta che succedeva si cambiavano costituzione e tutti i rappresentati ufficiali dello Stato. Alle volte non avevano neanche il tempo di togliere le vecchie targhette d’ottone dalle porte degli uffici.
Il giovane appassionato José Eduardo ebbe un primo momento di scoramento quando, facendo tappa nelle varie università italiane, gli studenti e i professori con cui chiacchierava mostravano di conoscere poco e niente il grande professore. Era perfino pressoché impossibile trovare le sue opere nelle biblioteche. Il secondo, quando, arrivato nella sua università della Città grande, s’imbatté in un professore che si riferì a Cadorno in questi termini: lombrico inesistente, emerito cretino, ameba addormentata. Sebbene turbata da questi eventi, la sua fede non ne fu scalfita. Pensò che fossero dovuti alla modestia del grande professore, che preferiva restare nell’anonimato, nel primo caso; e ad errori di comprensione dovuti al suo scarsissimo italiano, nel secondo.
Quando giunse tremante al cospetto del Professore quasi svenne quando al suo elaborato invito, che si era ripetuto in testa più volte nel viaggio in aereo e poi in treno, l’illustre Maestro rispose, scrollando le spalle: se lo desiderate.
Partirono insieme per il Benedicto una settimana dopo, il tempo di ottenere tutti i visti e i timbri sul passaporto.
All’arrivo dell’aereo nella capitale, già lo aspettava una folla di gente e la banda universitaria. I professori erano vestiti in gran pompa e il Rettore indossava l’ermellino.
Avevano organizzato per il Professore una serie di sue conferenze in varie università del Paese. Dapprima si svolsero nelle aule ad anfiteatro, poi nelle grandi aule magne. Alla fine le spostarono nei teatri cittadini. Tanta era la folla, non più fatta di soli studenti, che voleva ascoltarlo o anche solo vederlo per un momento. Vennero messi i maxischermi fuori delle piazze e certe grosse casse acustiche alte come un bambino di dodici anni.
L’eccitazione diffusa poteva paragonarsi solo a quella di una visita del papa o di una rock star inglese.
Inevitabilmente sfociò in una nuova rivoluzione, cadde il governo, si volle cambiare ancora una volta la costituzione. Si decise all’unanimità che a scriverla fosse l’illustrissimo Prof. Rolando Cadorno e così avvenne.
La Costituzione Cadorno fece scalpore anche fuori dal Benedicto, era qualcosa di mai tentato prima: veniva stabilito il suffragio universale con la maturità ai sedici anni di età, veniva eliminato l’ergastolo e introdotta la possibilità di difendersi da soli in tribunale. Ma soprattutto venne sancita la cittadinanza universale. Chiunque arrivasse in Benedicto godeva automaticamente dei diritti civili benedictini – niente controlli niente frontiere niente dazi – potevano votare, potevano ricevere i sussidi e la pensione e accedere alle cariche politiche, per il solo fatto di essere sul suolo dello Stato.
Il Benedicto venne celebrato come un’utopia, un sogno moderno, avanzato e democratico, il mondo nuovo.
All’aeroporto, i più grandi onori vennero tributati al Prof. Cadorno quando ripartì. Baciò bambini e belle ragazze in costume tipico, gli consegnarono una medaglia ad onore e le chiavi del municipio, lo pregarono di rimanere e rivestire la carica di Presidente della Repubblica, lui ringraziò e poi chiese a che ora partiva il suo aereo. Lo interpretarono come un gentile ma netto rifiuto.
Non lo sentirono più per cinque anni. Anni in cui il Benedicto, a causa del suo sistema giudiziario fortemente permissivo e mite, all’assenza di frontiere e dazi, alla cittadinanza universale e la possibilità data a chiunque di ricoprire cariche politiche, divenne il paese con la criminalità più alta di tutti i tempi, il fulcro del traffico di cocaina del Sudamerica, il centro del riciclaggio di denaro sporco e la roccaforte politica dei Signori della droga. Le persone presero a maledire a mezza bocca, poi sempre più forte, il nome di Rolando Cadorno, poi non ce la si fece più. Scoppiò la rivoluzione, il governo malavitoso e corrotto venne rovesciato, la costituzione cadorniana venne abbandonata con disonore e nessuno ne volle mai più parlare. Venne revocata la cittadinanza e l’onorificenza tributata al professore italiano e fu vietata la distribuzione e lo studio dei suoi libri.
Di tutto questo il vecchio professore non ne fece conto o forse non ne seppe veramente nulla. Aveva ormai superato gli ottant’anni e continuava a vivere così come sempre aveva vissuto. 
Morì poco dopo nel suo letto con la sua espressione solita e il colorito della pelle che da giallo era diventato un avorio fragile e stinto.
Nessuno oggi mostra di ricordare il suo nome o quanto nella sua vita abbia realizzato. Rimango io solo a dare testimonianza della sua esistenza straordinaria.

La Gonda, Benedicto, 3 marzo 2025,
Prof. José Eduardo Pinilla.


domenica 14 maggio 2017

Spero di non innamorarmi di te


Omaggio a T.W.

Ti sei alzato appena, ho gli occhi chiusi e non ti guardo. Avverto il vuoto di te nel letto che per una minuscola porzione di secondo non ha fatto a tempo a cancellare la tua forma. Li apro e cerco le sigarette. Non è necessario che ti veda, so dove stai andando. E il fatto di saperlo così bene mi sgomenta. Stai mettendo il caffè sul fornello, poi tra un minuto sentirò l’acqua della doccia scrosciare in bagno. Non voglio innamorarmi di te. L’ho pensato dalla prima sera che ti dissi di provarci con me. Tu eri lì da sempre. Con il cuore uguale a sè stesso a sedici a venti a trent’anni. Io non so neanche chi sia me e cosa devo farne.
Non volevo innamorarmi di te. Ma la sera della festa avevi quella parrucca bionda da donna e mi è sembrato un segno. Una bandiera di benvenuto issata sulla tua vita rigorosa e tranquilla. Mi diceva che c’era posto anche per me, pazza com’ero. Bionda – ti ho detto – trova una scusa per tuo marito e vieni da me stanotte. Sei venuto. Ma non mi hai chiesto di innamorarmi di te.
Non sono brava a capire i sentimenti. Non i miei. Ti ho messo alla porta un centinaio di volte. Tu mi guardavi con quegli occhi pieni di casa con giardino e bambini e messa della domenica. E io non volevo assolutamente innamorarmi di te.
Le sigarette non sono da nessuna parte. Me le hai nascoste di nuovo. Prima mi avrebbe preso uno dei miei scoppi di ferocia, ora mi viene da sorridere. Sono nella stessa posizione in cui ti sei sollevato da me. Ti piace guardarmi mentre mi masturbi. Ti metti lì ad accarezzarmi con concentrazione, attraverso la tua mano sai prima di me quando sto per venire. Come fai, ti ho chiesto una volta. Io sento tutto quello che senti tu, mi hai detto.
Entra in camera l’odore acido del caffè, ma non mi va di alzarmi a spegnere il fuoco. Voglio vederti rientrare nel tuo accappatoio azzurro e spiare le forme del tuo corpo tra le pieghe. Voglio vedere come i tuoi capelli bagnati restano su come piume stropicciate, quando ci passi il cappuccio. Voglio vedere il modo ordinato in cui pieghi via le tue cose e le metti al loro posto. Forse un giorno odierò questi gesti uno a uno. Forse mi irriterò entrando dopo di te in bagno e trovandolo intriso di vapore umido. Forse non sopporterò il modo in cui mastichi e perfino il tuo modo di guardarmi. Forse sei solo uno dei milioni di esseri umani di questa terra e non posso pensare che tutti i miei baci dovranno essere per te solo e i desideri della mia vita confusi con i tuoi. Questi i miei forse infiniti, di cui ho bisogno per andare avanti.
E però è successo che ho bisogno di te quando mi prende il panico davanti a quell’indefinito. Ho bisogno dell’appiglio del tuo corpo e delle tue parole che hanno la stessa ferma consistenza, ho bisogno che mi continui a guardare come mi guardi, anche quando poi sarò diversa, con quello sguardo largo e caldo che mi fa sentire piene le mani.
Guardo la porta, aspettando di vederti, e so di essermi innamorata di te.

sabato 18 febbraio 2017

Due incontri

Una notte non riuscivo a dormire. Avevo undici anni. Mi alzai dal letto e scesi al piano di sotto, dov’era il soggiorno. Lì c’era mia madre, ancora sveglia, acciambellata sul divano, in un angolo davanti al televisore. Piangeva. Non avevo ancora mai visto mia madre piangere. Guardava il televisore e piangeva, non si era accorta che la stavo fissando. Distolsi lo sguardo da lei e vidi quello che stava guardando. C’era un uomo sullo schermo, era nel mezzo di un palco, seduto con una gamba accavallata sull’altra, teneva una chitarra in braccio e la suonava sfregandola piano, cantava ad occhi chiusi. Era circondato da una decina di musicisti, davanti aveva centinaia di persone. Ma era come fosse solo al mondo. Quella fu la prima volta che vidi Fabrizio De Andrè.
Era l’11 gennaio del 1999, i telegiornali avevano annunciato la sua morte di cancro ai polmoni, a nemmeno sessant’anni, la rai in seconda serata mandava in onda le riprese del suo ultimo concerto. Mia madre piangeva.
La storia di mia madre e Fabrizio De Andrè era iniziata molti anni prima. Era il 1964, De Andrè aveva ventiquattro anni, ed era pressocchè sconosciuto, mia madre diciannove. Mia madre viveva a Torre Maggiore, un minuscolo paesino dell’entroterra pugliese, lì le novità arrivavano di solito portate dai fuoriusciti, i paesani emigrati che tornavano a casa per le feste. Tra questi, un ragazzo con cui lei e le sue sorelle avevano giocato da bambine. Questo ragazzo e la sua famiglia si erano trasferiti al nord, quando tornavano avevano tutti intorno. Uno di quei giorni inforcò la chitarra e prese a suonare. Cantava una canzone dolcissima e immensamente triste, parlava di una ragazza, Marinella, che era scivolata in un fiume e annegata, dopo aver passato la prima e unica notte d’amore con l’uomo della sua vita. Lui, appresa la notizia della sua morte, non voleva crederci ed era tornato a cercarla ogni notte alla sua porta. Era qualcosa di totalmente nuovo.
Se guardate i filmati di quell’anno, c’è questo ragazzetto smilzo e poi la sua voce. Infinita, profonda, pulita, in nulla impostata, con le sfumature roche e tremanti. Raccontava la canzone, poi lo si seppe, di un fatto di cronaca che riguardava una prostituta che era morta annegata. Ne faceva la regina di una storia bella, delicata e struggente. Era un monumento inaspettato alla sua piccola vita e alla sua piccola morte. Temi questi che non erano ancora mai entrati nelle canzoni dell’epoca.
Il ragazzo che era tornato dal nord nel piccolo paesino della Puglia aveva dichiarato con convinzione di aver composto lui quella canzone. Quella fu la prima volta che mia madre ascoltò una canzone di Fabrizio De Andrè.
Quando fu svelato l’inganno, mia madre corse a procurarsi il 45 giri. Quattro anni dopo, nel 1968, uscì il suo primo album circolare –Tutti morimmo a stento – che da ragazza sentiva e risentiva tutto il giorno chiusa nella sua stanza. Parlava di drogati, di donne stuprate da uomini dabbene, di suicidi accolti in paradiso, di guerra sporca e di criminali impiccati che sputavano maledizioni sui loro aguzzini. Ad un certo punto suo padre, mio nonno, non ce la fece più. Prese il 45 giri, lo ruppe in due metà davanti ai suoi occhi e le ordinò di uscire a far prendere aria alla testa e di non ascoltarlo mai più.
Io, dopo quella prima volta ad undici anni, chiesi a mia madre di poter ascoltare quell’uomo che l’aveva fatta piangere. Sentimmo, per molti anni, due raccolte di canzoni, che conservo ancora in cassetta. C’erano La canzone di Marinella, Bocca di Rosa, Andrea, Il fiume Sand-Creek, Il testamento di Tito e altre.
Prostitute, omosessuali, emarginati, criminali, uomini persi, uomini dimenticati, esiliati della vita.
Ogni canzone mi rapiva la mente, iniziavo a farmi molte domande, ma non mi importavano le risposte, mi importava che quella voce continuasse e continuasse a farmi venire in testa centinaia di domande e cose a cui non avevo mai pensato nella mia esistenza.
Le canzoni di De Andrè furono, credo, la prima letteratura della mia vita. Forse quello che accese la mia sete infinita di parole e di storie. 
Consumai quelle cassette fino ai quindici anni. A quel punto io e mia sorella ricevemmo in regalo dai miei genitori il cofanetto completo dei suoi album. Fu un periodo di scoperte ininterrotte. Non ricordo nella mia vita un anno così pieno di stupore e bellezza e dubbi e dolore e malinconia e rabbia.
Volume uno e Tutti morimmo a stento mi insegnarono la pietà; La buona novella, il sentimento religioso, la spiritualità intima di un cristianesimo umano e disarmato, non per forza liturgico, non per forza condiviso; Storia di un impiegato mi insegnò la rabbia e l’impotenza, la cattiveria corrosiva del potere; Non al denaro non all’amore né al cielo mi insegnò la bellezza della miseria umana; Anime Salve, la necessità di appartenere ai pochi, ai diversi, a quelli che rifiutano le verità troppo semplici o troppo evidenti.
De Andrè, con quella sua voce profonda di occhi chiusi che guardavano dentro, a quindici anni mi insegnò qualcosa di molto complesso e ripugnante e struggente e bello, che un po’ forse è la vita.

venerdì 3 febbraio 2017

Clerici vagantes. Ai giovani perduti dell'Accademia

Clerici vagantes

Portami a casa.
 Cos’è casa?
Casa è il posto dove te ne puoi stare dentro te stesso
 senza che nessuno tenti di cavartene fuori e mandarti via.
Lo sai che non posso.
Perché?
Perché sei morto e di tuo non ho neanche il corpo.
Per Giulio Regeni

A chi apparteniamo? Allo Stato? Alla società? Alla famiglia? Alle “formazioni sociali che permettono il pieno sviluppo della nostra personalità”?
Niente ci appartiene e quindi non apparteniamo a niente. Non abbiamo più crediti verso nessuno. Tutti ci devono qualcosa. Qualcosa che, forse non volendolo, ci hanno sottratto.
Siamo un popolo di senza patria e senza radici. Un popolo apolide e sotterraneo che si incontra, si perde, si ritrova, si riconosce. Sosta e poi riparte. Riparte desiderando sostare. Cosa cerca? Un posto da chiamare casa. Ma chi l’ha persa la casa ce l’ha stampata dentro e nessun’altra può adattarsi alla sua forma.
Siamo i profughi del sapere, i nuovi chierici vaganti con gli zaini strappati e gli affitti stanchi. Siamo dottorandi, assegnisti, post-doc, ricercatori. Siamo le generazioni perdute dell’accademia, quelle che la desidereranno per tutta la vita e non potranno che girarle affannosamente intorno come scarni cani affamati.
Il mondo ha rinunciato a noi. Centinaia, migliaia di menti lasciate fuori. Che cosa avremmo potuto dargli? Non lo sapremo mai. Che cosa ha perso l’umanità futura? Non possiamo immaginarlo.
Se c’è un disegno del fato nelle cose umane, il fato ha scelto di non scrivere lì col nostro inchiostro. Siamo punti muti, pagine bianche. Non lasceremo nulla su quella traccia.
Diventeremo avvocati, bancari, impiegati aziendali. Nessuno ci restituirà i mezzi per mettere a frutto le nostre intuizioni. Le idee che forse un qualche dio illuminato aveva inserito in nuce nella nostra testa, nostra e di nessun altro, seccheranno morte e friabili sul ramo secco delle nostre vite di ripiego.
Ma noi intanto vaghiamo, come un popolo senza patria, alla ricerca di chi ci dica “resta”. Ma raramente accade. Il nostro destino è il movimento e noi siamo il movimento del mondo.
Ma è un mondo sempre più chiuso, ci si stringe intorno alle caviglie. Alzano muri e barriere di tutti i tipi, materiali e immateriali, fatte di stabilità negata o visti sottratti. Muri trasparenti di appropriazione e conservazione.
Ci negate l’accesso al vostro mondo, noi siamo gli straccioni dell’anima, gli accattoni della cultura. Come se non vi servissimo.
Come se non vi servisse quello che abbiamo noi, che è unico e nessuno tornerà a portarvelo.
A volte moriamo. Perché è un mondo incattivito quello in cui ci fate girare. L’avete imbizzarrito voi. Ma voi non dovete più viaggiare. Lo facciamo noi al vostro posto, i manovali della sapienza.
C’è sempre uno di noi che crepa quando succede qualcosa di brutto, un attentato un incidente. Perché noi siamo sparsi ovunque, come manciate di sale sulla strada per evitare che ghiacci.
Dovevamo essere nodi e raccordi, dovevamo avvicinare e unire. E invece non siamo che dei rinnegati. Dei rifiutati. E ci portiamo in cuore il senso dell’abbandono che è un buco nero. Come fa ad unire uno che ha il buco nero in corpo?
Dateci una casa. Fateci entrare. Fateci entrare col camino spento. Il fuoco lo portiamo noi.

domenica 22 gennaio 2017

L'ultimo ospite

“Una valanga… sì, l’hotel Santa Lucia… sì, aspettiamo rinforzi, d’accordo.”
L’ultimo ospite giunge inatteso, ad un’ora imprevista del pomeriggio.
“Sono bloccati dalle tre di questo pomeriggio. Abbiamo ricevuto l’allarme da uno dei superstiti. Vi terremo aggiornati sull’evoluzione dei soccorsi”.
L’ultimo ospite non ha prenotazione, non ha di che pagare ma tutti gli gridano tra le lacrime che paghi. O che qualcuno paghi per lui.
“Porca puttana. Si è ribaltato il gatto delle nevi. Non riusciamo a intervenire al momento. Quante? Venti. Forse più. Manda gente, cazzo”.
Non conosce nessuno, ma spia nelle camere di tutti. Abbatte le porte, sfonda i soffitti.
“Ho ricevuto questa chiamata due ore fa. Piangeva. Diceva mia moglie e i miei figli sono lì dentro. Ho dato l’allarme. Non mi hanno creduto”.
L’ultimo ospite è quello inatteso, che non si fa ignorare.
Porta silenzio, dopo molto rumore. Porta assenza, dopo molto colore.
Non c’è che lui ormai e non esiste più un fuori e un dentro, perché fuori e dentro si sono incontrati e fusi. E quello che era fuori è sprofondato dentro e quello che era dentro è dilaniato e aperto.
L’ultimo ospite ha scacciato il vuoto. Perché con lui non esiste spazio che non possa essere riempito. Ha sconfitto l’esterno, perché non si vede più niente, niente più si sente al di là di lui.
“Come potete vedere l’hotel è interamente sepolto. Quello che emerge, una volta era il tetto. Ci riferiscono che molti degli ospiti si potrebbero essere rifugiati ai piani interrati. Sembra una nave affondata”.
L’ultimo ospite grava pesante sui piani inferiori. E’ diventato soffitto, pareti, panorama e cielo.
L’ultimo ospite ghiaccia l’aria nei polmoni, ma di aria ne rimane poi ancora poca ed è un sollievo.
Lui è freddo e attesa e silenzio.
L’ultimo ospite ha cantato ai bambini una ninnananna di rombi sonori e di suoni cupi, fino al sonno. Poi ha tirato con cura sui loro corpi una spessa coperta di ghiaccio.
“Ci sono mia madre e mio padre lì dentro! Lui era andato in pensione. La prima vacanza dopo tanto tempo.”
L’ultimo ospite si è intromesso tra marito e moglie, ha appianato tutti gli screzi che duravano da anni.
L’ultimo ospite ha scaraventato il cameriere tra le braccia della proprietaria, un abbraccio che entrambi aspettavano da tanto, ma non pensavano che così sarebbe stato.
L’ultimo ospite spinge a lacrime, rimpianti e confessioni.
Volevo vederti crescere. Volevo toccarti ancora. Avrei voluto vivere meglio. Vorrei che tu non fossi qui.
Se solo lo avessi fatto. Se solo non fossi venuto.
L’ultimo ospite tutte le ascolta, le assorbe e le trasforma in silenzio, sempre più prossimo sempre più stanco.
“Quello che vi possiamo promettere è che faremo tutto il possibile in questa situazione”.
L’ultimo ospite ormai conosce tutti.
Ha visto il cuoco scavargli la faccia con le mani, furiosamente, fino a che non riusciva più a chiudere i pugni e le dita sembravano cadergli.
Ha visto l’uomo vecchio piangere sul corpo ancora caldo del suo cane, come fosse l’unica cosa che ancora contasse.
Ha visto l’uomo bugiardo confessare la sua lunga vita a una moglie commossa, commossi entrambi di scoprire di amarsi.
Ha visto la ragazza realizzare che non avrà più un futuro per cui doversi preoccupare e sentirsi improvvisamente senza niente.
Ha visto la receptionist mettere a posto le ultime carte lentamente anche se era il suo volto bianco l’unico interlocutore che ormai aveva davanti.
Ha visto cose brutte del cuore degli uomini e cose bellissime troppo strazianti per poterne parlare.
“Per questa notte dobbiamo interrompere gli scavi, c’è rischio di una nuova slavina”.
L’ultimo ospite è rimasto fino a notte. E rimarrà fino a che ne avrà voglia.
“Non pensiamo possano esserci superstiti”.
Ora tutto tace nel dentrofuori. I sussurri, i singhiozzi e le urla.
Nessuno più entra, nessuno più esce.
L’hotel è al completo.