La
scena è scura, l’attore inizia a parlare sul buio, è in un angolo del palco.
Lentamente si accendono luci soffuse, illuminano una scenografia che riprende
le forme dell’aula della Cassazione: Un tavolo molto lungo a ferro di cavallo,
la scritta sul muro in fondo in caratteri di bronzo “la legge è uguale per
tutti” cui mancano delle lettere, in alto appesi con delle mollette a un filo
per stendere i panni gli ingrandimenti delle foto dei volti dei 7 operai morti.
Ultimo atto del
processo Thyssenkrupp. Udienza di Cassazione.
Durante l’esposizione
del Consigliere relatore, in aula sono presenti gli Avvocati e Professori, il
Presidente e le Eccellenze della Corte, il procuratore generale, l’onda di
fuoco alta 12 metri detta Flash fire, i corpi carbonizzati di sette operai.
Sgocciola sinistramente
l’olio termico dalla relazione del Consigliere, sgocciola sulla scrivania a
ferro di cavallo dell’aula magna della Corte di cassazione. Se scoppiasse una
scintilla, una lingua di fuoco avvolgerebbe il tavolo e i faldoni del processo,
coprendo i giudici e il cancelliere alla vista del pubblico.
(A
questo punto le luci si fanno più calde, dal giallo al rosso, e tremolanti a
simulare il fuoco)
Allarmati, gli
avvocati, otto in tutto, seduti uno di fianco all’altro, dietro un lungo tavolo
rettangolare, correrebbero a mettere mano agli estintori.
Estintori.
(Le
luci tornano soffuse e immobili)
E se non ci fossero gli
estintori?
Come farebbero a
spegnere gli eccellentissimi giudici della corte?
Quelle lunghe toghe
nere paiono piuttosto infiammabili, come pure le sedie di legno foderate di uno
scolorito cuoio rosso, come pure il grande tavolo a U che occupa il fondo
dell’aula.
Si consumerebbero i
capelli bianchi dei consiglieri, polverizzandosi sul cranio come farina.
Brucerebbe la cornice
di legno che troneggia sul muro dietro al presidente, cadrebbero in terra una a
una le lettere di ottone contenute in essa: L A L E G G E E’ U G U A L E P E R
T U T T I.
(Le
lettere in scena cadono in terra una ad una)
Ma tutto questo non
accade.
(si
accendono tutte le luci sul palco la scena diventa chiara, il tavolo con le
toghe posate sulle sedie su cui dovrebbero esserci il presidente al centro, il
procuratore a sinistra e il consigliere relatore a destra, le lettere cadute a
terra)
L’aula è una solita
aula di cassazione, prima che il Consigliere relatore inizi a parlare.
Il Procuratore Generale
siede solitario al margine del tavolo a ferro di cavallo, con lo sguardo di
grosso cane triste fisso nel vuoto e i baffoni spioventi. Non muterà mai, a
nessun insulto degli Avvocati.
I Signori Avvocati e
Professori si pavoneggiano disordinati come volatili, girati gli uni verso gli
altri, troppo grassi per spiccare il volo, contenti di raccattare grano per
terra, contenti della loro stazza che li tiene ben saldi al suolo. Li osservano
i loro pulcini, seduti ansiosi in prima fila, i
giovani collaboratori, pronti a scattare a una richiesta, pronti a
diventare come loro, con gli occhi avidi come volpi.
Entra la Corte, tutti
in piedi. Gli avvocati si disciplinano, mettono su sguardi ipocriti da studenti
del primo banco.
Il Presidente saluta,
si scambiano frasi di circostanza, compiti, educati. Cerca con lo sguardo IL
Professore in mezzo a tutti gli altri. Lo trova. Gli fa un cenno. Deliziami,
gli dice il suo sguardo. Mi annoio, il mondo è basso e un po’ misero per uno
arrivato a questi vertici, per uno arrivato alla mia età. Deliziami. Fammi
riprovare quella scintilla.
Il Professore risponde
allo sguardo e il Presidente è contento, perché il Professore ha gli occhi di
fuoco.
La Giustizia ha sguardi
miopi, nasi grossi e labbra leporine. La Giustizia ha zeta marcate come quelle
di sua Eccellenza il Presidente ed erre mosce come quelle del Consigliere
relatore.
L’aula, che è solo
un’aula quando il Consigliere relatore inizia a parlare, poco a poco gela come
lo stanzone umido e un po’ squallido di una fabbrica di Torino.
(Di
nuovo si fa buio, si sente uno sgocciolio in scena)
Il Consigliere racconta
con parole di acciaio.
Va avanti per quasi due
ore, nel corso delle quali è come se si consumasse. E’ come se i sette anni di
processo cadessero su di lui e si depositassero. Alla fine non è più freddo,non
è più asettico, la voce si incrina, si affievolisce, la fronte suda
copiosamente, deve fermarsi e bere periodicamente, sembra se stesso invecchiato
di decenni.
Parla del processo di
lavorazione dei rulli di acciaio nella linea di ricottura e decapaggio APL5,
spiega il funzionamento di quelle grosse macchine piombate in aula, racconta la
disposizione degli operai, spiega cosa siano i “pulpiti”, i luoghi in cui
stavano per controllare alcuni passaggi.
Dietro ogni passaggio, dietro ogni fase della
lavorazione si annida la tragedia. Dove sarà? Come sarà? Quando accadrà? Chi può
prevederlo?
(L’attore
inizia a mimare i gesti di un operaio in una catena di montaggio sempre gli
stessi ripetuti circolarmente)
Chi può sapere quando
un gesto che ti viene tanto naturale, tanto automatico, a un certo punto, un
certo giorno non lo compirai, ti dimenticherai di farlo? Chi può sapere quando
uno di quei piccoli incendi che scoppiavano giornalmente e venivano presto
spenti diventerà un’onda di fuoco alta 12 metri che ti inghiottirà?
(L’attore
si ferma, guarda su come stesse osservando qualcosa di molto alto)
“Un‘orribile mano dalle
dita di fuoco che non lasciavano scampo”, la descriverà di lì a poco un
avvocato in vena di immagini poetiche.
(Pausa.
L’attore piano torna a guardare il pubblico.)
Chi può prevederlo?
Già. Il problema sta tutto lì.
Noi sappiamo che
succederà, noi aspettiamo il fuoco dietro ogni parola del Consigliere relatore.
Prima o poi scoppierà, bisogna solo capire quando.
E loro? Lo aspettavano
loro? I sette operai armati di estintori che si avvicinano all’ennesimo incendio
per spegnerlo.
Come l’ha definita il
Consigliere relatore? Una nuvola d’olio. Una nube d’olio idraulico si sprigiona
dai tubi, come spray gettato sul fuoco, lo gonfia. Dodici metri, misura quasi
quanto sette uomini stesi uno dietro l’altro.
Le parole fredde
asettiche del Consigliere e d’improvviso il fuoco.
Esplodono nell’aula
quei sette uomini che cercano di domare le fiamme.
(Rumori
di fiamme, grida e richiami soffusi in sottofondo, l’attore mima a gesti lenti
una lotta contro il fuoco. Poi si ferma.)
La cosa successe così:
un tubo di alluminio, inserito nel solito nastro scorrevole, sulla APL5, sbanda,
non è fissato bene. Qualcuno si è dimenticato di premere il pulsante per
centrarlo oppure il meccanismo non ha funzionato. Urta contro le pareti, produce
scintille. Un rotolo di carta oleata, che non doveva essere lì, prende fuoco,
si stacca un pezzo incendiato e precipita al piano di sotto. Al piano di sotto,
pozze di olio stagnante sgocciolato dai tubi che cadono a pezzi, si incendiano
al contatto con la carta infuocata. Era da un po’ che si erano fatti tagli
sulla pulizia dei locali. Gli operai nei pulpiti non se ne accorgono. Quando
qualcuno se ne accorge c’è già un rispettabile incendio, gli operai accorrono,
tutti quelli che possono aiutare aiutano. E’ un altro dei tanti incendi che
spengono giornalmente. La pompa dell’acqua non funziona, non ha abbastanza pressione,
lo si sapeva ma si è provato lo stesso. Le lampadine di emergenza sono bruciate
o mancano. I telefoni di emergenza sono muti, inservibili. Questo piccolo
incendio pare restio anche agli estintori, uno non si è proprio aperto, lo
hanno sostituito subito. (Recitato
velocemente e con ritmo)
E poi: flash fire,
signore e signori. (Flash di luci, l’attore
alza le mani, forzatamente allegro come un presentatore di varietà, musichetta
gaia di sottofondo)
Lo chiamano così questo
muro di fuoco dell’altezza di quattro piani di palazzo. Flash fire, un fenomeno
che avevano ben studiato, anche i signori della Thyssen. Due convegni avevano
dedicato alla sicurezza, vi aveva fatto capolino in entrambi. “Il calore del
fuoco può provocare la rottura di alcuni dei flessibili contenenti olio
idraulico ad altissima pressione, determinando l’immediato diffondersi di una
nube incendiaria”.
(Termina
la musica. L’attore si fa serio.)
Flash fire e non c’è
niente da fare per sette di quegli uomini. Dove puoi scappare da uno scoppio di
fuoco di dodici metri?
Flash fire. Come se il
termine tecnico fosse meno agghiacciante.
Non sono morti
dilaniati da ustioni che gli hanno mangiato vivo il corpo in una lunga agonia
fino alla morte. No, sono stati vittime di un Flash fire. Suona spettacolare,
il nome di un effetto speciale del cinema.
(Si
spengono tutte le luci. Si riaccendono e l’attore è steso sotto una coperta, sdraiato
sul tavolo dei giudici, solleva la testa, guarda il pubblico)
Vi ricordate cosa
stavate facendo la notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007? Io non ricordo dove
fossi, probabilmente dormivo tranquilla nel mio letto.
Alle ore 1 e 43 del
mattino, invece, al 118 di Torino giungeva questa telefonata.
(Si
ristende, le braccia dietro la testa, guarda in alto in attesa, dall’alto
giungono le voci di due attori che recitano la registrazione della telefonata)
* VOCE FEMMINILE (REGISTRATA) - 118 Emergenza.
VOCE MASCHILE - 118?
VOCE MASCHILE - Pronto, buongiorno senta...
VOCE MASCHILE - Le passo l'ambulanza, un attimo.
VOCE MASCHILE - sì, si.
VOCE FEMMINILE REGISTRATA - Attendere prego. Centrale
operativa, attendere
prego. Centrale operativa, attendere prego. Centrale
operativa, attendere...
VOCE MASCHILE - Neanche il 118 risponde, porca
puttana.
VOCE FEMMINILE REGISTRATA - Centrale operativa,
attendere prego. Centrale
operativa, attendere prego.
VOCE MASCHILE - Oh, mai i Vigili non mi rispondono.
Rumori in sottofondo.
VOCE FEMMINILE - 133.
VOCE MASCHILE - Pronto, senta...
VOCE FEMMINILE - Mi dica.
VOCE MASCHILE - Sono della Thyssenkrupp in Corso
Regina, senta è successo un
incidente, ci sono tre o quattro ragazzi bruciati.
VOCE FEMMINILE - Senta, in Corso Regina, dove?
VOCE MASCHILE - La 400, di fronte alla... La
Thyssenkrupp.
VOCE FEMMINILE - La? Che ditta è la vostra?
VOCE MASCHILE - La Thyssenkrupp in Corso Regina 400.
VOCE FEMMINILE - Thyssenkrupp?
VOCE MASCHILE - Il 118 ho chiamato.
VOCE FEMMINILE - Cosa succede? Io ho già provveduto
all'invio dell'ambulanza,
cosa succede?
VOCE MASCHILE - Eh, ma mi sa ne servono due o tre,
perche ce ne sono tre che sono
bruciati.
VOCE FEMMINILE - Quattro bruciati o carbonizzati?
VOCE MASCHILE - Non sono carbonizzati, però abbiamo
cercato di spegnerli, senza
vestiti, senza niente sono.
VOCE FEMMINILE - Senta, faccia trovare qualcuno
all'ingresso, io provvederò
all'invio di più mezzi.
VOCE MASCHILE - Ci so... Allora ci sono le guardie
all'ingresso...
VOCE FEMMINILE - Sì.
VOCE MASCHILE - Arrivano, c'è la portineria, li
accompagnano... Li accompagnano
loro.
VOCE FEMMINILE - Senta, è esploso qualcosa?
VOCE MASCHILE - Ma... Ha preso fuoco un impianto qua,
c'è della carta, dell'olio, di
tutto.
VOCE FEMMINILE - Devo mandare anche il 115 allora.
VOCE MASCHILE - Sì, I'ho provato a chiamare ma mi
hanno detto che erano
impegnati per delle emergenze, ma la cosa è gravissima
qua.
VOCE FEMMINILE - No, no, no, mandiamo anche il 115,
eh. Va bene.
TERZA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - L'avete chiamata
I'ambulanza?
VOCE MASCHILE - L'ho chiamata io. ora...
VOCE FEMMINILE - Sta arrivando l'ambulanza.
Si sentono dei rumori in sottofondo.
VOCE FEMMINILE -Si sentono delle urla in lontananza.
VOCE MASCHILE - Vieni qua, vieni qua, vieni qua.
VOCE FEMMINILE - pronto.
VOCE MASCHILE - l'acqua, l'acqua. Oh, prendete
l'acqua. Lo bagnamo.
QUARTA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - Non voglio
morire.
VOCE MASCHILE - No, no, Beppe, no.
QUARTA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - Non voglio
morire.
VOCE FEMMINILE - Io direi anche tre...
VOCE MASCHILE - Sì, guardi ce ne sono almeno quattro.
VOCE FEMMINILE - Quattro?
VOCE MASCHILE - Ora due ce li ho qua. Teneteli lì,
teneteli.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Ma ci sono anche altre vittime? Ci
sono altre persone?
Si sentono dei rumori in sottofondo.
VOCE MASCHILE - Pronto.
VOCE FEMMINILE – Mi dica, se per caso ci sono altre
persone?
VOCE MASCHILE - Ma guardi... Io ora sto... Sto finendo
il cellulare, si sta scaricando.
Senta, qua abbiamo bisogno...
VOCE FEMMINILE - Sì, io ho già provveduto. Mi ascolti
bene, ho già provveduto, io ho
bisogno di sapere, siccome stiamo provvedendo a
mandarvi tutti i mezzi che abbiamo...
VOCE MASCHILE - sì.
VOCE FEMMINILE - Eh... Se avete il sospetto ci siano
altre persone oltre a quelle
quattro?
VOCE MASCHILE - eh... È probabile però...
VOCE FEMMINILE - è probabile?
VOCE MASCHILE - Si.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Senta, se c'è qualcosa che sta
bruciando c'è il rischio di
un' esplosione, allontanatevi.
VOCE MASCHILE - Andiamo in infermeria, andiamo in
infermeria.
Si sentono delle voci in lontananza.
TERZA VOCE MASCHILE - Avete chiamato il 118?
VOCE MASCHILE - Già li ho chiamati io, sono tutti...
verranno qua. Pronto?
VOCE FEMMINILE - sì, mi dica.
VOCE MASCHILE - Niente, ora ho parlato con... Mamma
mia, ho parlato con la
guardia, ha detto che anche loro hanno chiamato i
Vigili e che stanno arrivando.
VOCE FEMMINILE - Sì, li abbiamo già contattati anche
noi.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - C'è qualcuno che li apre in portineria
al 118, si?
TERZA VOCE MASCHILE - Sì, ho lasciato tutto aperto.
VOCE MASCHILE - Ma come cazzo è successo di colpo
così? Tutti lì erano porca
puttana.
Si sentono delle urla
VOCE MASCHILE - Oh, ma facciamoli andare in infermeria
questi qui però, cazzo son
qua. Li avete visti dove sono? Almeno in infermeria,
no?
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - Guarda lì come sono, prendiamo una
giacca, una cosa.
Si sentono delle urla e delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - Sta arrivando, sta arrivando, sta
arrivando. State a terra, tanto
non risolviamo.
Si sentono delle urla.
VOCE FEMMINILE - Quante persone a terra immobili ci
sono?
VOCE MASCHILE - Qua ce ne sono quattro sicure, ma chi
era a terra lì chi
c'è? Tu a tema, nel gabbiotto. Ce ne ho quattro qua
eh, non so se ce n'è qualcun altro,
quattro sicuri.
VOCE FEMMINILE - Ok, c'è qualcuno che ha delle
bruciature evidenti?
VOCE MASCHILE - Sì, non hanno più vestiti guarda, è su
tutto il corpo.
VOCE FEMMINILE - Ok. La sostanza... le sostanze che
bruciano che cosa sono? Oli?
VOCE MASCHILE - Qua per terra, olio, carta, di tutto,
oro non le so dire cosa c'era,
diciamo...
VOCE FEMMINILE - Ma perché devo ancora informare il 115
se sono sostanze
particolari.
VOCE MASCHILE - Sta arrivando l'ambulanza, allora
aspettate che sta arrivando
l'ambulanza. Sta arrivando. Sta arrivando già qua
l'ambulanza. Sta arrivando, sta
arrivando, è qua.
Rumori in sottofondo.
VOCE MASCHILE - Stanno arrivando, eh. Ma in
portineria, non c'è nessuno in
infermeria?
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Senta. sta arrivando I'ambulanza. io
la lascio. va bene?
VOCE MASCHILE - Sì, va bene. La ringrazio.
VOCE FEMMINILE - Grazie.
VOCE MASCHILE - Ciao.
(Poco a poco la luce si scurisce, fino a lasciare il
palco nella semioscurità)
(Si riaccendono le luci, l’attore è in piedi,
appoggiato al tavolo degli avvocati, indossa la toga)
Uno di quegli avvocati
dalla voce melliflua e il tono suadente, un’onda di capelli argentati, la barba
curata, gli occhi azzurri penetranti,durante la sua arringa dice (l’attore cambia voce ogni volta che recita
la parte dell’avvocato):
“La presenza di
estintori a lunga gittata, eccellenze della corte, sarebbe stata addirittura
criminogena. CRIMINOGENA, signori miei.”
Gli estintori a lunga
gittata possono essere usati da dieci metri di distanza. Gli operai avrebbero
potuto essere investiti da una coda di due metri di fuoco, invece che da una
cascata di dodici metri.
La presenza degli
estintori a lunga gittata sarebbe stata criminogena. Così ha detto, Signor
Avvocato? Ci spieghi, la prego. Ci dica.
“Perché la loro
presenza lì, avrebbe spinto gli operai a credere di dover essere essi stessi a
spegnere le fiamme e, invece di permettere loro di scappare, per andare a chiamare
i vigili del fuoco, li avrebbe spinti verso il pericolo incoraggiandoli a
tentare di domare l’incendio”.
Mi faccia capire,
Signor avvocato, mi lasci capire cos’è che sta dicendo:
La presenza degli estintori
a lunga gittata (c’erano, invece, quelli comuni) avrebbe portato gli operai ad
affrontare il rischio e la morte.
Ma, Signor avvocato,
gli operai sono morti e hanno affrontato il rischio. Pur in
assenza dei suoi pericolosissimi estintori a lunga gittata.
Spegnevano incendi ogni
giorno, molte volte al giorno. Nessuno si sognava di chiamare i vigili del
fuoco ogni giorno, molte volte al giorno, per piccoli fuochi.
Signor avvocato, non
crede che la presenza di estintori a lunga gittata li avrebbe invece fatti
stare un po’ più lontano e quindi un po’ più al sicuro? Poi, chissà, sarebbero
morti lo stesso. O forse no. O forse qualcuno si sarebbe potuto salvare.
E, col suo
ragionamento, qualsiasi strumento di tutela dei lavoratori da incidenti di
vario genere sarebbe “criminogeno” perché li spingerebbe ad agire per
difendersi, invece di fuggire? Ma togliamole tutte queste pericolosissime
tentazioni! Non mettiamo neanche i caschi, non sia mai che spingano gli operai
a fare evoluzioni circensi sulle impalcature. Togliamo le imbracature, le tute
protettive e ignifughe, se no questi ci si buttano direttamente giù dalle
impalcature o dentro al fuoco. E le infermerie? E i kit di pronto soccorso? Ma
vogliamo davvero che questi operai si improvvisino dottori, giocando al piccolo
chirurgo invece di correre a chiamare chi ne sa più di loro? Cri-mi-na-li che
non siete altro!
Ho capito bene, Signor
avvocato?
(Pausa. Mentre si sente da fuori scena la voce del
Testimone 1, l’attore si sfila lentamente la toga e la lascia cadere a terra,
poi si stende lui stesso a terra e resta immobile, uno ad uno entrano sei
attori silenziosi che si stendono in terra in ordine sparso sul pavimento,
alcuni di loro strisciano sul ventre o sulla schiena, lentissimamente, fino a
restare tutti immobili)
* TESTIMONE 1 - “Come ho
passato il passaggio che divide la linea 5 dalla linea 4 ho visto un muro di
fuoco, ecco. Fiamme altissime che arrivavano al carro ponte, bruciava anche il
muro in mattoni. Subito ho detto ai miei colleghi di prendere manichette ed
estintori perché non... Pensavo fossero coinvolti solo gli impianti, non mi ero
reso conto ancora di... Invece appena sono arrivato nelle vicinanze, proprio
vicino al fuoco, ho visto Angelo Laurino e Roberto Scola che erano a terra,
tutti e due erano... Laurino era rivolto con la schiena a terra, Roberto Scola
invece era a faccia a terra, erano completamente nudi, avevano le scarpe che
bruciavano e qualche pezzo di vestito. Non avendo niente, mi sono tolto il
maglione e ho spento quello che era rimasto, Boccuzzi urlava che c'erano gli
altri dentro e si sentivano le urla; allora gli ho chiesto se aveva chiamato
aiuto perché ho visto che noi non potevamo fare più niente, lui mi ha detto che
il telefono non funzionava, allora ho preso il mio cellulare, ho chiamato il
118, la telefonata che avete sentito. Solo che li, come si sente, c'era il
calore che era insopportabile, non potevamo stare li, si sentivano esplosioni, il
fumo, allora i miei colleghi hanno spostato Scola e Laurino vicino... Lontano
dalle fiamme ed io mi sono allontanato tornando verso la linea 4 per poter parlare
al 118 perché c'era troppa confusione. Come ho passato il passaggio di nuovo al
contrario, mi sono ritrovato davanti gli altri miei colleghi in piedi, tutti nudi,
c'era Giuseppe De Masi che io ho riconosciuto solo perché ha parlato, era impossibile
riconoscerli fisicamente, li ho riconosciuti solo dalla voce e mi ha chiesto se
era bruciato in faccia, lui si preoccupava se era bruciato in faccia, ma era
tutto bruciato. Ho cercato di tranquillizzarlo dicendo di stare tranquillo che
avevo chiamato i soccorsi. Rosario urlava "non voglio morire, non voglio
morire". L'ho riconosciuto quando ha detto che non riusciva a respirare e
l’ho aiutato a salire su un'ambulanza, sennò non avevo riconosciuto neanche a
lui”.
(L’attore
inizia a parlare mentre gli altri attori si rialzano ed escono di scena)
Si alzano uno dopo
l’altro gli avvocati, come marionette a scatto di un meccanismo ben oleato.
Fanno le loro difese senza passione, scaricano gli uni le colpe sui clienti
degli altri, con gesti naturali e quasi speculari, senza irritazione. Il clima
è quello di uno strisciante autocompiacimento generale. Come se avessero già
vinto altrove e fossero là solo per celebrare una qualche cerimonia a favore del
pubblico.
“Il mio cliente,
eccellenze della corte, era “l’ultima ruota del carro”, un povero operaio con
la licenza media, che avevano promosso alla vigilanza sulla sicurezza, così per
rispetto, per stima, senza sapere di stargli depositando una croce troppo
pesante sulla schiena. Lui non sapeva niente, non capiva niente, non aveva
alcun potere decisionale o di gestione dei fondi. Poche ore, aveva fatto, di un
corso sulla sicurezza sul lavoro, poche inutili ore, solo una formalità”.
“Il mio cliente, eccellenze della corte, era
sì, un dirigente con poteri decisionali e con a disposizione una misera cifra
da gestire, ma era nella sede di Terni. Cosa poteva fare lui, così lontano?
Come poteva sapere? Lo tenevano all’oscuro di tutto. Quando andava in visita lì,
tutto era lindo, tutto tirato a lucido, nemmeno una cicca trovava sotto le sue
scarpe”.
“Il mio cliente non
sapeva, signori giudici …” “il mio cliente non poteva, Eccellenze…”
Durante i sette anni di
processo, è uscito fuori che la sede Thyssen di Torino era prossima alla
dismissione. Da lì a un paio d’anni, sarebbe stata chiusa definitivamente. Era
stato deciso di comune accordo da un comitato esecutivo, che esisteva non
ufficialmente ma di fatto. Lo sapevano tutti.
I sette operai che ci
sono morti, non so, forse lo sapevano pure loro. Ma che ci potevano fare?
(Di
nuovo rumore di sgocciolio)
Una fabbrica in
dismissione è come un corpo prossimo alla morte, viene lasciato a sé stesso e
ai suoi inevitabili cambiamenti esteriori, al disfacimento, all’emissione di
liquidi e di umori.
Non è più lavato (Il contratto con l’impresa
di pulizia aveva subito una diminuzione di ore di lavoro impressionante), non
lo si protegge più contro le intemperie (di lì a poco si spegnerà, pacificamente,
da solo, sono inutili gli affanni con cui ci si protegge da quello che ormai è
noto debba accadere), non ci si impiegano più sforzi, risorse, cure. Queste
sono tutte attività di stipo del futuro, di messa in sicurezza del futuro, ma
di futuro quella sede ormai non ne ha più, siamo agli sgoccioli.
“Il mio cliente non
sapeva, eccellenze” “… il mio cliente cosa poteva?”
Erano stati stanziati
800.000 euro per la messa in sicurezza della sede di Torino. Erano stati
stanziati dall’alto, non sono mai stati usati. Ora quegli 800.000 euro
giacciono freddi e inutili nelle mani della procura dello Stato.
Ma allora qualcuno
sapeva, ditemi un po’ Illustrissimi signori avvocati. Ma allora qualcosa si
poteva.
Perché quegli 800.000
euro di sicurezza non sono mai stati usati? Chi ne aveva la responsabilità? Chi
la disponibilità? Chi li ha barattati per la vita di sette persone?
(Cambia
voce, riprende quella da avvocato, strascinata e melliflua)
“Ma, Signori giudici,
ma sentite cosa si dice qui? Che per risparmiare 800.000 miseri euro, si
sarebbe messa a rischio non solo la vita di quegli operai ma anche la propria
libertà. Siate ragionevoli, signori miei. 800.000 euro sono briciole! Manca il
corrispettivo. Questa è la domanda che vi dovete sempre porre: quale
corrispettivo?”
Quale corrispettivo.
Si gioca qui la difesa
di molti di quegli avvocati: quale corrispettivo poteva allettare questi
signori a tal punto da distoglierli dall’usare quei soldi destinati alla
sicurezza della sede di Torino mettendo, di conseguenza, a rischio le vite di molti
operai?
Il risparmio e il
reinvestimento di quegli 800.000 euro?
Tutto qui?
Troppo poco.
Troppo poco in
confronto a tutto quello che i dirigenti Thyssen stanno passando da sette anni
a questa parte. Troppo poco rispetto alla gogna pubblica, allo stress, alle
perdite economiche, di reputazione che sono succedute all’ “incidente”.
(Si
siede disinvolto sul tavolo dei giudici, spenzola le gambe)
Ecco, vedete, il
problema con i corrispettivi è questo: non si è mai ben sicuri della presenza o
meno di piccole clausole al margine poste dal caso, che stravolgono le carte in
tavola.
Così piccole da essere difficilmente leggibili
a occhio nudo, prima. Ma che diventano evidenti come una montagna, dopo.
800.000 euro sono
troppo pochi, sì, a fronte dello scoppio di un incendio, di una strage di
operai, di un processo per omicidio colposo, il rischio di una condanna e il
discredito sull’azienda. Ma 800.000 euro non sono affatto pochi, sono una cifra
rispettabilissima, se andasse tutto bene, se quell’incidente fatale, che
potrebbe verificarsi ma potrebbe anche non succedere, non avvenisse.
(Si
spengono le luci, si accendono in un angolo del palco dove due attori recitano
il dialogo)
“Allora, qui si
risparmia sulla sede di Torino, d’accordo? Sta per chiudere, tiriamo avanti
tranquillamente per un altro paio d’anni così come abbiamo sempre fatto negli
ultimi tempi. Da quel versante non ci saranno altre perdite. Non vale la pena
buttarci dentro altri soldi.”
“E quegli
ottocentomila?”
“ Quegli ottocentomila
potranno essere più utili per interventi duraturi, in vista di più redditizi
obiettivi economici aziendali. Piuttosto che bruciati sul binario morto di una
sede in dismissione. Allora, Siamo d’accordo?”
“Aspetta, e se succede
qualcosa? E se avviene un incidente? Scoppia un incendio che distrugge tutto
come a Krefeld? Magari stavolta ci scappa pure il morto? Siamo rovinati.”
“Sono successi finora lì? No. Allora perché fai il menagramo? Le macchine vanno ancora bene, gli operai sanno quello
che fanno.”
“ Ma abbiamo mandato a
Terni tutti quelli specializzati.”
“ Non importa, ma che ci
vuole? Lo sanno fare, non ti preoccupare. E’ tutto automatizzato. Fanno tutto
le macchine.”
“Ma hai sentito degli
incendi quotidiani?”
“ Eh appunto. Che vuoi
che siano, piccoli incendi, due spruzzate di estintore e si spengono subito. Pure
gli operai sono tranquilli. E’ routine.”
“ Ma gli estintori ci
sono?”
“Si ci sono.”
“ E funzionano?”
“ Si funzionano,
tranquillo.
Siamo d’accordo allora?”
(La
luce si spegne sugli attori all’angolo si riaccende sull’attore ancora seduto
al centro del tavolo dei giudici)
Piccola clausola al
margine: Se trascuri il fato, lui non trascurerà te. Se lasci campo libero al
caso, ci si distenderà appieno, come una nube di gas.
Poi per quanto
imprevista dai fiduciosi dirigenti, l’onda di fuoco del Flash fire era ben
nota.
Ma era rara!
Sì, ma non così remota.
Una fabbrica Thyssen era stata rasa al suolo
da un fenomeno analogo solo un anno prima a Krefeld. Nessun morto, quella
volta. Un avvertimento del fato?
Gli avvertimenti stanno
tutti in come li si prende. Se come un monito a preoccuparsi e difendersi, o
come un invito a stare tranquilli perché se pure succedono le disgrazie, alle
volte i danni sono limitati e le conseguenze non così disastrose.
Le previsioni signori
miei, sono soggettive. I rischi pure sono inevitabilmente soggettivi, perfino
quando ti sbattono sotto il naso risultati scientifici oggettivi che ti dicono
che quel fenomeno ha alta probabilità di verificarsi a determinate condizioni.
Il rischio alla fin
fine è qualcosa dell’animo umano. Una scommessa dell’uomo con il Caso.
Il prezzo? Sette vite
umane, la tua esistenza ostaggio di un processo, ingenti perdite economiche. Ma
resta ignoto fino a che il Vincitore non lo viene a ritirare.
(Si
spengono le luci sull’attore che esce di scena, si accendono su due attori
seduti su due sedie l’uno di fronte all’altro)
* DOMANDA - Quindi, siete intervenuti e lei ci ha
detto che ha visto l'incendio e
sembrava che il muro bruciasse.
RISPOSTA - Si, c'era un muretto...
DOMANDA - Ci può spiegare meglio cosa intende
"sembrava che bruciasse il muro",
cioè come si presentava questo muro?
RISPOSTA - Non è che sembrava... Bruciare il muro, non
so se era per l'ondata di olio,
non so per cosa, però il muro in mattoni era a fuoco,
praticamente noi non avevamo...
Non c'era un centimetro dove... Noi avevamo un muro di
fuoco d’avanti.
DOMANDA - Quindi, I'incendio partiva dal
macchinario...
RISPOSTA - Dal macchinario...
DOMANDA - Interessava il passaggio, diciamo pedonale,
il corridoio e arrivava fino al
muro.
RISPOSTA - Fino al muro, sì.
DOMANDA - Quindi sbarrava il passaggio, è corretto?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - È questo che intendeva dire?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - Le persone... Le prime persone che avete
visto, ci può ripetere chi erano
le prime due persone che avete visto?
RISPOSTA - Angelo Laurina e Roberto Scola, ma io
questo lo dico perché in quel
momento non li avevo riconosciuti che erano loro.
DOMANDA - Lei ha capito chi erano dalla voce?
RISPOSTA - No, I'ho capito dopo.
DOMANDA - Come ha fatto a capire chi erano?
RISPOSTA - L'ho capito dopo perche gli altri che erano
lì, poi che hanno parlato,
riconosciuto, mancavano loro due più Schiavone che era
rimasto dentro, però a vederli
così, nonostante li conoscevo da anni, era impossibile
riconoscerli.
DOMANDA - Da dove sono uscite queste due persone,
quando lei li ha visti?
RISPOSTA - Questi due erano già a terra quando sono
arrivato io.
DOMANDA - Oltre questo muro di fuoco?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA – Erano fuori dal muro...
RISPOSTA - Erano tre metri dal muro di fuoco, sono
riusciti probabilmente ad uscire
con le loro forze, però poi non ce l'hanno fatta più.
DOMANDA - Lei li ha visti stesi a terra?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - Parlavano ancora in quel momento?
RISPOSTA - No, rantolavano... Almeno quando sono arrivato
io, rantolavano qualcosa
ma non parlavano, Roberto Scola perdeva qualche
liquido dalla bocca che non so
cos'era, però io pensavo che non ce la facessero
neanche ad arrivare in ospedale.
(Torna
l’attore in scena, si sente un rumore di brezza leggera, l’aria scuote
leggermente le foto appese)
Lo scorrere armonioso
delle difese degli avvocati, la danza delle toghe all’interno del palazzaccio.
Niente a che vedere con fuori, dove tira un
vento feroce che quasi strappa le gigantografie delle facce degli operai morti,
stese su un filo dai parenti, come lenzuoli funebri ad asciugare.
(Aumenta
il rumore del vento e l’aria che si abbatte sulle foto appese quasi a
strapparle)
Niente a che vedere con
le grida dei parenti che hanno preferito rimanere fuori da quelle stanze. Sono
un manipolo di persone, urlano nei megafoni, ma è come se non lo facessero,
qualsiasi suono se lo porta via il vento forte.
(Finisce
tutto. Silenzio.)
(Si
avverte sottile il fischio di un microfono che fa contatto)
Dentro l’aula, il
fischio di un microfono disturba i timpani sensibili degli avvocati, si perde
un quarto d’ora almeno per cercare di eliminarlo, per aggiustare il guasto.
Perché l’avvocato che
deve parlare ora è IL Professore.
Si alza lentamente ma
con decisione e i lembi della sua toga si sollevano piano per il vento che
entra da fuori.
Per un momento si
sprigiona un odore dolciastro, come di fiori troppo maturi, un odore come di
decomposizione. Dura un istante e poi svanisce.
(L’attore
assume la posa del Professore)
“Io ringrazio i Signori
giudici e i colleghi avvocati per gli sforzi comuni che stanno facendo per
condurre il processo verso il più giusto esito. La seduta è ancora lunga quindi
non toglierò loro tempo più dello stretto necessario”.
Non è mieloso il tono
del Professore, non è adulatorio, non è condiscendente.
Non cerca approvazione,
non cerca di convincere, non cerca di blandire.
Non è superbo, non è
pomposo, non è arrogante.
E’ chiaro, è aperto, è
fermo.
Il tono del Professore
dice: stiamo discutendo tutti insieme, da pari a pari. Siamo dalla stessa
parte, allo stesso livello. Lavoriamo insieme. Al bando i titoli di Giudice,
Professore, Avvocato. Siamo un gruppo di operatori del diritto, innamorati del
diritto, vogliamo tutti che il diritto trionfi, che sia interpretato al meglio.
“Qui – dice con
convinzione il Professore – è proprio qui che si crea il diritto. Che si forma
il diritto dello Stato. E tutti noi, tutti!, abbiamo il dovere, verso i
cittadini presenti e futuri, di formarlo al meglio”.
Il qui del Professore,
non è un qui astratto. E’ un qui incredibilmente presente e concreto. Con quel
qui, il Professore ci ha investiti tutti, avvocati giudici pubblico, tutti noi
siamo lì a fare il diritto. Con un discorso, con una frase, anzi con un unico
avverbio, ci ha avocati tutti a lui. Ci ha chiamati a formare qualcosa. Ci ha
responsabilizzati. E’ così che ci sentiamo, è così che si sente ognuno di noi,
in quella stanza, in quel momento.
E’ in questa nostra
disposizione d’animo comune che il Professore inizia la sua arringa.
Non la si può nemmeno
chiamare arringa, è una lezione. Una lectio
magistralis.
Per oltre mezz’ora il
Professore parla della distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Ci
riassume la questione, in termini semplici e immediatamente comprensibili. Ci
espone le diverse correnti di pensiero e i loro argomenti. Ora siamo tutti in
grado di capire, siamo tutti in grado di decidere. Ci ha reso tutti giudici.
E poi espone le sue di
argomentazioni giuridiche, con pacatezza, convinzione, carisma. Dovizia di
casi, dovizia di esempi concreti. Ci sentiamo bene a poterlo seguire nei
passaggi piani e sensati della sua mente, nei paragoni, nelle similitudini.
Tutto torna. Noi, proprio noi, riusciamo a seguire il ragionamento di un grande
professore. E’ come se fossimo lui, come se fosse il nostro ragionamento.
In questa mezz’ora di
lezione giuridica, non vola un suono, non si perde uno sguardo. Dai giudici che
annuiscono involontariamente, al presidente che sorride lievemente per una
dotta citazione latina, al carabiniere di piantone che non riesce a staccargli
gli occhi di dosso, il Professore ha l’attenzione di tutti e non verrà meno
fino alla fine.
Poi d’improvviso tutto
cambia. Il tono del Professore si fa veemente, le sue parole piene di pathos.
E per la prima volta,
mezz’ora dopo aver iniziato, il Professore pronuncia il nome del suo assistito:
Espehnanh.
Harald Espehnanh era
l’amministratore delegato e membro del comitato esecutivo della TKAST con
delega per la produzione, la sicurezza sul lavoro, il personale, gli affari
generali e legali.
Suo era il potere
decisionale, sua la gestione dei conti, suo il ruolo di garanzia per la
sicurezza dei dipendenti. Si può dire che Espehnanh, insieme con i suoi
consiglieri, i dirigenti e i membri del comitato, avesse in mano la vita e la
morte della Thyssen Italia.
Espehnanh e, in diversa
misura, gli altri imputati sono stati accusati di aver omesso di dotare la
Linea APL5 di impianti e apparecchi destinati a prevenire disastri ed infortuni
sul lavoro, di aver omesso di installare un sistema automatico di rilevazione e
spegnimento degli incendi; di aver ignorato, trascurato e celato i segnali di
pericoli, le relazioni degli ingegneri dell’assicurazioni, lo stato di degrado
della struttura; di essere a conoscenza della concreta possibilità del
verificarsi degli incendi, del fenomeno del Flash fire, della volontà della
Thyssenkrupp di adottare qualsiasi misura volta a prevenire questi eventi e non
aver fatto nulla.
Espehnanh e gli altri
conoscevano la situazione. Questa ricostruzione è stata appurata in ogni grado
del processo con prove documentali. Conoscevano l’elevato rischio.
“Giova ribadire,
Eccellenze della Corte, Signori Avvocati, la differenza fondamentale tra dolo e
colpa, che voi ben tutti sapete, che potete insegnare al sottoscritto, di gran
lunga meglio di come farei io stesso a chiunque altro, eppure siamo qui per dissipare
i dubbi del diritto. Tutti insieme. E perché questi dubbi non vengano pagati
sulla pelle dei nostri assistiti.
Nel dolo, ben sapete,
elemento fondamentale è la volizione. L’elemento della volontà. Non si può
ridurre la figura del dolo eventuale alla mera rappresentazione dell’evento e
all’accettazione del rischio, altrimenti non avrebbe una sua propria differente
connotazione rispetto alla colpa cosciente. Quest’ultima prevede che si
rappresenti come altamente probabile un evento, eppure si ritenga di poterlo
evitare. Non lo si desidera. Ci si augura che non avvenga. Non lo si vuole.
Nel dolo eventuale,
invece, quell’evento, quello che ci si è figurati come altamente probabile,
bene, quell’evento lo si accetta. Lo si vuole.
E allora si sta dicendo
qui, Signori miei, che il Signor Espehnanh, padre snaturato dei propri operai,
abbia volontariamente omesso le cautele, abbia volontariamente evitato di
dotare la struttura di adeguati apparecchi di rilevamento e spegnimento di
incendi, ben figurandosi la quasi certezza della morte di quelle persone, ma
preferendo a questa il risparmio dei fondi di investimento per poterli meglio
utilizzare nella sede di Terni.”
Il Professore a questo
punto non può trattenere il proprio sdegno umano, si accalora, alza la voce.
“Si sta dicendo che
quest’uomo vedeva nella sua testa quei poveri corpi bruciati! Li aveva nella
testa e accettava la loro sofferenza! Accettava la loro morte! E per tutto quel
tempo lui aveva i corpi bruciati nella testa, eppure continuava ad agire
secondo i propri scopi.
Si sta dicendo che lui
quei morti bruciati li voleva. Vedete bene. Li stimava meno di zero, li
riteneva un possibile incidente sul percorso, ma nonostante questo, procedeva
inesorabile sulla sua strada.
Beh, dire così, Signori
della Corte, Illustri colleghi, equivale a dire che lui sarebbe stato pronto a
cuor leggero a sparare un colpo in testa a ciascuno di loro. Perché è la stessa
cosa. Dire che li vedeva morti in quell’incendio e che la cosa non gli
interessava, equivale a dire che era pronto a freddarli personalmente, uno ad
uno, pur di perseguire i propri scopi economici.
E io non ci sto. Il diritto forse non può ricostruire la verità assoluta, ma sicuramente deve stare ben lontano dalla menzogna.
E io non ci sto. Il diritto forse non può ricostruire la verità assoluta, ma sicuramente deve stare ben lontano dalla menzogna.
Sono stati compiuti
errori in questa storia, errori drammatici. Ma non tutti dal mio assistito.
Anzi, da lui quasi nessuno. Di molto lo hanno tenuto all’oscuro, molto credeva
che si stesse facendo e non si era invece fatto.
E degli operai, invece,
non si parla. Io non voglio recare oltraggio a quei poveri corpi straziati, ma
il loro dolore non può ricadere come una piaga sulla vita del mio cliente. Vedete
gli errori umani, sono gli errori più comprensibili e più facili da compiere.
Quegli operai hanno compiuto degli errori quel giorno. Errori che si sono
inseriti nella catena causale che ha portato all’evento drammatico ma che
nessuno, per rispetto ai morti, ha il coraggio di ammettere, che nessuna delle
Corti ha tenuto presente in motivazione. Non hanno centrato il rullo, alcuni
non erano alle loro postazioni, c’erano rotoli di carta che non dovevano
trovarsi assolutamente lì.
Non voglio recare
oltraggio ai morti, ma devo proteggere i vivi.
La gente comune,
vedete, si aspetta cose dal diritto che il diritto non può dare. Il giudizio
non può far tornare indietro il tempo, il giudizio non può resuscitare i morti,
il giudizio non può assicurare Giustizia. Il giudizio può solo essere giusto,
nel senso di rispettare il diritto stesso, di rispettare norme, leggi e
principi.
La gente si aspetta dal
giudizio che plachi il suo dolore, che disseti la sua brama di vendetta, che calmi
i loro animi feriti. Ma il giudizio non è fatto per tutte queste cose, non può
fare tutte queste cose. Il giudizio è fatto proprio per mettersi tra di loro e
gli altri uomini che hanno recato loro danno e, come un terzo altissimo,
moderato, ma impietoso, come un terzo levarsi su tutti e su tutto. Il giudizio
non dà consolazione, nessun giudizio lo dà. Deve dare pacificazione.
Compensazione. Ordine.
Noi siamo qui per
questo. Per fare ordine. Non accontenteremo nessuno. Anzi, saranno tutti
scontenti, alla fine. Ma noi avremo fatto il nostro dovere se, nel compiere il
giudizio, avremo rispettato il diritto.
Cambiate il diritto. Se
qualcosa non vi va bene. Cambiate le leggi, cambiate i principi, cambiate le
pene. Ma non chiedete al giudizio di farlo.
Non facciamo punizioni esemplari qui. Non facciamo intimidazione,
prevenzione. Non è questo il compito di questa Corte e di nessun’altra. Non
facciamo neanche carità, consolazione, guarigione. Il compito di questa Corte è
solo dare un giudizio e proteggere il diritto, perché il diritto non sia mai
piegato da una parte o dall’altra sull’onda dell’emozione e della commozione
generale per un singolo caso. La giustizia è solo del singolo caso concreto, noi
qui tuteliamo il giusto per ogni altro caso a venire. E il giusto è che non si
veda dolo dove non c’è volizione, il dolo è la più terribile delle figure
soggettive e deve essere valutata e riconosciuta con estrema cautela.”
*DOMANDA - Si ricorda, c'era
odore e di cosa?
RISPOSTA - Odore di carne
bruciata, possiamo dire, una puzza veramente brutta. Mi
sono avvicinato comunque al
pulpito della linea 5 e ho visto Roberto Scola e Angelo
Laurino ormai straziati
dalle fiamme, in condizioni orribili.
DOMANDA - In che condizioni
erano? Ce lo vuole dire?
RISPOSTA - Completamente
bruciati, non avevano quasi più niente, ormai in uno stato
orribile.
DOMANDA - Le si sono
rivolti? Parlavano? Cosa dicevano?
RISPOSTA - Roberto non
parlava, si lamentava solamente perché Angelo Laurino
continuava a urlare "aiutatemi, spostatemi,
portatemi al sicuro".
RISPOSTA - Li abbiamo presi
praticamente di peso per spostarli però urlavano dal
dolore, avevo paura a
toccarli, la pelle ormai dura, compatta.
DOMANDA - Fece qualcosa sui
corpi di queste povere persone?
RISPOSTA - Spostandoli
praticamente, bastava sfiorarli per causare delle ferite, sensi
di colpa che sicuramente non
dimenticherò.
RISPOSTA- Poi c'era un'altra
cosa, una cosa che mi è rimasta ancora tutt'ora mi porto avanti, sentivamo
delle fiamme però non si vedeva nulla e si sentiva, poi ho saputo dopo che era
Antonio Schiavone che urlava e continuava a chiedere aiuto però non vedevamo
dove fosse non si vedeva assolutamente nulla.
RISPOSTA- Mi girai e vidi
seduto a terra Rodinò Rosario che a sua volta lui molto più cosciente di Scola
Roberto mi disse di non preoccuparmi di lui ma di preoccuparmi piuttosto di
Scola Roberto e di Angelo Laurino che erano molto più messi male di lui.
DOMANDA - Quando lei li ha
visti non avevano più fiamme addosso?
RISPOSTA - No, non avevano
più fiamme addosso però avevano i corpi completamente
carbonizzati, tant'è vero
che ricordo la posizione di Laurino che sembrava un bimbo
appena nato cioè una persona
di una certa altezza ridursi in quelle condizioni, e anche
in quel caso dovetti alzare
la voce per farmi riconoscere.
DOMANDA - Lui non vedeva?
RISPOSTA - No, non mi poteva
vedere perché gli occhi completamente andati.
DOMANDA - Però era
cosciente? Anche Laurino?
RiSPOSTA - Sì era cosciente
perché Laurino mi ripeté di non abbandonare la moglie
con i figli di stare vicino alla propria famiglia di
accompagnarli in questa situazione.
RISPOSTA- …e all'improvviso
dal fumo è uscito fuori Bruno, è uscito Bruno venendomi incontro è lì che mi
sono reso conto di qualcosa che non va perché ho fatto una panoramica, ho visto
comunque che non aveva scarpe era nudo, mi veniva incontro Bruno a braccia
aperte, è il mio incubo, mi veniva incontro a braccia aperte urlando " non
voglio morire non voglio morire". De Masi era fermo lì che diceva: "
cosa ho in faccio cosa ho in faccia?" e Gaspare Trere gli diceva "
non ti preoccupare non hai niente", ma il mio incubo è continuamente
ancora Bruno che mi viene incontro a braccia aperte.
No, Espehnanh non vedeva nella sua testa queste scene. Il problema è stato
proprio questo, che la sua mente e il suo cuore non vedevano.
Non ha visto uomini grossi ridotti a feti rotolarsi per terra, non ha visto
il fantasma di un uomo bollito che esce dalle fiamme a braccia aperte urlando, non
ha sfiorato con le mani una pelle dura in cui si aprivano piaghe enormi ad ogni
tocco. Espehnanh non ha visto tutto questo, né lo avrà mai, per tutta la vita,
nelle orecchie, nella testa e negli occhi. Lui, e gli altri dirigenti, nel
decidere di non mettere in sicurezza l’impianto hanno accettato il rischio che
questo si verificasse. Se lo sono rappresentato, non così vividamente, magari
scegliendo di figurarsi un incendio senza morti, come quello di Krefeld, e lo
hanno accettato. Hanno sperato che non accadesse, certo, per loro e per gli
altri, ma hanno abdicato al ruolo di tutela e di garanzia che avevano nei confronti
delle persone che lavoravano per loro.
Li hanno lasciati inermi e disarmati nel mezzo del pericolo sperando che se
la cavassero.
Chissà se ora però, una qualche notte, Espehnanh non li veda, quegli uomini
vivi mummificati e lacerati, nudi, coi tratti squagliati, i capelli e le ciglia
carbonizzati. Chissà se sono venuti a visitarlo in sonno, quando è più fragile,
e se la moglie lo ha visto sudare nel letto, senza riuscire a svegliarlo.
(Si spengono tutte le luci, quando si
riaccendono i tavoli e le scritte al muro sono coperti da lenzuola polverose,
come quelle con cui si coprono i mobili nelle case quando vengono lasciate
disabitate per lunghi periodi.)
Il giorno dopo aver
assistito all’ultima udienza del processo Thyssen sono partita per un periodo
di studio all’estero.
Durante il volo, quando
ho toccato la terra di un altro Paese, ho pensato, ho continuato a pensare a
cosa fosse servito il processo di cui avevo vissuto l’epilogo e il cui esito
sembrava già scontato. Ho pensato a cosa servissero tutti i processi che si
sono succeduti in Italia in anni e anni e che paiono nascere destinati a
rimanere oscuri, destinati a non raggiungere la luce, a cullarsi la verità in
grembo e poi abortirla dentro di loro.
Ustica, Enichem,
Thyssenkrupp, Ilva, sono nomi che avete sentito, che vi sono familiari, che vi
evocano sensazioni fastidiose, che forse non riuscite a capire, un sentimento
di confusione, di sospetto, forse anche di senso di colpa. Ma perché? Vi chiedete.
Cosa c’entrate voi con l’amministrazione della giustizia dello Stato, con gli
esiti di processi che riguardano morti lontane e sconosciute? Perché provare
questo vago disagio, un sentore di ingiustizia, addirittura un senso di
vergogna?
C’è una parola, nel
greco antico, che esprime bene la natura complessa di questa sensazione, la
parola è aidos.
Aidos
partecipa del significato della vergogna, ma più che essere un sentimento
personale, soggettivo, è qualcosa di profondamente legato alla collettività. Aidos è provare vergogna quando qualcuno
assiste alla nostra vergogna, al nostro disonore. Ed è aidos quello che ci lega quando sentiamo dei processi insoluti, dei
processi dirottati, corrotti, assassinati, lo leggiamo sui giornali e ci
vediamo svergognati, andiamo per le strade, guardiamo gli altri ed è aidos quello che vediamo nei loro occhi e
sentiamo che loro ci guardano e vedono la nostra vergogna e la loro riflessa. E’
questo sentimento insopportabile di vergogna che inconsapevolmente lega tutto
un popolo quando la giustizia che è amministrata in suo nome viene meno, viene
offesa, viene ignorata, viene abbandonata.
(Appaiono
le scritte proiettate sul lenzuolo appeso al muro al centro del palco, l’attore
le indica e le legge scandendo forte)
La giustizia è amministrata nel nome del popolo (art. 101 comma I
Cost.)
La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano (art. 125 comma
II c.p.p.)
La sentenza contiene: a) l'intestazione «in nome del popolo italiano» e
l'indicazione dell'autorità che l'ha pronunciata (art. 426 comma I e 546 comma I
c.p.p.)
Riguarda noi.
Questi articoli della nostra
Costituzione e dei nostri codici, ci stanno dicendo quello che già sappiamo,
che avvertiamo bene: riguarda noi.
E non solo noi come cittadini
italiani. Riguarda noi come esseri umani, come membri della razza umana.
Sentenza di primo grado,
a quattro anni dall’incendio.
(Scritte
proiettate sul lenzuolo mentre l’attore le recita)
Tribunale
ordinario di Torino
Repubblica
Italiana
In
nome del popolo italiano
L’anno
2011, il giorno 15 del mese di aprile, La Seconda Corte d’assise di Torino
condanna l’amministratore delegato Esphenhan a 16 anni e 6 mesi di reclusione,
per il delitto di omicidio volontario plurimo (artt. 81 comma 1, 575 c.p.),
incendio doloso (art. 423 c.p.) e omissione dolosa di cautele contro gli
infortuni sul lavoro aggravata dall’evento (art. 437 comma 2 c.p.). Gli altri
cinque imputati, amministratori e dirigenti dell’impresa, vengono condannati
per il delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro,
nonché per omicidio colposo plurimo e incendio colposo, questi ultimi aggravati
dalla previsione dell’evento. La Corte, altresì, riconosce la responsabilità
amministrativa della società, condannando la ThyssenKrupp Terni S.p.A.
per omicidio colposo ed infliggendole una sanzione pecuniaria pari ad un
milione di euro, nonché disponendo
sanzioni interdittive e la confisca del profitto del reato per una somma
di 800 mila euro.
Sentenza di secondo
grado, due anni dopo.
Corte
d’assise d’appello
Repubblica
italiana
In
nome del popolo italiano
L’anno
2013, il giorno 28 del mese di febbraio, La Corte d’assise d’appello riduce
fortemente le pene, ritenendo non configurabile la fattispecie di omicidio
volontario per Espehnanh e riconoscendogli alcune attenuanti, condannandolo infine
a 10 anni di reclusione. Le pene sono ridotte anche per tutti gli altri
imputati.
Sentenza di Cassazione,
un anno dopo
Corte
di Cassazione
Repubblica
Italiana
In
nome del popolo italiano
Anno
2014, il giorno 24 del mese di aprile, la Suprema Corte ha un compito
fondamentale. Potrebbe mettere fine al processo, in quello stesso giorno,
confermando la sentenza di appello. Invece, pur affermando ancora una volta le
responsabilità, rinvia a un nuovo processo d’Appello per rideterminare le pene.
Che, per legge, possono essere rideterminate solo al ribasso.
Il nuovo processo si svolge a distanza di un anno. Nuovi sconti di pena, anche se molto contenuti. Espehnanh è condannato a 9 anni e 8 mesi. Nuove promesse di ricorsi in Cassazione.
E così l’ultimo atto del
processo Thyssen non è stato affatto l’ultimo.
(Si spengono le scritte)
Aggiustare il guasto.
Questo dovrebbe essere il fine della giustizia dello Stato. Aggiustare là dove
qualcosa, nella società, si è rotto, ma, come qualsiasi artigiano sa, non tutti
i metodi sono adeguati. Esiste un mezzo più giusto degli altri.
La giurisdizione è la
giustizia del caso concreto, non esiste una giustizia data, una giustizia a
priori, la giustizia non risiede nell’alto dei cieli, la giustizia è nel
profondo buio degli intestini della Terra. Va cercata, va individuata, va
scavata, ricondotta alla luce, pulita, levigata. E’ questo e nient’altro il
senso di un processo. E’ un insieme di atti, collegati gli uni agli altri,
preordinati gli uni agli altri, necessari perché si cavi quell’ammasso di
roccia più promettente delle altre, necessari perché pulendolo, si intravveda
uno scintillio. Cosa credete, che la Giustizia sia una cosa data in natura? Già
preconfezionata? O che venga decisa e creata a tavolino da quegli stimabili
uomini che occasionalmente si divertono a vestire toghe nere e a giocare con le
norme dei codici? La giustizia c’è, è lì, è sepolta nel caso concreto, ci
vogliono gli sforzi comuni di molti uomini, compresi quelli dei signori
avvocati, perché la si possa cacciare fuori.
Ed io?
Il mio lavoro è
ricercare e studiare il diritto.
Sul libro di Procedura
penale, all’epoca in cui preparavo l’esame all’università, avevo scritto al
margine:
“Non giudice, né
imputato, ma testimone sempre”.
Ho capito che se ho una
vocazione, è quella alla testimonianza. A portare testimonianza.
Se ci fosse una
carriera da testimone, io la farei, cercando di affinare le doti di attenzione,
memoria, analisi della realtà, imparando l’abilità di trovarsi sempre là dove
succede qualcosa o di testimoniare semplicemente quello che accade attorno.
Che cos’è il mestiere
dello scrittore, se non quello del testimone?
Gli scrittori sono
collaboratori di giustizia, scrissi una volta. Collaboratori di realtà. Vivono
per fare il controcanto alla vita propria e altrui.
A quale fine? Nessun
fine. Il testimone, lo si sa, è persona che non ha interessi nel processo. Non
ha un proprio interesse da salvaguardare. O almeno non dovrebbe.
Gli scrittori quali
testimoni della realtà non hanno interessi da difendere in quel processo
faticoso e litigioso che è l’esistenza. Semplicemente vogliono raccontarla.
E da testimoni
diventano anche i propri inquisitori. Fanno l’interrogatorio di se stessi.
Spesso incrociato, accusa difesa accusa. Si pongono le domande, giurano di
rispondere secondo verità, almeno al meglio della propria verità.
E sta tutto qui il
ruolo dello scrittore nell’esistenza, come del testimone nel processo. Collaborare
a far emergere la verità. Non importa quale, non esiste una sola verità, ma una
composizione di tante che hanno bisogno di essere cavate fuori.
Purché sia vera, va
bene qualsiasi verità.
Io non stavo là,
all’ultima Udienza Thyssen, per fare giustizia. Non ero lì neppure a fare
ingiustizia. O a subirla. Non soffrivo nella mia carne e nel mio sangue le
perdite di quegli operai, non entravano nel mio conto in banca i soldi di
quegli imputati.
Io ero lì per vedere.
Per conoscere e per capire. Forse, per poter poi raccontare a chi non c’era
come in un’aula di tribunale passino realtà e irrealtà, scienza e profitto,
sentimento e freddezza, dolore e noia, spesso tutti insieme, spesso nei
medesimi soggetti.
Come in un’aula di tribunale passi per un
attimo la Giustizia e poi la si perda. Ma quell’attimo ci è stato, tutti
l’hanno visto. Io l’ho visto.
Ed è questo che posso
testimoniare: la giustizia esiste. Io l’ho vista.
Certo, per come è
finita, non appartiene a questo processo, ma è tra gli uomini, c’è.
Non bisogna disperare. Verrà il tempo, verrà
il luogo in cui qualcuno la saprà afferrare. Saprà farla restare. Alle volte,
poche volte, è accaduto.
(Le
luci si spengono sull’attore, inizia una musica, sullo sfondo è proiettata
questa frase di Calamandrei)
Sotto gli archi del processo, scorre la fiumana
inesausta della sorte umana: nessuno più del processualista affacciato a quelle
spallette può cogliere, se ha orecchio per sentire, le voci che salgono dai
gorghi di questa corrente, quest’ansito universale di giustizia, e il dolore
dell’innocenza ingiustamente colpita e la consolazione di chi si accorge
(perché anche questo può accadere talvolta) che alla fine la forza cieca debba
arrendersi alla ragione disarmata.
Piero Calamandrei
(Le luci si riaccendono sull’attore girato a guardare le
scritte dietro di lui, le indica, legge l’ultima frase)
Perché anche questo può accadere talvolta: che alla fine la forza cieca
debba arrendersi alla ragione disarmata.
Per Antonio SCHIAVONE:
"la morte...è stata causata da ustioni di terzo e quarto grado estese al
90% della superficie corporea, che hanno determinato un quadro di shock
primario immediato con meccanismo dicardiaco o neurogeno.”
Per Roberto SCOLA:
"...trasportato al DEA dell'Ospedale CTO di Torino...presentava ustioni di
terzo grado sul 95% della superficie corporea. Erano risparmiate solo le piante
dei piedi ed una piccola area sulla sommità del capo...All’ingresso era
cosciente e molto sofferente...arresto cardiocircolatorio...dopo venti minuti
di tentativi infruttuosi si constata il decesso.”
Per Bruno SANTINO:
"...vengono rilevate ustioni estese al 90% della superficie corporea.”
Per Angelo LAURINO: "
...il paziente giunge cosciente preso il DEA dell'Ospedale Giovanni Bosco di
Torino. All'esame obiettivo vengono rilevate ustioni estese di II e III grado
al 96% della superficie corporea...”
Per Rocco MARZO: " La
distribuzione delle lesioni è particolarmente omogenea, con ustioni profonde,
di III grado, uniformemente diffuse su tutta la superficie del corpo. Una
simile distribuzione è raramente osservabile in soggetti ustionati e, nel caso
di specie si può armonizzare con il fatto che I'uomo sia stato investito da una
nuvola di olio incendiato e, quindi, da un liquido incandescente che si è
uniformemente distribuito su tutta la superficie del corpo e che, inoltre, ha
incendiato in modo pressoché uniforme tutti gli indumenti indossati...”
Per Rosario RODINO':
"…decesso del paziente per ustioni di 2 e 3 grado estese al 90% della
superficie corporea. Ventilazione meccanica. Fiamma da combustione di olii sul
Lavoro.
Per Giuseppe DE MASI:
"... la causa della morte fu uno stato settico (in particolare una
polmonite bilaterale) insorto quale complicanza del decorso di gravissime
ustioni. Si tratta di ustioni valutate clinicamente all’ingresso come di II e
III grado, estese al 90%della superficie corporea, ripetutamente sottoposte ad
interventi di estarectomia volti a rimuovere i tessuti necrotici e ad innesti
cutanei allogenici.”
*Registrazioni e
testimonianze tratte dai testi delle sentenze