lunedì 1 giugno 2015

Sotto gli archi del processo - L'ultimo atto del processo Thyssenkrupp


La scena è scura, l’attore inizia a parlare sul buio, è in un angolo del palco. Lentamente si accendono luci soffuse, illuminano una scenografia che riprende le forme dell’aula della Cassazione: Un tavolo molto lungo a ferro di cavallo, la scritta sul muro in fondo in caratteri di bronzo “la legge è uguale per tutti” cui mancano delle lettere, in alto appesi con delle mollette a un filo per stendere i panni gli ingrandimenti delle foto dei volti dei 7 operai morti.

Ultimo atto del processo Thyssenkrupp. Udienza di Cassazione.
Durante l’esposizione del Consigliere relatore, in aula sono presenti gli Avvocati e Professori, il Presidente e le Eccellenze della Corte, il procuratore generale, l’onda di fuoco alta 12 metri detta Flash fire, i corpi carbonizzati di sette operai.
Sgocciola sinistramente l’olio termico dalla relazione del Consigliere, sgocciola sulla scrivania a ferro di cavallo dell’aula magna della Corte di cassazione. Se scoppiasse una scintilla, una lingua di fuoco avvolgerebbe il tavolo e i faldoni del processo, coprendo i giudici e il cancelliere alla vista del pubblico.
(A questo punto le luci si fanno più calde, dal giallo al rosso, e tremolanti a simulare il fuoco)
Allarmati, gli avvocati, otto in tutto, seduti uno di fianco all’altro, dietro un lungo tavolo rettangolare, correrebbero a mettere mano agli estintori.
Estintori.
(Le luci tornano soffuse e immobili)
E se non ci fossero gli estintori?
Come farebbero a spegnere gli eccellentissimi giudici della corte?
Quelle lunghe toghe nere paiono piuttosto infiammabili, come pure le sedie di legno foderate di uno scolorito cuoio rosso, come pure il grande tavolo a U che occupa il fondo dell’aula.
Si consumerebbero i capelli bianchi dei consiglieri, polverizzandosi sul cranio come farina.
Brucerebbe la cornice di legno che troneggia sul muro dietro al presidente, cadrebbero in terra una a una le lettere di ottone contenute in essa: L A L E G G E E’ U G U A L E P E R T U T T I.
(Le lettere in scena cadono in terra una ad una)

Ma tutto questo non accade.

(si accendono tutte le luci sul palco la scena diventa chiara, il tavolo con le toghe posate sulle sedie su cui dovrebbero esserci il presidente al centro, il procuratore a sinistra e il consigliere relatore a destra, le lettere cadute a terra)
L’aula è una solita aula di cassazione, prima che il Consigliere relatore inizi a parlare.
Il Procuratore Generale siede solitario al margine del tavolo a ferro di cavallo, con lo sguardo di grosso cane triste fisso nel vuoto e i baffoni spioventi. Non muterà mai, a nessun insulto degli Avvocati.
I Signori Avvocati e Professori si pavoneggiano disordinati come volatili, girati gli uni verso gli altri, troppo grassi per spiccare il volo, contenti di raccattare grano per terra, contenti della loro stazza che li tiene ben saldi al suolo. Li osservano i loro pulcini, seduti ansiosi in prima fila, i  giovani collaboratori, pronti a scattare a una richiesta, pronti a diventare come loro, con gli occhi avidi come volpi.
Entra la Corte, tutti in piedi. Gli avvocati si disciplinano, mettono su sguardi ipocriti da studenti del primo banco.
Il Presidente saluta, si scambiano frasi di circostanza, compiti, educati. Cerca con lo sguardo IL Professore in mezzo a tutti gli altri. Lo trova. Gli fa un cenno. Deliziami, gli dice il suo sguardo. Mi annoio, il mondo è basso e un po’ misero per uno arrivato a questi vertici, per uno arrivato alla mia età. Deliziami. Fammi riprovare quella scintilla.
Il Professore risponde allo sguardo e il Presidente è contento, perché il Professore ha gli occhi di fuoco.

La Giustizia ha sguardi miopi, nasi grossi e labbra leporine. La Giustizia ha zeta marcate come quelle di sua Eccellenza il Presidente ed erre mosce come quelle del Consigliere relatore.
L’aula, che è solo un’aula quando il Consigliere relatore inizia a parlare, poco a poco gela come lo stanzone umido e un po’ squallido di una fabbrica di Torino.
(Di nuovo si fa buio, si sente uno sgocciolio in scena)
Il Consigliere racconta con parole di acciaio.
Va avanti per quasi due ore, nel corso delle quali è come se si consumasse. E’ come se i sette anni di processo cadessero su di lui e si depositassero. Alla fine non è più freddo,non è più asettico, la voce si incrina, si affievolisce, la fronte suda copiosamente, deve fermarsi e bere periodicamente, sembra se stesso invecchiato di decenni.
Parla del processo di lavorazione dei rulli di acciaio nella linea di ricottura e decapaggio APL5, spiega il funzionamento di quelle grosse macchine piombate in aula, racconta la disposizione degli operai, spiega cosa siano i “pulpiti”, i luoghi in cui stavano per controllare alcuni passaggi.
 Dietro ogni passaggio, dietro ogni fase della lavorazione si annida la tragedia. Dove sarà? Come sarà? Quando accadrà? Chi può prevederlo?
(L’attore inizia a mimare i gesti di un operaio in una catena di montaggio sempre gli stessi ripetuti circolarmente)
Chi può sapere quando un gesto che ti viene tanto naturale, tanto automatico, a un certo punto, un certo giorno non lo compirai, ti dimenticherai di farlo? Chi può sapere quando uno di quei piccoli incendi che scoppiavano giornalmente e venivano presto spenti diventerà un’onda di fuoco alta 12 metri che ti inghiottirà?
(L’attore si ferma, guarda su come stesse osservando qualcosa di molto alto)
“Un‘orribile mano dalle dita di fuoco che non lasciavano scampo”, la descriverà di lì a poco un avvocato in vena di immagini poetiche.
(Pausa. L’attore piano torna a guardare il pubblico.)
Chi può prevederlo? Già. Il problema sta tutto lì.
Noi sappiamo che succederà, noi aspettiamo il fuoco dietro ogni parola del Consigliere relatore. Prima o poi scoppierà, bisogna solo capire quando.
E loro? Lo aspettavano loro? I sette operai armati di estintori che si avvicinano all’ennesimo incendio per spegnerlo.
Come l’ha definita il Consigliere relatore? Una nuvola d’olio. Una nube d’olio idraulico si sprigiona dai tubi, come spray gettato sul fuoco, lo gonfia. Dodici metri, misura quasi quanto sette uomini stesi uno dietro l’altro.
Le parole fredde asettiche del Consigliere e d’improvviso il fuoco.
Esplodono nell’aula quei sette uomini che cercano di domare le fiamme.
(Rumori di fiamme, grida e richiami soffusi in sottofondo, l’attore mima a gesti lenti una lotta contro il fuoco. Poi si ferma.)
La cosa successe così: un tubo di alluminio, inserito nel solito nastro scorrevole, sulla APL5, sbanda, non è fissato bene. Qualcuno si è dimenticato di premere il pulsante per centrarlo oppure il meccanismo non ha funzionato. Urta contro le pareti, produce scintille. Un rotolo di carta oleata, che non doveva essere lì, prende fuoco, si stacca un pezzo incendiato e precipita al piano di sotto. Al piano di sotto, pozze di olio stagnante sgocciolato dai tubi che cadono a pezzi, si incendiano al contatto con la carta infuocata. Era da un po’ che si erano fatti tagli sulla pulizia dei locali. Gli operai nei pulpiti non se ne accorgono. Quando qualcuno se ne accorge c’è già un rispettabile incendio, gli operai accorrono, tutti quelli che possono aiutare aiutano. E’ un altro dei tanti incendi che spengono giornalmente. La pompa dell’acqua non funziona, non ha abbastanza pressione, lo si sapeva ma si è provato lo stesso. Le lampadine di emergenza sono bruciate o mancano. I telefoni di emergenza sono muti, inservibili. Questo piccolo incendio pare restio anche agli estintori, uno non si è proprio aperto, lo hanno sostituito subito. (Recitato velocemente e con ritmo)  
E poi: flash fire, signore e signori. (Flash di luci, l’attore alza le mani, forzatamente allegro come un presentatore di varietà, musichetta gaia di sottofondo)
Lo chiamano così questo muro di fuoco dell’altezza di quattro piani di palazzo. Flash fire, un fenomeno che avevano ben studiato, anche i signori della Thyssen. Due convegni avevano dedicato alla sicurezza, vi aveva fatto capolino in entrambi. “Il calore del fuoco può provocare la rottura di alcuni dei flessibili contenenti olio idraulico ad altissima pressione, determinando l’immediato diffondersi di una nube incendiaria”.
(Termina la musica. L’attore si fa serio.)
Flash fire e non c’è niente da fare per sette di quegli uomini. Dove puoi scappare da uno scoppio di fuoco di dodici metri?
Flash fire. Come se il termine tecnico fosse meno agghiacciante.
Non sono morti dilaniati da ustioni che gli hanno mangiato vivo il corpo in una lunga agonia fino alla morte. No, sono stati vittime di un Flash fire. Suona spettacolare, il nome di un effetto speciale del cinema.

(Si spengono tutte le luci. Si riaccendono e l’attore è steso sotto una coperta, sdraiato sul tavolo dei giudici, solleva la testa, guarda il pubblico)

Vi ricordate cosa stavate facendo la notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007? Io non ricordo dove fossi, probabilmente dormivo tranquilla nel mio letto.
Alle ore 1 e 43 del mattino, invece, al 118 di Torino giungeva questa telefonata.
(Si ristende, le braccia dietro la testa, guarda in alto in attesa, dall’alto giungono le voci di due attori che recitano la registrazione della telefonata)
* VOCE FEMMINILE (REGISTRATA) - 118 Emergenza.
VOCE MASCHILE - 118?
VOCE MASCHILE - Pronto, buongiorno senta...
VOCE MASCHILE - Le passo l'ambulanza, un attimo.
VOCE MASCHILE - sì, si.
VOCE FEMMINILE REGISTRATA - Attendere prego. Centrale operativa, attendere
prego. Centrale operativa, attendere prego. Centrale operativa, attendere...
VOCE MASCHILE - Neanche il 118 risponde, porca puttana.
VOCE FEMMINILE REGISTRATA - Centrale operativa, attendere prego. Centrale
operativa, attendere prego.
VOCE MASCHILE - Oh, mai i Vigili non mi rispondono.
Rumori in sottofondo.
VOCE FEMMINILE - 133.
VOCE MASCHILE - Pronto, senta...
VOCE FEMMINILE - Mi dica.
VOCE MASCHILE - Sono della Thyssenkrupp in Corso Regina, senta è successo un
incidente, ci sono tre o quattro ragazzi bruciati.
VOCE FEMMINILE - Senta, in Corso Regina, dove?
VOCE MASCHILE - La 400, di fronte alla... La Thyssenkrupp.
VOCE FEMMINILE - La? Che ditta è la vostra?
VOCE MASCHILE - La Thyssenkrupp in Corso Regina 400.
VOCE FEMMINILE - Thyssenkrupp?
VOCE MASCHILE - Il 118 ho chiamato.
VOCE FEMMINILE - Cosa succede? Io ho già provveduto all'invio dell'ambulanza,
cosa succede?
VOCE MASCHILE - Eh, ma mi sa ne servono due o tre, perche ce ne sono tre che sono
bruciati.
VOCE FEMMINILE - Quattro bruciati o carbonizzati?
VOCE MASCHILE - Non sono carbonizzati, però abbiamo cercato di spegnerli, senza
vestiti, senza niente sono.
VOCE FEMMINILE - Senta, faccia trovare qualcuno all'ingresso, io provvederò
all'invio di più mezzi.
VOCE MASCHILE - Ci so... Allora ci sono le guardie all'ingresso...
VOCE FEMMINILE - Sì.
VOCE MASCHILE - Arrivano, c'è la portineria, li accompagnano... Li accompagnano
loro.
VOCE FEMMINILE - Senta, è esploso qualcosa?
VOCE MASCHILE - Ma... Ha preso fuoco un impianto qua, c'è della carta, dell'olio, di
tutto.
VOCE FEMMINILE - Devo mandare anche il 115 allora.
VOCE MASCHILE - Sì, I'ho provato a chiamare ma mi hanno detto che erano
impegnati per delle emergenze, ma la cosa è gravissima qua.
VOCE FEMMINILE - No, no, no, mandiamo anche il 115, eh. Va bene.
TERZA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - L'avete chiamata I'ambulanza?
VOCE MASCHILE - L'ho chiamata io. ora...
VOCE FEMMINILE - Sta arrivando l'ambulanza.
Si sentono dei rumori in sottofondo.
VOCE FEMMINILE -Si sentono delle urla in lontananza.
VOCE MASCHILE - Vieni qua, vieni qua, vieni qua.
VOCE FEMMINILE - pronto.
VOCE MASCHILE - l'acqua, l'acqua. Oh, prendete l'acqua. Lo bagnamo.
QUARTA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - Non voglio morire.
VOCE MASCHILE - No, no, Beppe, no.
QUARTA VOCE MASCHILE (IN LONTANANZA) - Non voglio morire.
VOCE FEMMINILE - Io direi anche tre...
VOCE MASCHILE - Sì, guardi ce ne sono almeno quattro.
VOCE FEMMINILE - Quattro?
VOCE MASCHILE - Ora due ce li ho qua. Teneteli lì, teneteli.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Ma ci sono anche altre vittime? Ci sono altre persone?
Si sentono dei rumori in sottofondo.
VOCE MASCHILE - Pronto.
VOCE FEMMINILE – Mi dica, se per caso ci sono altre persone?
VOCE MASCHILE - Ma guardi... Io ora sto... Sto finendo il cellulare, si sta scaricando.
Senta, qua abbiamo bisogno...
VOCE FEMMINILE - Sì, io ho già provveduto. Mi ascolti bene, ho già provveduto, io ho
bisogno di sapere, siccome stiamo provvedendo a mandarvi tutti i mezzi che abbiamo...
VOCE MASCHILE - sì.
VOCE FEMMINILE - Eh... Se avete il sospetto ci siano altre persone oltre a quelle
quattro?
VOCE MASCHILE - eh... È probabile però...
VOCE FEMMINILE - è probabile?
VOCE MASCHILE - Si.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Senta, se c'è qualcosa che sta bruciando c'è il rischio di
un' esplosione, allontanatevi.
VOCE MASCHILE - Andiamo in infermeria, andiamo in infermeria.
Si sentono delle voci in lontananza.
TERZA VOCE MASCHILE - Avete chiamato il 118?
VOCE MASCHILE - Già li ho chiamati io, sono tutti... verranno qua. Pronto?
VOCE FEMMINILE - sì, mi dica.
VOCE MASCHILE - Niente, ora ho parlato con... Mamma mia, ho parlato con la
guardia, ha detto che anche loro hanno chiamato i Vigili e che stanno arrivando.
VOCE FEMMINILE - Sì, li abbiamo già contattati anche noi.
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - C'è qualcuno che li apre in portineria al 118, si?
TERZA VOCE MASCHILE - Sì, ho lasciato tutto aperto.
VOCE MASCHILE - Ma come cazzo è successo di colpo così? Tutti lì erano porca
puttana.
Si sentono delle urla
VOCE MASCHILE - Oh, ma facciamoli andare in infermeria questi qui però, cazzo son
qua. Li avete visti dove sono? Almeno in infermeria, no?
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - Guarda lì come sono, prendiamo una giacca, una cosa.
Si sentono delle urla e delle voci in lontananza.
VOCE MASCHILE - Sta arrivando, sta arrivando, sta arrivando. State a terra, tanto
non risolviamo.
Si sentono delle urla.
VOCE FEMMINILE - Quante persone a terra immobili ci sono?
VOCE MASCHILE - Qua ce ne sono quattro sicure, ma chi era a terra lì chi
c'è? Tu a tema, nel gabbiotto. Ce ne ho quattro qua eh, non so se ce n'è qualcun altro,
quattro sicuri.
VOCE FEMMINILE - Ok, c'è qualcuno che ha delle bruciature evidenti?
VOCE MASCHILE - Sì, non hanno più vestiti guarda, è su tutto il corpo.
VOCE FEMMINILE - Ok. La sostanza... le sostanze che bruciano che cosa sono? Oli?
VOCE MASCHILE - Qua per terra, olio, carta, di tutto, oro non le so dire cosa c'era,
diciamo...
VOCE FEMMINILE - Ma perché devo ancora informare il 115 se sono sostanze
particolari.
VOCE MASCHILE - Sta arrivando l'ambulanza, allora aspettate che sta arrivando
l'ambulanza. Sta arrivando. Sta arrivando già qua l'ambulanza. Sta arrivando, sta
arrivando, è qua.
Rumori in sottofondo.
VOCE MASCHILE - Stanno arrivando, eh. Ma in portineria, non c'è nessuno in
infermeria?
Si sentono delle voci in lontananza.
VOCE FEMMINILE - Senta. sta arrivando I'ambulanza. io la lascio. va bene?
VOCE MASCHILE - Sì, va bene. La ringrazio.
VOCE FEMMINILE - Grazie.
VOCE MASCHILE - Ciao.
(Poco a poco la luce si scurisce, fino a lasciare il palco nella semioscurità)

(Si riaccendono le luci, l’attore è in piedi, appoggiato al tavolo degli avvocati, indossa la toga)
Uno di quegli avvocati dalla voce melliflua e il tono suadente, un’onda di capelli argentati, la barba curata, gli occhi azzurri penetranti,durante la sua arringa dice (l’attore cambia voce ogni volta che recita la parte dell’avvocato):
“La presenza di estintori a lunga gittata, eccellenze della corte, sarebbe stata addirittura criminogena. CRIMINOGENA, signori miei.”
Gli estintori a lunga gittata possono essere usati da dieci metri di distanza. Gli operai avrebbero potuto essere investiti da una coda di due metri di fuoco, invece che da una cascata di dodici metri.
La presenza degli estintori a lunga gittata sarebbe stata criminogena. Così ha detto, Signor Avvocato? Ci spieghi, la prego. Ci dica.
“Perché la loro presenza lì, avrebbe spinto gli operai a credere di dover essere essi stessi a spegnere le fiamme e, invece di permettere loro di scappare, per andare a chiamare i vigili del fuoco, li avrebbe spinti verso il pericolo incoraggiandoli a tentare di domare l’incendio”.
Mi faccia capire, Signor avvocato, mi lasci capire cos’è che sta dicendo:
La presenza degli estintori a lunga gittata (c’erano, invece, quelli comuni) avrebbe portato gli operai ad affrontare il rischio e la morte.
Ma, Signor avvocato, gli operai sono morti e hanno affrontato il rischio. Pur in assenza dei suoi pericolosissimi estintori a lunga gittata.
Spegnevano incendi ogni giorno, molte volte al giorno. Nessuno si sognava di chiamare i vigili del fuoco ogni giorno, molte volte al giorno, per piccoli fuochi.
Signor avvocato, non crede che la presenza di estintori a lunga gittata li avrebbe invece fatti stare un po’ più lontano e quindi un po’ più al sicuro? Poi, chissà, sarebbero morti lo stesso. O forse no. O forse qualcuno si sarebbe potuto salvare.
E, col suo ragionamento, qualsiasi strumento di tutela dei lavoratori da incidenti di vario genere sarebbe “criminogeno” perché li spingerebbe ad agire per difendersi, invece di fuggire? Ma togliamole tutte queste pericolosissime tentazioni! Non mettiamo neanche i caschi, non sia mai che spingano gli operai a fare evoluzioni circensi sulle impalcature. Togliamo le imbracature, le tute protettive e ignifughe, se no questi ci si buttano direttamente giù dalle impalcature o dentro al fuoco. E le infermerie? E i kit di pronto soccorso? Ma vogliamo davvero che questi operai si improvvisino dottori, giocando al piccolo chirurgo invece di correre a chiamare chi ne sa più di loro? Cri-mi-na-li che non siete altro!
Ho capito bene, Signor avvocato?
(Pausa. Mentre si sente da fuori scena la voce del Testimone 1, l’attore si sfila lentamente la toga e la lascia cadere a terra, poi si stende lui stesso a terra e resta immobile, uno ad uno entrano sei attori silenziosi che si stendono in terra in ordine sparso sul pavimento, alcuni di loro strisciano sul ventre o sulla schiena, lentissimamente, fino a restare tutti immobili)


* TESTIMONE 1 - “Come ho passato il passaggio che divide la linea 5 dalla linea 4 ho visto un muro di fuoco, ecco. Fiamme altissime che arrivavano al carro ponte, bruciava anche il muro in mattoni. Subito ho detto ai miei colleghi di prendere manichette ed estintori perché non... Pensavo fossero coinvolti solo gli impianti, non mi ero reso conto ancora di... Invece appena sono arrivato nelle vicinanze, proprio vicino al fuoco, ho visto Angelo Laurino e Roberto Scola che erano a terra, tutti e due erano... Laurino era rivolto con la schiena a terra, Roberto Scola invece era a faccia a terra, erano completamente nudi, avevano le scarpe che bruciavano e qualche pezzo di vestito. Non avendo niente, mi sono tolto il maglione e ho spento quello che era rimasto, Boccuzzi urlava che c'erano gli altri dentro e si sentivano le urla; allora gli ho chiesto se aveva chiamato aiuto perché ho visto che noi non potevamo fare più niente, lui mi ha detto che il telefono non funzionava, allora ho preso il mio cellulare, ho chiamato il 118, la telefonata che avete sentito. Solo che li, come si sente, c'era il calore che era insopportabile, non potevamo stare li, si sentivano esplosioni, il fumo, allora i miei colleghi hanno spostato Scola e Laurino vicino... Lontano dalle fiamme ed io mi sono allontanato tornando verso la linea 4 per poter parlare al 118 perché c'era troppa confusione. Come ho passato il passaggio di nuovo al contrario, mi sono ritrovato davanti gli altri miei colleghi in piedi, tutti nudi, c'era Giuseppe De Masi che io ho riconosciuto solo perché ha parlato, era impossibile riconoscerli fisicamente, li ho riconosciuti solo dalla voce e mi ha chiesto se era bruciato in faccia, lui si preoccupava se era bruciato in faccia, ma era tutto bruciato. Ho cercato di tranquillizzarlo dicendo di stare tranquillo che avevo chiamato i soccorsi. Rosario urlava "non voglio morire, non voglio morire". L'ho riconosciuto quando ha detto che non riusciva a respirare e l’ho aiutato a salire su un'ambulanza, sennò non avevo riconosciuto neanche a lui”.

(L’attore inizia a parlare mentre gli altri attori si rialzano ed escono di scena)

Si alzano uno dopo l’altro gli avvocati, come marionette a scatto di un meccanismo ben oleato. Fanno le loro difese senza passione, scaricano gli uni le colpe sui clienti degli altri, con gesti naturali e quasi speculari, senza irritazione. Il clima è quello di uno strisciante autocompiacimento generale. Come se avessero già vinto altrove e fossero là solo per celebrare una qualche cerimonia a favore del pubblico.
“Il mio cliente, eccellenze della corte, era “l’ultima ruota del carro”, un povero operaio con la licenza media, che avevano promosso alla vigilanza sulla sicurezza, così per rispetto, per stima, senza sapere di stargli depositando una croce troppo pesante sulla schiena. Lui non sapeva niente, non capiva niente, non aveva alcun potere decisionale o di gestione dei fondi. Poche ore, aveva fatto, di un corso sulla sicurezza sul lavoro, poche inutili ore, solo una formalità”.
“Il mio cliente, eccellenze della corte, era sì, un dirigente con poteri decisionali e con a disposizione una misera cifra da gestire, ma era nella sede di Terni. Cosa poteva fare lui, così lontano? Come poteva sapere? Lo tenevano all’oscuro di tutto. Quando andava in visita lì, tutto era lindo, tutto tirato a lucido, nemmeno una cicca trovava sotto le sue scarpe”.
“Il mio cliente non sapeva, signori giudici …” “il mio cliente non poteva, Eccellenze…”
Durante i sette anni di processo, è uscito fuori che la sede Thyssen di Torino era prossima alla dismissione. Da lì a un paio d’anni, sarebbe stata chiusa definitivamente. Era stato deciso di comune accordo da un comitato esecutivo, che esisteva non ufficialmente ma di fatto. Lo sapevano tutti.
I sette operai che ci sono morti, non so, forse lo sapevano pure loro. Ma che ci potevano fare?
(Di nuovo rumore di sgocciolio)
Una fabbrica in dismissione è come un corpo prossimo alla morte, viene lasciato a sé stesso e ai suoi inevitabili cambiamenti esteriori, al disfacimento, all’emissione di liquidi e di umori.
 Non è più lavato (Il contratto con l’impresa di pulizia aveva subito una diminuzione di ore di lavoro impressionante), non lo si protegge più contro le intemperie (di lì a poco si spegnerà, pacificamente, da solo, sono inutili gli affanni con cui ci si protegge da quello che ormai è noto debba accadere), non ci si impiegano più sforzi, risorse, cure. Queste sono tutte attività di stipo del futuro, di messa in sicurezza del futuro, ma di futuro quella sede ormai non ne ha più, siamo agli sgoccioli.
“Il mio cliente non sapeva, eccellenze” “… il mio cliente cosa poteva?”
Erano stati stanziati 800.000 euro per la messa in sicurezza della sede di Torino. Erano stati stanziati dall’alto, non sono mai stati usati. Ora quegli 800.000 euro giacciono freddi e inutili nelle mani della procura dello Stato.
Ma allora qualcuno sapeva, ditemi un po’ Illustrissimi signori avvocati. Ma allora qualcosa si poteva.
Perché quegli 800.000 euro di sicurezza non sono mai stati usati? Chi ne aveva la responsabilità? Chi la disponibilità? Chi li ha barattati per la vita di sette persone?
(Cambia voce, riprende quella da avvocato, strascinata e melliflua)
“Ma, Signori giudici, ma sentite cosa si dice qui? Che per risparmiare 800.000 miseri euro, si sarebbe messa a rischio non solo la vita di quegli operai ma anche la propria libertà. Siate ragionevoli, signori miei. 800.000 euro sono briciole! Manca il corrispettivo. Questa è la domanda che vi dovete sempre porre: quale corrispettivo?”
Quale corrispettivo.
Si gioca qui la difesa di molti di quegli avvocati: quale corrispettivo poteva allettare questi signori a tal punto da distoglierli dall’usare quei soldi destinati alla sicurezza della sede di Torino mettendo, di conseguenza, a rischio le vite di molti operai?
Il risparmio e il reinvestimento di quegli 800.000 euro?
Tutto qui?
Troppo poco.
Troppo poco in confronto a tutto quello che i dirigenti Thyssen stanno passando da sette anni a questa parte. Troppo poco rispetto alla gogna pubblica, allo stress, alle perdite economiche, di reputazione che sono succedute all’ “incidente”.
(Si siede disinvolto sul tavolo dei giudici, spenzola le gambe)
Ecco, vedete, il problema con i corrispettivi è questo: non si è mai ben sicuri della presenza o meno di piccole clausole al margine poste dal caso, che stravolgono le carte in tavola.
 Così piccole da essere difficilmente leggibili a occhio nudo, prima. Ma che diventano evidenti come una montagna, dopo.
800.000 euro sono troppo pochi, sì, a fronte dello scoppio di un incendio, di una strage di operai, di un processo per omicidio colposo, il rischio di una condanna e il discredito sull’azienda. Ma 800.000 euro non sono affatto pochi, sono una cifra rispettabilissima, se andasse tutto bene, se quell’incidente fatale, che potrebbe verificarsi ma potrebbe anche non succedere, non avvenisse.

(Si spengono le luci, si accendono in un angolo del palco dove due attori recitano il dialogo)

“Allora, qui si risparmia sulla sede di Torino, d’accordo? Sta per chiudere, tiriamo avanti tranquillamente per un altro paio d’anni così come abbiamo sempre fatto negli ultimi tempi. Da quel versante non ci saranno altre perdite. Non vale la pena buttarci dentro altri soldi.”
“E quegli ottocentomila?”
“ Quegli ottocentomila potranno essere più utili per interventi duraturi, in vista di più redditizi obiettivi economici aziendali. Piuttosto che bruciati sul binario morto di una sede in dismissione. Allora, Siamo d’accordo?”
“Aspetta, e se succede qualcosa? E se avviene un incidente? Scoppia un incendio che distrugge tutto come a Krefeld? Magari stavolta ci scappa pure il morto? Siamo rovinati.”
“Sono successi finora lì? No. Allora perché fai il menagramo? Le macchine  vanno ancora bene, gli operai sanno quello che fanno.”
“ Ma abbiamo mandato a Terni tutti quelli specializzati.”
“ Non importa, ma che ci vuole? Lo sanno fare, non ti preoccupare. E’ tutto automatizzato. Fanno tutto le macchine.”
“Ma hai sentito degli incendi quotidiani?”
“ Eh appunto. Che vuoi che siano, piccoli incendi, due spruzzate di estintore e si spengono subito. Pure gli operai sono tranquilli. E’ routine.”
“ Ma gli estintori ci sono?”
“Si ci sono.”
“ E funzionano?”
“ Si funzionano, tranquillo.
Siamo d’accordo allora?”
(La luce si spegne sugli attori all’angolo si riaccende sull’attore ancora seduto al centro del tavolo dei giudici)
Piccola clausola al margine: Se trascuri il fato, lui non trascurerà te. Se lasci campo libero al caso, ci si distenderà appieno, come una nube di gas.
Poi per quanto imprevista dai fiduciosi dirigenti, l’onda di fuoco del Flash fire era ben nota.
Ma era rara!
Sì, ma non così remota.
 Una fabbrica Thyssen era stata rasa al suolo da un fenomeno analogo solo un anno prima a Krefeld. Nessun morto, quella volta. Un avvertimento del fato?
Gli avvertimenti stanno tutti in come li si prende. Se come un monito a preoccuparsi e difendersi, o come un invito a stare tranquilli perché se pure succedono le disgrazie, alle volte i danni sono limitati e le conseguenze non così disastrose.
Le previsioni signori miei, sono soggettive. I rischi pure sono inevitabilmente soggettivi, perfino quando ti sbattono sotto il naso risultati scientifici oggettivi che ti dicono che quel fenomeno ha alta probabilità di verificarsi a determinate condizioni.
Il rischio alla fin fine è qualcosa dell’animo umano. Una scommessa dell’uomo con il Caso.
Il prezzo? Sette vite umane, la tua esistenza ostaggio di un processo, ingenti perdite economiche. Ma resta ignoto fino a che il Vincitore non lo viene a ritirare.
(Si spengono le luci sull’attore che esce di scena, si accendono su due attori seduti su due sedie l’uno di fronte all’altro)
* DOMANDA - Quindi, siete intervenuti e lei ci ha detto che ha visto l'incendio e
sembrava che il muro bruciasse.
RISPOSTA - Si, c'era un muretto...
DOMANDA - Ci può spiegare meglio cosa intende "sembrava che bruciasse il muro",
cioè come si presentava questo muro?
RISPOSTA - Non è che sembrava... Bruciare il muro, non so se era per l'ondata di olio,
non so per cosa, però il muro in mattoni era a fuoco, praticamente noi non avevamo...
Non c'era un centimetro dove... Noi avevamo un muro di fuoco d’avanti.
DOMANDA - Quindi, I'incendio partiva dal macchinario...
RISPOSTA - Dal macchinario...
DOMANDA - Interessava il passaggio, diciamo pedonale, il corridoio e arrivava fino al
muro.
RISPOSTA - Fino al muro, sì.
DOMANDA - Quindi sbarrava il passaggio, è corretto?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - È questo che intendeva dire?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - Le persone... Le prime persone che avete visto, ci può ripetere chi erano
le prime due persone che avete visto?
RISPOSTA - Angelo Laurina e Roberto Scola, ma io questo lo dico perché in quel
momento non li avevo riconosciuti che erano loro.
DOMANDA - Lei ha capito chi erano dalla voce?
RISPOSTA - No, I'ho capito dopo.
DOMANDA - Come ha fatto a capire chi erano?
RISPOSTA - L'ho capito dopo perche gli altri che erano lì, poi che hanno parlato,
riconosciuto, mancavano loro due più Schiavone che era rimasto dentro, però a vederli
così, nonostante li conoscevo da anni, era impossibile riconoscerli.
DOMANDA - Da dove sono uscite queste due persone, quando lei li ha visti?
RISPOSTA - Questi due erano già a terra quando sono arrivato io.
DOMANDA - Oltre questo muro di fuoco?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA – Erano fuori dal muro...
RISPOSTA - Erano tre metri dal muro di fuoco, sono riusciti probabilmente ad uscire
con le loro forze, però poi non ce l'hanno fatta più.
DOMANDA - Lei li ha visti stesi a terra?
RISPOSTA - Sì.
DOMANDA - Parlavano ancora in quel momento?
RISPOSTA - No, rantolavano... Almeno quando sono arrivato io, rantolavano qualcosa
ma non parlavano, Roberto Scola perdeva qualche liquido dalla bocca che non so
cos'era, però io pensavo che non ce la facessero neanche ad arrivare in ospedale.
(Torna l’attore in scena, si sente un rumore di brezza leggera, l’aria scuote leggermente le foto appese)
Lo scorrere armonioso delle difese degli avvocati, la danza delle toghe all’interno del palazzaccio.
 Niente a che vedere con fuori, dove tira un vento feroce che quasi strappa le gigantografie delle facce degli operai morti, stese su un filo dai parenti, come lenzuoli funebri ad asciugare.
(Aumenta il rumore del vento e l’aria che si abbatte sulle foto appese quasi a strapparle)
Niente a che vedere con le grida dei parenti che hanno preferito rimanere fuori da quelle stanze. Sono un manipolo di persone, urlano nei megafoni, ma è come se non lo facessero, qualsiasi suono se lo porta via il vento forte.
(Finisce tutto. Silenzio.)
(Si avverte sottile il fischio di un microfono che fa contatto)
Dentro l’aula, il fischio di un microfono disturba i timpani sensibili degli avvocati, si perde un quarto d’ora almeno per cercare di eliminarlo, per aggiustare il guasto.
Perché l’avvocato che deve parlare ora è IL Professore.
Si alza lentamente ma con decisione e i lembi della sua toga si sollevano piano per il vento che entra da fuori.
Per un momento si sprigiona un odore dolciastro, come di fiori troppo maturi, un odore come di decomposizione. Dura un istante e poi svanisce.
(L’attore assume la posa del Professore)
“Io ringrazio i Signori giudici e i colleghi avvocati per gli sforzi comuni che stanno facendo per condurre il processo verso il più giusto esito. La seduta è ancora lunga quindi non toglierò loro tempo più dello stretto necessario”.
Non è mieloso il tono del Professore, non è adulatorio, non è condiscendente.
Non cerca approvazione, non cerca di convincere, non cerca di blandire.
Non è superbo, non è pomposo, non è arrogante.
E’ chiaro, è aperto, è fermo.
Il tono del Professore dice: stiamo discutendo tutti insieme, da pari a pari. Siamo dalla stessa parte, allo stesso livello. Lavoriamo insieme. Al bando i titoli di Giudice, Professore, Avvocato. Siamo un gruppo di operatori del diritto, innamorati del diritto, vogliamo tutti che il diritto trionfi, che sia interpretato al meglio.
“Qui – dice con convinzione il Professore – è proprio qui che si crea il diritto. Che si forma il diritto dello Stato. E tutti noi, tutti!, abbiamo il dovere, verso i cittadini presenti e futuri, di formarlo al meglio”.
Il qui del Professore, non è un qui astratto. E’ un qui incredibilmente presente e concreto. Con quel qui, il Professore ci ha investiti tutti, avvocati giudici pubblico, tutti noi siamo lì a fare il diritto. Con un discorso, con una frase, anzi con un unico avverbio, ci ha avocati tutti a lui. Ci ha chiamati a formare qualcosa. Ci ha responsabilizzati. E’ così che ci sentiamo, è così che si sente ognuno di noi, in quella stanza, in quel momento.
E’ in questa nostra disposizione d’animo comune che il Professore inizia la sua arringa.
Non la si può nemmeno chiamare arringa, è una lezione. Una lectio magistralis.
Per oltre mezz’ora il Professore parla della distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Ci riassume la questione, in termini semplici e immediatamente comprensibili. Ci espone le diverse correnti di pensiero e i loro argomenti. Ora siamo tutti in grado di capire, siamo tutti in grado di decidere. Ci ha reso tutti giudici.
E poi espone le sue di argomentazioni giuridiche, con pacatezza, convinzione, carisma. Dovizia di casi, dovizia di esempi concreti. Ci sentiamo bene a poterlo seguire nei passaggi piani e sensati della sua mente, nei paragoni, nelle similitudini. Tutto torna. Noi, proprio noi, riusciamo a seguire il ragionamento di un grande professore. E’ come se fossimo lui, come se fosse il nostro ragionamento.
In questa mezz’ora di lezione giuridica, non vola un suono, non si perde uno sguardo. Dai giudici che annuiscono involontariamente, al presidente che sorride lievemente per una dotta citazione latina, al carabiniere di piantone che non riesce a staccargli gli occhi di dosso, il Professore ha l’attenzione di tutti e non verrà meno fino alla fine. 
Poi d’improvviso tutto cambia. Il tono del Professore si fa veemente, le sue parole piene di pathos.
E per la prima volta, mezz’ora dopo aver iniziato, il Professore pronuncia il nome del suo assistito: Espehnanh.
Harald Espehnanh era l’amministratore delegato e membro del comitato esecutivo della TKAST con delega per la produzione, la sicurezza sul lavoro, il personale, gli affari generali e legali.
Suo era il potere decisionale, sua la gestione dei conti, suo il ruolo di garanzia per la sicurezza dei dipendenti. Si può dire che Espehnanh, insieme con i suoi consiglieri, i dirigenti e i membri del comitato, avesse in mano la vita e la morte della Thyssen Italia.
Espehnanh e, in diversa misura, gli altri imputati sono stati accusati di aver omesso di dotare la Linea APL5 di impianti e apparecchi destinati a prevenire disastri ed infortuni sul lavoro, di aver omesso di installare un sistema automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi; di aver ignorato, trascurato e celato i segnali di pericoli, le relazioni degli ingegneri dell’assicurazioni, lo stato di degrado della struttura; di essere a conoscenza della concreta possibilità del verificarsi degli incendi, del fenomeno del Flash fire, della volontà della Thyssenkrupp di adottare qualsiasi misura volta a prevenire questi eventi e non aver fatto nulla.
Espehnanh e gli altri conoscevano la situazione. Questa ricostruzione è stata appurata in ogni grado del processo con prove documentali. Conoscevano l’elevato rischio.
“Giova ribadire, Eccellenze della Corte, Signori Avvocati, la differenza fondamentale tra dolo e colpa, che voi ben tutti sapete, che potete insegnare al sottoscritto, di gran lunga meglio di come farei io stesso a chiunque altro, eppure siamo qui per dissipare i dubbi del diritto. Tutti insieme. E perché questi dubbi non vengano pagati sulla pelle dei nostri assistiti.
Nel dolo, ben sapete, elemento fondamentale è la volizione. L’elemento della volontà. Non si può ridurre la figura del dolo eventuale alla mera rappresentazione dell’evento e all’accettazione del rischio, altrimenti non avrebbe una sua propria differente connotazione rispetto alla colpa cosciente. Quest’ultima prevede che si rappresenti come altamente probabile un evento, eppure si ritenga di poterlo evitare. Non lo si desidera. Ci si augura che non avvenga. Non lo si vuole.
Nel dolo eventuale, invece, quell’evento, quello che ci si è figurati come altamente probabile, bene, quell’evento lo si accetta. Lo si vuole.
E allora si sta dicendo qui, Signori miei, che il Signor Espehnanh, padre snaturato dei propri operai, abbia volontariamente omesso le cautele, abbia volontariamente evitato di dotare la struttura di adeguati apparecchi di rilevamento e spegnimento di incendi, ben figurandosi la quasi certezza della morte di quelle persone, ma preferendo a questa il risparmio dei fondi di investimento per poterli meglio utilizzare nella sede di Terni.”
Il Professore a questo punto non può trattenere il proprio sdegno umano, si accalora, alza la voce.
“Si sta dicendo che quest’uomo vedeva nella sua testa quei poveri corpi bruciati! Li aveva nella testa e accettava la loro sofferenza! Accettava la loro morte! E per tutto quel tempo lui aveva i corpi bruciati nella testa, eppure continuava ad agire secondo i propri scopi.
Si sta dicendo che lui quei morti bruciati li voleva. Vedete bene. Li stimava meno di zero, li riteneva un possibile incidente sul percorso, ma nonostante questo, procedeva inesorabile sulla sua strada.
Beh, dire così, Signori della Corte, Illustri colleghi, equivale a dire che lui sarebbe stato pronto a cuor leggero a sparare un colpo in testa a ciascuno di loro. Perché è la stessa cosa. Dire che li vedeva morti in quell’incendio e che la cosa non gli interessava, equivale a dire che era pronto a freddarli personalmente, uno ad uno, pur di perseguire i propri scopi economici.
E io non ci sto. Il diritto forse non può ricostruire la verità assoluta, ma sicuramente deve stare ben lontano dalla menzogna.
Sono stati compiuti errori in questa storia, errori drammatici. Ma non tutti dal mio assistito. Anzi, da lui quasi nessuno. Di molto lo hanno tenuto all’oscuro, molto credeva che si stesse facendo e non si era invece fatto.
E degli operai, invece, non si parla. Io non voglio recare oltraggio a quei poveri corpi straziati, ma il loro dolore non può ricadere come una piaga sulla vita del mio cliente. Vedete gli errori umani, sono gli errori più comprensibili e più facili da compiere. Quegli operai hanno compiuto degli errori quel giorno. Errori che si sono inseriti nella catena causale che ha portato all’evento drammatico ma che nessuno, per rispetto ai morti, ha il coraggio di ammettere, che nessuna delle Corti ha tenuto presente in motivazione. Non hanno centrato il rullo, alcuni non erano alle loro postazioni, c’erano rotoli di carta che non dovevano trovarsi assolutamente lì.
Non voglio recare oltraggio ai morti, ma devo proteggere i vivi.
La gente comune, vedete, si aspetta cose dal diritto che il diritto non può dare. Il giudizio non può far tornare indietro il tempo, il giudizio non può resuscitare i morti, il giudizio non può assicurare Giustizia. Il giudizio può solo essere giusto, nel senso di rispettare il diritto stesso, di rispettare norme, leggi e principi.
La gente si aspetta dal giudizio che plachi il suo dolore, che disseti la sua brama di vendetta, che calmi i loro animi feriti. Ma il giudizio non è fatto per tutte queste cose, non può fare tutte queste cose. Il giudizio è fatto proprio per mettersi tra di loro e gli altri uomini che hanno recato loro danno e, come un terzo altissimo, moderato, ma impietoso, come un terzo levarsi su tutti e su tutto. Il giudizio non dà consolazione, nessun giudizio lo dà. Deve dare pacificazione. Compensazione. Ordine.
Noi siamo qui per questo. Per fare ordine. Non accontenteremo nessuno. Anzi, saranno tutti scontenti, alla fine. Ma noi avremo fatto il nostro dovere se, nel compiere il giudizio, avremo rispettato il diritto.
Cambiate il diritto. Se qualcosa non vi va bene. Cambiate le leggi, cambiate i principi, cambiate le pene. Ma non chiedete al giudizio di farlo.
Non facciamo punizioni esemplari qui. Non facciamo intimidazione, prevenzione. Non è questo il compito di questa Corte e di nessun’altra. Non facciamo neanche carità, consolazione, guarigione. Il compito di questa Corte è solo dare un giudizio e proteggere il diritto, perché il diritto non sia mai piegato da una parte o dall’altra sull’onda dell’emozione e della commozione generale per un singolo caso. La giustizia è solo del singolo caso concreto, noi qui tuteliamo il giusto per ogni altro caso a venire. E il giusto è che non si veda dolo dove non c’è volizione, il dolo è la più terribile delle figure soggettive e deve essere valutata e riconosciuta con estrema cautela.”

*DOMANDA - Si ricorda, c'era odore e di cosa?
RISPOSTA - Odore di carne bruciata, possiamo dire, una puzza veramente brutta. Mi
sono avvicinato comunque al pulpito della linea 5 e ho visto Roberto Scola e Angelo
Laurino ormai straziati dalle fiamme, in condizioni orribili.
DOMANDA - In che condizioni erano? Ce lo vuole dire?
RISPOSTA - Completamente bruciati, non avevano quasi più niente, ormai in uno stato
orribile.
DOMANDA - Le si sono rivolti? Parlavano? Cosa dicevano?
RISPOSTA - Roberto non parlava, si lamentava solamente perché Angelo Laurino
continuava a urlare "aiutatemi, spostatemi, portatemi al sicuro".

RISPOSTA - Li abbiamo presi praticamente di peso per spostarli però urlavano dal
dolore, avevo paura a toccarli, la pelle ormai dura, compatta.
DOMANDA - Fece qualcosa sui corpi di queste povere persone?
RISPOSTA - Spostandoli praticamente, bastava sfiorarli per causare delle ferite, sensi
di colpa che sicuramente non dimenticherò.


RISPOSTA- Poi c'era un'altra cosa, una cosa che mi è rimasta ancora tutt'ora mi porto avanti, sentivamo delle fiamme però non si vedeva nulla e si sentiva, poi ho saputo dopo che era Antonio Schiavone che urlava e continuava a chiedere aiuto però non vedevamo dove fosse non si vedeva assolutamente nulla.
RISPOSTA- Mi girai e vidi seduto a terra Rodinò Rosario che a sua volta lui molto più cosciente di Scola Roberto mi disse di non preoccuparmi di lui ma di preoccuparmi piuttosto di Scola Roberto e di Angelo Laurino che erano molto più messi male di lui.


DOMANDA - Quando lei li ha visti non avevano più fiamme addosso?
RISPOSTA - No, non avevano più fiamme addosso però avevano i corpi completamente
carbonizzati, tant'è vero che ricordo la posizione di Laurino che sembrava un bimbo
appena nato cioè una persona di una certa altezza ridursi in quelle condizioni, e anche
in quel caso dovetti alzare la voce per farmi riconoscere.
DOMANDA - Lui non vedeva?
RISPOSTA - No, non mi poteva vedere perché gli occhi completamente andati.
DOMANDA - Però era cosciente? Anche Laurino?
RiSPOSTA - Sì era cosciente perché Laurino mi ripeté di non abbandonare la moglie
con i figli di stare vicino alla propria famiglia di accompagnarli in questa situazione.
RISPOSTA- …e all'improvviso dal fumo è uscito fuori Bruno, è uscito Bruno venendomi incontro è lì che mi sono reso conto di qualcosa che non va perché ho fatto una panoramica, ho visto comunque che non aveva scarpe era nudo, mi veniva incontro Bruno a braccia aperte, è il mio incubo, mi veniva incontro a braccia aperte urlando " non voglio morire non voglio morire". De Masi era fermo lì che diceva: " cosa ho in faccio cosa ho in faccia?" e Gaspare Trere gli diceva " non ti preoccupare non hai niente", ma il mio incubo è continuamente ancora Bruno che mi viene incontro a braccia aperte.

No, Espehnanh non vedeva nella sua testa queste scene. Il problema è stato proprio questo, che la sua mente e il suo cuore non vedevano.
Non ha visto uomini grossi ridotti a feti rotolarsi per terra, non ha visto il fantasma di un uomo bollito che esce dalle fiamme a braccia aperte urlando, non ha sfiorato con le mani una pelle dura in cui si aprivano piaghe enormi ad ogni tocco. Espehnanh non ha visto tutto questo, né lo avrà mai, per tutta la vita, nelle orecchie, nella testa e negli occhi. Lui, e gli altri dirigenti, nel decidere di non mettere in sicurezza l’impianto hanno accettato il rischio che questo si verificasse. Se lo sono rappresentato, non così vividamente, magari scegliendo di figurarsi un incendio senza morti, come quello di Krefeld, e lo hanno accettato. Hanno sperato che non accadesse, certo, per loro e per gli altri, ma hanno abdicato al ruolo di tutela e di garanzia che avevano nei confronti delle persone che lavoravano per loro.

Li hanno lasciati inermi e disarmati nel mezzo del pericolo sperando che se la cavassero.

Chissà se ora però, una qualche notte, Espehnanh non li veda, quegli uomini vivi mummificati e lacerati, nudi, coi tratti squagliati, i capelli e le ciglia carbonizzati. Chissà se sono venuti a visitarlo in sonno, quando è più fragile, e se la moglie lo ha visto sudare nel letto, senza riuscire a svegliarlo.


 (Si spengono tutte le luci, quando si riaccendono i tavoli e le scritte al muro sono coperti da lenzuola polverose, come quelle con cui si coprono i mobili nelle case quando vengono lasciate disabitate per lunghi periodi.)


Il giorno dopo aver assistito all’ultima udienza del processo Thyssen sono partita per un periodo di studio all’estero.
Durante il volo, quando ho toccato la terra di un altro Paese, ho pensato, ho continuato a pensare a cosa fosse servito il processo di cui avevo vissuto l’epilogo e il cui esito sembrava già scontato. Ho pensato a cosa servissero tutti i processi che si sono succeduti in Italia in anni e anni e che paiono nascere destinati a rimanere oscuri, destinati a non raggiungere la luce, a cullarsi la verità in grembo e poi abortirla dentro di loro.
Ustica, Enichem, Thyssenkrupp, Ilva, sono nomi che avete sentito, che vi sono familiari, che vi evocano sensazioni fastidiose, che forse non riuscite a capire, un sentimento di confusione, di sospetto, forse anche di senso di colpa. Ma perché? Vi chiedete. Cosa c’entrate voi con l’amministrazione della giustizia dello Stato, con gli esiti di processi che riguardano morti lontane e sconosciute? Perché provare questo vago disagio, un sentore di ingiustizia, addirittura un senso di vergogna?
C’è una parola, nel greco antico, che esprime bene la natura complessa di questa sensazione, la parola è aidos.
Aidos partecipa del significato della vergogna, ma più che essere un sentimento personale, soggettivo, è qualcosa di profondamente legato alla collettività. Aidos è provare vergogna quando qualcuno assiste alla nostra vergogna, al nostro disonore. Ed è aidos quello che ci lega quando sentiamo dei processi insoluti, dei processi dirottati, corrotti, assassinati, lo leggiamo sui giornali e ci vediamo svergognati, andiamo per le strade, guardiamo gli altri ed è aidos quello che vediamo nei loro occhi e sentiamo che loro ci guardano e vedono la nostra vergogna e la loro riflessa. E’ questo sentimento insopportabile di vergogna che inconsapevolmente lega tutto un popolo quando la giustizia che è amministrata in suo nome viene meno, viene offesa, viene ignorata, viene abbandonata.
(Appaiono le scritte proiettate sul lenzuolo appeso al muro al centro del palco, l’attore le indica e le legge scandendo forte)

La giustizia è amministrata nel nome del popolo (art. 101 comma I Cost.)

La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano (art. 125 comma II c.p.p.)

La sentenza contiene: a) l'intestazione «in nome del popolo italiano» e l'indicazione dell'autorità che l'ha pronunciata (art. 426 comma I e 546 comma I c.p.p.)

Riguarda noi.

Questi articoli della nostra Costituzione e dei nostri codici, ci stanno dicendo quello che già sappiamo, che avvertiamo bene: riguarda noi.
E non solo noi come cittadini italiani. Riguarda noi come esseri umani, come membri della razza umana.

Sentenza di primo grado, a quattro anni dall’incendio.
(Scritte proiettate sul lenzuolo mentre l’attore le recita)

Tribunale ordinario di Torino
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
L’anno 2011, il giorno 15 del mese di aprile, La Seconda Corte d’assise di Torino condanna l’amministratore delegato Esphenhan a 16 anni e 6 mesi di reclusione, per il delitto di omicidio volontario plurimo (artt. 81 comma 1, 575 c.p.), incendio doloso (art. 423 c.p.) e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro aggravata dall’evento (art. 437 comma 2 c.p.). Gli altri cinque imputati, amministratori e dirigenti dell’impresa, vengono condannati per il delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, nonché per omicidio colposo plurimo e incendio colposo, questi ultimi aggravati dalla previsione dell’evento. La Corte, altresì, riconosce la responsabilità amministrativa della società, condannando la  ThyssenKrupp Terni S.p.A. per omicidio colposo ed infliggendole una sanzione pecuniaria pari ad un milione di euro, nonché disponendo  sanzioni interdittive e la confisca del profitto del reato per una somma di 800 mila euro.

Sentenza di secondo grado, due anni dopo.

Corte d’assise d’appello
Repubblica italiana
In nome del popolo italiano
L’anno 2013, il giorno 28 del mese di febbraio, La Corte d’assise d’appello riduce fortemente le pene, ritenendo non configurabile la fattispecie di omicidio volontario per Espehnanh e riconoscendogli alcune attenuanti, condannandolo infine a 10 anni di reclusione. Le pene sono ridotte anche per tutti gli altri imputati.

Sentenza di Cassazione, un anno dopo

Corte di Cassazione
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
Anno 2014, il giorno 24 del mese di aprile, la Suprema Corte ha un compito fondamentale. Potrebbe mettere fine al processo, in quello stesso giorno, confermando la sentenza di appello. Invece, pur affermando ancora una volta le responsabilità, rinvia a un nuovo processo d’Appello per rideterminare le pene. Che, per legge, possono essere rideterminate solo al ribasso.

Il nuovo processo si svolge a distanza di un anno. Nuovi sconti di pena, anche se molto contenuti. Espehnanh è condannato a 9 anni e 8 mesi. Nuove promesse di ricorsi in Cassazione.

E così l’ultimo atto del processo Thyssen non è stato affatto l’ultimo.
 (Si spengono le scritte)

Aggiustare il guasto. Questo dovrebbe essere il fine della giustizia dello Stato. Aggiustare là dove qualcosa, nella società, si è rotto, ma, come qualsiasi artigiano sa, non tutti i metodi sono adeguati. Esiste un mezzo più giusto degli altri.
La giurisdizione è la giustizia del caso concreto, non esiste una giustizia data, una giustizia a priori, la giustizia non risiede nell’alto dei cieli, la giustizia è nel profondo buio degli intestini della Terra. Va cercata, va individuata, va scavata, ricondotta alla luce, pulita, levigata. E’ questo e nient’altro il senso di un processo. E’ un insieme di atti, collegati gli uni agli altri, preordinati gli uni agli altri, necessari perché si cavi quell’ammasso di roccia più promettente delle altre, necessari perché pulendolo, si intravveda uno scintillio. Cosa credete, che la Giustizia sia una cosa data in natura? Già preconfezionata? O che venga decisa e creata a tavolino da quegli stimabili uomini che occasionalmente si divertono a vestire toghe nere e a giocare con le norme dei codici? La giustizia c’è, è lì, è sepolta nel caso concreto, ci vogliono gli sforzi comuni di molti uomini, compresi quelli dei signori avvocati, perché la si possa cacciare fuori.

Ed io?
Il mio lavoro è ricercare e studiare il diritto.
Sul libro di Procedura penale, all’epoca in cui preparavo l’esame all’università, avevo scritto al margine:
“Non giudice, né imputato, ma testimone sempre”.
Ho capito che se ho una vocazione, è quella alla testimonianza. A portare testimonianza. 
Se ci fosse una carriera da testimone, io la farei, cercando di affinare le doti di attenzione, memoria, analisi della realtà, imparando l’abilità di trovarsi sempre là dove succede qualcosa o di testimoniare semplicemente quello che accade attorno.
Che cos’è il mestiere dello scrittore, se non quello del testimone?
Gli scrittori sono collaboratori di giustizia, scrissi una volta. Collaboratori di realtà. Vivono per fare il controcanto alla vita propria e altrui.
A quale fine? Nessun fine. Il testimone, lo si sa, è persona che non ha interessi nel processo. Non ha un proprio interesse da salvaguardare. O almeno non dovrebbe.
Gli scrittori quali testimoni della realtà non hanno interessi da difendere in quel processo faticoso e litigioso che è l’esistenza. Semplicemente vogliono raccontarla.
E da testimoni diventano anche i propri inquisitori. Fanno l’interrogatorio di se stessi. Spesso incrociato, accusa difesa accusa. Si pongono le domande, giurano di rispondere secondo verità, almeno al meglio della propria verità.
E sta tutto qui il ruolo dello scrittore nell’esistenza, come del testimone nel processo. Collaborare a far emergere la verità. Non importa quale, non esiste una sola verità, ma una composizione di tante che hanno bisogno di essere cavate fuori.
Purché sia vera, va bene qualsiasi verità.
Io non stavo là, all’ultima Udienza Thyssen, per fare giustizia. Non ero lì neppure a fare ingiustizia. O a subirla. Non soffrivo nella mia carne e nel mio sangue le perdite di quegli operai, non entravano nel mio conto in banca i soldi di quegli imputati.
Io ero lì per vedere. Per conoscere e per capire. Forse, per poter poi raccontare a chi non c’era come in un’aula di tribunale passino realtà e irrealtà, scienza e profitto, sentimento e freddezza, dolore e noia, spesso tutti insieme, spesso nei medesimi soggetti.
 Come in un’aula di tribunale passi per un attimo la Giustizia e poi la si perda. Ma quell’attimo ci è stato, tutti l’hanno visto. Io l’ho visto.
Ed è questo che posso testimoniare: la giustizia esiste. Io l’ho vista.
Certo, per come è finita, non appartiene a questo processo, ma è tra gli uomini, c’è.
 Non bisogna disperare. Verrà il tempo, verrà il luogo in cui qualcuno la saprà afferrare. Saprà farla restare. Alle volte, poche volte, è accaduto.
(Le luci si spengono sull’attore, inizia una musica, sullo sfondo è proiettata questa frase di Calamandrei)

Sotto gli archi del processo, scorre la fiumana inesausta della sorte umana: nessuno più del processualista affacciato a quelle spallette può cogliere, se ha orecchio per sentire, le voci che salgono dai gorghi di questa corrente, quest’ansito universale di giustizia, e il dolore dell’innocenza ingiustamente colpita e la consolazione di chi si accorge (perché anche questo può accadere talvolta) che alla fine la forza cieca debba arrendersi alla ragione disarmata.
Piero Calamandrei

(Le luci si riaccendono sull’attore girato a guardare le scritte dietro di lui, le indica, legge l’ultima frase)

Perché anche questo può accadere talvolta: che alla fine la forza cieca debba arrendersi alla ragione disarmata.








Per Antonio SCHIAVONE: "la morte...è stata causata da ustioni di terzo e quarto grado estese al 90% della superficie corporea, che hanno determinato un quadro di shock primario immediato con meccanismo dicardiaco o neurogeno.”
Per Roberto SCOLA: "...trasportato al DEA dell'Ospedale CTO di Torino...presentava ustioni di terzo grado sul 95% della superficie corporea. Erano risparmiate solo le piante dei piedi ed una piccola area sulla sommità del capo...All’ingresso era cosciente e molto sofferente...arresto cardiocircolatorio...dopo venti minuti di tentativi infruttuosi si constata il decesso.”
Per Bruno SANTINO: "...vengono rilevate ustioni estese al 90% della superficie corporea.”
Per Angelo LAURINO: " ...il paziente giunge cosciente preso il DEA dell'Ospedale Giovanni Bosco di Torino. All'esame obiettivo vengono rilevate ustioni estese di II e III grado al 96% della superficie corporea...”
Per Rocco MARZO: " La distribuzione delle lesioni è particolarmente omogenea, con ustioni profonde, di III grado, uniformemente diffuse su tutta la superficie del corpo. Una simile distribuzione è raramente osservabile in soggetti ustionati e, nel caso di specie si può armonizzare con il fatto che I'uomo sia stato investito da una nuvola di olio incendiato e, quindi, da un liquido incandescente che si è uniformemente distribuito su tutta la superficie del corpo e che, inoltre, ha incendiato in modo pressoché uniforme tutti gli indumenti indossati...”
Per Rosario RODINO': "…decesso del paziente per ustioni di 2 e 3 grado estese al 90% della superficie corporea. Ventilazione meccanica. Fiamma da combustione di olii sul Lavoro.
Per Giuseppe DE MASI: "... la causa della morte fu uno stato settico (in particolare una polmonite bilaterale) insorto quale complicanza del decorso di gravissime ustioni. Si tratta di ustioni valutate clinicamente all’ingresso come di II e III grado, estese al 90%della superficie corporea, ripetutamente sottoposte ad interventi di estarectomia volti a rimuovere i tessuti necrotici e ad innesti cutanei allogenici.”



*Registrazioni e testimonianze tratte dai testi delle sentenze