lunedì 12 dicembre 2016

Salerno doppia faccia

Foto di Francesca Bifulco

Salerno doppia faccia, come una moneta.
Salerno dei veleni sotterranei e dei pare brutto che nascondono la bocca.
Città del sud che si crede sola. Signora vecchia chiusa nella sua vecchia casa, con le spalle voltate alla finestra.
Città di mare che ha dimenticato il mare.
Città di industria che ha perso le sue industrie.
Salerno a vocazione commerciale. Mette su un sorriso da venditore che ti mostra la sua merce scaduta e ti disprezza perché gliela vuoi comprare.
Città cieca che non ama la bellezza. E dentro una bellezza struggente che sa di tufo del quattrocento e di salsedine di mare.
Salerno, città piana e conservatrice, cova a mezza bocca un rancore chiuso, nostalgia di un Principato estinto. In alto, in bilico sulla collina, il castello Arechi, che pare guardare in giù e volersi buttare per non dover sopportare un’altra festa di diciott’anni o un matrimonio a tema mare.
Salerno, città europea, della ricostruzione architettonica e Bohigas e Zaha Adid e un Crescent che ha smesso di crescere. Fiera di qualcosa che non le appartiene. Si offre a innesti artificiali, nella speranza di sembrare diversa ma nella segreta volontà di rimanere uguale.
Salerno una città che si risveglia lenta, guardinga, una cultura carbonara che striscia per i suoi vicoli del centro storico, che scrive poesie sui muri e sulle scale, che disegna la sua voglia di cambiare.
Una città che sa dimenticare le cose grandi che un giorno per caso le è capitato di ospitare. Ma che non dimentica mai un piccolo torto familiare.
Salerno con i muri impregnati di milza fritta, con il patrono esattore delle tasche, dal cuore di portamonete che si apre solo per incassare. Salerno che si lega al dito lo sgarbo fatto dal comune al santo comunale.
Una città di fazioni in lotta, di quartieri in astio, di condomini in guerra. Di figli delle chiancarelle, di figli delle fornelle, di figli della zona orientale, di figli di mercatello. Discendenze infinite, linee rette, barriere chiuse. Mai nessuno che voglia adottare.
Salerno una città che non ho saputo amare. Rimpianto segreto della mia vita vagante.
Porto in cui tornare.
Perché il suo golfo ha la forma di fornace e il sole potente delle otto produce minuscole scintille di fuoco su un mare di metallo, come se qualcuno vi stesse affilando il cielo contro.
Perché a mezzogiorno nella piazza di Torrione i vecchi giocano a carte, portandosi da casa le loro sedie, in gruppi intenti, e i bambini urlano correndo in una cadenza familiare.
Perché alla sera, alle sette, il lungomare ha la dolcezza di quel filo di luce rosata e morbida che rimane subito dopo il tramonto e ogni cosa per un istante diventa bellissima da guardare.
Perché la notte pulsa di una vita feroce che non vuole mollare la presa e mai in nessuna ora lascia che la città si spenga.
Doppia faccia anch’io, Salerno. Perché ti fuggo e non faccio altro che voler tornare.
Salerno, in cui un giorno qualcuno scrisse: questo voler partire, questo voler restare.
Foto di Francesca Bifulco

Foto di Francesca Bifulco

Foto di Francesca Bifulco

Foto di Francesca Bifulco

venerdì 11 novembre 2016

Hey, that's no way to say goodbye

Io Leonard Cohen l’ho scoperto attraverso Fabrizio De Andrè. De Andrè aveva tradotto tre sue canzoni, Nancy, Suzanne e Joan of Arc, in maniera bella rispettosa grata, da ogni verso filtrava la stima che aveva di lui e l’amore per quello che stava maneggiando.
Sono andata a scoprire chi avesse incantato tanto l’uomo che da sempre mi incantava con le sue di canzoni. Ed è successo qualcosa. Non so spiegare perché le canzoni di Leonard Cohen mi siano entrate da subito dentro, annidandosi nella mia testa, come tappezzandone le pareti. Avevano un ritmo che si conformava perfettamente e naturalmente al mio. Avrò avuto diciannove anni allora. Quelle canzoni mi affascinavano e mi dicevano: abbiamo qualcosa di tuo, scopri cos’è. 
Le ho ascoltate per nove anni, continuamente. Sono diventate la colonna sonora della mia scrittura. L’unica musica con cui da sempre sono riuscita a scrivere. 
Ho sempre pensato di voler fare con la scrittura quello che Cohen faceva con le canzoni. Anno dopo anno, inconsapevolmente, ho tentato di scrivere letteratura come lui scriveva musica e versi. Non ci sono riuscita, naturalmente. Ma gli sono grata profondamente per avermi dato il desiderio di provare. Gli sono grata profondamente per tutte quelle mie note interiori che ha saputo toccare con la sua voce. Gli sono grata per ogni canzone che tengo riposta nella mente sotto la dicitura di uno stato d’animo e quando voglio tornare a provarlo, mi basta aprire quel cassettino, mi basta riascoltarla per recuperarlo. Gli sono grata per come ha silenziosamente conformato la mia anima in questi nove anni. Gli sono grata per quei pezzi di vita che mi restituisce ogni volta che ascolto certe sue canzoni. Gli sono grata per avermi dato la voglia di fare per altri quello che lui ha fatto con me. Gli sono grata per quello che ho immaginato fosse lui, per tutti i mondi fasulli che ho creato intorno alle sue canzoni, per avermi consegnato una chiave per tornare alla me diciannovenne, ventunenne, venticinquenne, ogni volta che voglio, che ne sento il bisogno. Gli sono grata per il modo in cui ha raccontato le persone della sua vita, per la bellezza che ha donato loro, per come le ha trasfigurate, Suzanne, Nancy, Janis, l’amico di Famous blue raincoat, le puttane senza nome di Sisters of Mercy, perfino la disperazione reale e umana di una donna vissuta cinquecento anni prima. 
Gli sono grata e glielo vorrei poter esprimere, vorrei scrivere per lui una canzone bellissima come faceva lui così che tutti ascoltandola penserebbero: deve essere stato una persona eccezionale per far provare tutto questo ad un altro essere umano.
Non so scrivere canzoni, posso scrivere solo un addio e un grazie per avermi restituito in questa vita qualcosa di mio che non sapevo neanche mi appartenesse.

lunedì 7 novembre 2016

Io e lei


Ho passato i primi dieci anni della mia vita ad immaginare la mia morte. Ma non immaginavo di suicidarmi e non desideravo morire, no. Non era l’atto in sé di morire che mi interessava. Io immaginavo dettagliatamente le conseguenze della mia morte sulle persone che mi amavano. Mi collocavo sempre in un punto imprecisato in alto e osservavo invisibile i miei genitori disperarsi, mia sorella piangere, il mio corpo inerme nella bara, e mi commuovevo, ma mi commuovevo forte su queste scene strazianti, che ogni volta erano diverse. A volte mi facevo morire in circostanze eroiche, a volte meschine, ma la cosa importante erano quelle reazioni che mi spiegavano qualcosa di fondamentale: come sarebbe stato il mondo senza di me. E mentre mi commuovevo sul dolore dei miei cari per la mia morte, che io stessa avevo provocato nella mia testa, li consolavo con parole dolcissime, insegnavo loro a vivere senza di me.
Ecco, in questo mio comportamento inconscio di bambina c’era già forse tutta l’essenza del mio rapporto con la scrittura: l’osservazione della realtà modificata dalla mia immaginazione; il sentire nella mia carne la verità che sto raccontando, anche se sono consapevole del fatto che ha essenza solo di pensiero e di carta; pensare il mondo attraverso la mia testa ma, allo stesso tempo, senza di me; annullarmi, uccidermi, distruggere la mia forma, ma contemporaneamente diventare tutto, spandermi senza forma, impregnare di me stessa tutto il mondo di scrittura che sto creando. E poi scuotere le emozioni degli altri, far soffrire volontariamente e dopo consolare, mostrare l’orrido del mondo e insieme l’infinita dolcezza e bellezza.
 A poco più di otto anni, chiusa in bagno per ore a fare quel gioco macabro che mi piaceva da morire, io avevo intuito tutti i punti salienti del fare letteratura.
Ma in realtà, forse tutto è iniziato molto prima. Fin dai tempi dell’asilo, quando tornavo a casa e raccontavo quello che mi era successo in classe. Ero piccolissima, quattro, cinque, massimo sei anni. Inventavo spudoratamente tutto quello che dicevo. Anche con un certo surrealismo bretoniano primo periodo. Raccontavo, ad esempio, che io e il bambino che mi piaceva ci eravamo tramutati in due pesciolini e, sfuggendo agli inservienti della mensa che ci volevano cucinare, eravamo saltati nello scarico del lavandino e poi da lì, attraverso le tubature, eravamo arrivati nel mare e vissuto mille avventure.
Ma la cosa fondamentale era che più raccontavo, più credevo fermamente a quello che dicevo. Credevo davvero che fosse successo, anche se sapevo che non era così. La mia volontà di immaginazione era così potente che si imponeva sui recettori dei cinque sensi e io sentivo, sulla pelle nei ricordi nel cuore, tutte quelle emozioni e sensazioni che raccontavo. E presa nel vortice e nella bellezza del mio autoinganno, ero convinta di averlo in pugno, il mio pubblico, i miei genitori. Ero convinta che si bevessero ogni mia parola e ridacchiavo tra me e me fiera della mia furbizia e della mia bravura.
A quattro anni avevo scoperto l’irresistibile droga dell’invenzione e la piacevolezza di irretire gli altri esseri umani con le parole.
Quando poi, da un po’ più grande, ho capito che c’era qualcosa di sbagliato nell’inganno e nella bugia, che, una volta scoperta, era una cosa socialmente condannata, allora mi sono sentita improvvisamente un essere immondo, sporco, truffaldino. Quello che solo qualche anno prima mi dava un immenso puro piacere, adesso era un marchio di infamia. Ero una bugiarda. E una bugiarda cronica. Sentivo su di me la tara della vergogna, ero segnata, sbagliata. Mi detestavo ma sapevo di non poterne fare a meno. Ero condannata ad inventare dalla mia natura deviata. Ormai mi ritenevo abominevole, ma continuavo a inventare, anche se con l’idea di essere un mostro, una paria dell’umanità, che fingeva di essere come gli altri, ma in realtà aveva in sé questo seme marcio della menzogna.
Avrete capito che da bambina tendevo ad essere un tantino melodrammatica.
Ma perché pur ritenendomi abominevole non riuscivo a smettere di inventare e di mentire? All’epoca non l’avevo così chiaro, ma la risposta era che la realtà mi sembrava troppo deludente, troppo piatta, squallida. In confronto vedevo nella mia testa, come con qualche aggiustatina qua e là, qualche aggiunta, qualche variazione, poteva essere così interessante, appassionante, esteticamente valida, in una parola: bella. E allora perché limitarsi a rendere la realtà così com’era, spoglia e noiosa, se avevo tutto questo nella testa e il talento e la capacità per trasformarla in qualcosa di veramente degno di essere raccontato?
Solo molti anni più tardi ho capito che quella infamante pulsione alla menzogna non era una mia tara mentale, ma semplicemente la valvola di sfogo di una mia natura: della predisposizione a narrare. Io semplicemente usavo me stessa come libro vivente cui tenere avvinti i miei (pochi) lettori.
Non capivo allora che in modo molto rudimentale mi stavo destreggiando con la funzione estetica della creazione artistica.
Tutta questa predisposizione e questo desiderio alla narrazione non hanno trovato però, per molto tempo, un posto ben definito nella mia vita.
O meglio, ben presto, appena imparai a leggere e compresi a quali meraviglie mi poteva condurre il saperlo fare autonomamente, io capii di voler fare la scrittrice.
A quattro anni già scrivevo quelli che pomposamente chiamavo “i miei romanzi”, ma che più semplicemente erano degli agghiaccianti raccontini di tre pagine, scritti da sinistra a destra e da destra a sinistra, in inconsapevole omaggio alle antiche forme di scrittura bustrofedica, e non capivo come tutti quelli che li leggessero non cadessero ai miei piedi inneggiando alla mia genialità.
La convinzione di essere un genio precoce, circondato da creature che solo accidentalmente avevano la mia stessa età anagrafica, ma la cui inferiorità era ben chiara quando la loro massima ambizione era tirare fuori dal naso la caccola più grossa di tutte, mi accompagnò per buona parte della mia infanzia e della mia adolescenza.
A sedici/diciassette anni, avevo più di dieci anni di carriera di scrittrice segreta e solitaria alle spalle e  ormai scrivevo cose complicatissime, intessute di filosofia, storia, lirismo greco. Mai più scritto nella mia vita qualcosa di così complicato e pretenzioso, per fortuna.
E poi semplicemente mi sono scissa.
A diciotto anni c’è stata una vera e propria crisi. Una rottura. Una divisione.
Questa mia natura di narratrice che fino a quel momento andava di pari passo con la mia vita, con i miei studi e con la mia ambizione di diventare scrittrice, improvvisamente si è ritrovata separata ed espulsa.
Mi ricordo che una delle mie fantasie, insieme dolci e amare, di quei primi anni di università era di guardare quell’altra Giovanna andare per la strada che avrei voluto intraprendere e che non avevo avuto il coraggio di fare, e pensare: lei lo sta facendo. In qualche altro mondo, universo, io lo sto facendo, sono andata lì con il mio vocabolario di latino, il mio vocabolario di greco, e ho continuato a imparare la letteratura, la scrittura, le lettere. La mia vita, la vita di quella Giovanna lì, sarà totalmente intrisa di letteratura e sarà dedicata solo a quello.
E mi piaceva questa idea, questa mia altra me che vedevo continuare in quella vita. Voleva dire che in qualche altro posto io lo stavo facendo, che non lo avevo abbandonato del tutto, ma quel sogno, quell’idea, continuava a vivere e altrove era reale.
Ma qui non mi poteva appartenere. Erano altre le persone che sceglievano lettere all’università, erano altre quelle che pensavano realmente che nella vita avrebbero potuto scrivere libri. Non certo io, non in questo mondo, non in questa vita. Io ero predestinata ad altro.
E così ho intrapreso la strada della giurisprudenza. Ma a quel punto ero già dimezzata. E dimezzarsi vuol dire indebolirsi. La perdita dell’unità si paga sempre.
Era solo una metà di me che stava percorrendo quella strada, con un occhio sempre all’altra metà, che ogni tanto tornava, ogni tanto andava. Avevamo dei momenti, delle finestre, in cui ci parlavamo, volte in cui litigavamo, quando lei tornava e piantava un gran casino e buttava all’aria tutto, oppure semplicemente si metteva lì e mi pesava addosso, sulle spalle, senza fare niente, se non guardarmi in silenzio, con disapprovazione. Voleva solo dire: io esisto, non credere di esserti liberata di me solo perché mi hai mandata a spasso. Io ero te e tu mi hai mandato via, come una sorella piccola e difficile che tenevi in casa e che ad un certo punto hai scacciato per farle intraprendere una vita sua e per poter vivere la tua, quando avevi detto, giurato per tutti gli anni dell’infanzia, che ti saresti sempre occupata di lei.
Questo è durato per i sei anni di università e per i tre anni di dottorato. Nove anni in cui periodicamente è tornata questa mia pesante coinquilina, vagabonda e fallita, che chiedeva chiedeva sempre cure e mi accusava del suo fallimento, perché io ero andata avanti e stavo cercando di costruirmi qualcosa senza di lei.
E poi, sempre all’improvviso, come si compiono tutte le scelte della mia vita, finito il dottorato l’ho ripresa in casa. Ho richiamato questa vagabonda fallita e le ho detto: ho sbagliato a dividerci, ho sbagliato a mandarti via, proviamo a rimetterci insieme, ricuciamoci. Facciamo quello che volevi fare tu fin dall’inizio, prendiamoci cura di te.
E’ però una cosa difficilissima, perché io col tempo ho saldato quell’apertura, i punti di sutura sono andati via, si è formata nuova pelle, ed è complicatissimo ora rinnestarci quella me trascurata e difficile, che ha fatto quella vita sbandata nel mondo della scrittura e della letteratura, ma solo nella sua testa, non l’ha veramente vissuta, se non impiegando ore e ore della sua vita a leggere. Giorni, mesi, forse interi anni, se le sommiamo tutte.
Perché una cosa che ho fatto veramente con costanza nella mia vita è stato leggere. E anche quella che ho fatto meglio, con più piacere, in abbondanza.
Era nel momento della lettura che quelle due me si riunivano e si riappacificavano e tornavano ad essere come quando erano bambine e una teneva in mano il libro e l’altra leggeva appoggiata alla sua spalla, e chi finiva per prima di leggere, aspettava l’altra per girare pagina.  
Leggere, oltre ad essere una delle cose che mi dà più piacere al mondo, è stata anche la sola attività che non ho cambiato o abbandonato ad un certo punto.
Perché io ho un problema con le continuazioni.
Io mi sono sempre ritenuta una campionessa degli inizi, una virtuosa degli inizi. Ho iniziato tantissime cose nella mia vita. Ed ero sempre una rivelazione: la giovane promessa degli scacchi, la rivelazione della scrittura, del teatro, una campionessa in erba di tennis o di scherma.
Ma poi semplicemente non continuavo, non mi interessava. A me interessavano solo gli inizi. Ero una drogata di inizi.
E invece ho capito che la vita, quella vera, sta esattamente un passo dopo, nel momento in cui continui qualcosa, ogni volta che trovi la forza, la volontà e il modo per continuare a farla.
Prima invece non capivo come le persone potessero scegliere di dedicarsi a continuare qualcosa, una sola cosa nel tempo, rinunciando a tutte le mille altre possibilità. Come sapevano di voler continuare a studiare pianoforte se non avevano mai provato il violino? Come decidevano di allenarsi ogni giorno a pallavolo se non avevano mai toccato un campo da calcio?
Io cambiavo continuamente e vorticosamente perché pensavo che concentrandosi su qualcosa si lasciavano necessariamente andare cento altre e io non volevo lasciare andare niente.
Ho sempre avuto questo desiderio totalizzante di essere qualsiasi cosa: il pittore che dipinge, lo scultore che scolpisce, ma anche lo spazzino che si alza alle quattro di notte, l’operaio che vive nei grigi quartieri popolari. Sentivo che c’era della bellezza in tutti i tipi di esistenza, anche i più miseri e disperati, che io non avrei conosciuto mai e che desideravo profondamente vivere almeno per un istante.
Ancora una volta la mia natura mi portava verso la scrittura: perché solo uno scrittore può essere così arrogante da credere che nella sua testa, nella sua sola vita, ci possa essere tutto il mondo e che lui possa diventare tutto, chiunque.
Ed ora mi ritrovo qui, di nuovo con questa povera vagabonda disadattata che se ne è andata in giro solo con la testa senza mischiarsi mai alla realtà vera. Ho scelto di prendermi cura di lei, per un anno, perché glielo dovevo, dopo tutto quello che le ho fatto in nome di un’altra vita che avevo deciso dovesse essere senza di lei. Lei è diffidente, chiusa, timorosa e scostante. Non mi ha perdonata. Da bambina e per molti anni era convinta di essere una creatura superiore, destinata a mostrare al mondo la sua genialità, poi l’ho scacciata di malomodo cercando di dimenticarmi della sua stessa esistenza. Non si fida più di me. Non è cresciuta, è in qualche modo bloccata a quel giorno dei miei, dei nostri, diciott’anni in cui l’ho mandata via. Si è accorta che non ci assomigliamo più, che io sono cambiata, sono molto più vecchia di lei e più matura. Ma io sono sincera. Non le negherò più il suo spazio: voglio la sua meraviglia, voglio la sua arroganza, voglio la sua acutissima ingenuità, la sua saggia esperta ignoranza. Voglio conservarla, e che lei ritorni com’era, ma voglio anche permetterle di crescere, finalmente.

venerdì 21 ottobre 2016

Il volo del Balon

Davanti alla scuola che frequento, in un quartiere povero e multietnico, c’è un parchetto incantato. Nel centro riposa, che sembra veramente addormentata come un gufo che dorme con la testa sotto la sua ala, una mongolfiera. E’ una visione incredibile. Lì, immobile, tra quattro alberelli sottili, questo pachiderma leggero e bianco, tenuto fermo con una decina di funi, proprio come se appartenesse a un circo. Tutte le volte in cui ci sono passata davanti, l’ho sempre vista là, ferma e prigioniera, e mi sembrava magnifica ma anche un po’ triste, un grosso meraviglioso uccello incastrato tra le corde.
Oggi pomeriggio, ho sentito che c’era qualcosa di diverso nell’aria, un fermento.
Ho prima visto un uomo che iniziava ad armeggiare con le sue funi, poi ci entrava dentro e rimaneva lì, nascosto alla mia vista. Ho pensato facesse manutenzione.
Poi l’aria si è messa a vibrare e dopo un primo stordimento ho capito cosa fosse: erano minuscole, sottili, voci di bambini che diventavano sempre più forti e sempre più vicine, finchè non sono apparsi alla mia vista, piccolissimi, in fila per due, vestiti con divise tutte uguali e colorate, che ridevano e scherzavano. Appena hanno svoltato l’angolo e hanno visto il grosso uccello rotondo, hanno preso ad urlare eccitati e lo indicavano e allora ho guardato anche io e mi sono accorta che si stava svegliando.
Lei, che non avevo mai visto viva, si iniziava a muovere piano, come se si stiracchiasse cautamente, senza credere di poterlo fare davvero dopo tanta immobilità.
Un secondo uomo si era unito al primo ad allentare e sciogliere funi. Nel frattempo i bambini erano arrivati là sotto e rumoreggiavano intorno come pulcini, io temevo che, dopo tanta immensa immobilità, tutta quella minuscola e velocissima vita fosse troppo per la mongolfiera, un risveglio troppo traumatico. Ma in realtà sembrava farle bene.
Dopo poco sembrava ringalluzzita e prese a salire, in verticale, come peter pan che decolla da fermo con la sola forza dei pensieri felici. Doveva avere quell’enorme testa completamente piena di pensieri felici, in quel momento.
Quando la sua testa fu finalmente e per la prima volta, a mia memoria, al di sopra di quei quattro alberi suoi secondini, io la sentii potentissima: la sua brama di cielo.
 Ora il suo interesse per i bambini mi sembrava passato, era solo il cielo che sentiva e presagiva. La vedevo rabbrividire dal desiderio e dal piacere. Mi prese una paura irrazionale, che qualcosa potesse andare storto, che all’ultimo momento i due uomini decidessero che ci fosse troppo vento o che non fosse sicuro per i bambini e le passassero di nuovo tutte quelle funi attorno senza averla fatta volare.
 Il tempo passava ma non si decidevano a far salire i bimbi e lasciarla andare. Io dovevo entrare a lezione, ma non riuscivo a staccarmi di là, senza sapere se ce l’avrebbe fatta, se avrebbe placato quell’enorme brama di cielo che avvertivo. Alla fine mi decisi e rientrai nella scuola.
Dopo una decina di minuti però non riuscii più a trattenermi, mi ero accorta di non sentire nulla della lezione e che tutta la mia testa era riempita di quel pallone. Corsi via.
Arrivata al portone sentii un forte odore di bruciato, ebbi paura e corsi più forte. Uscii all’esterno e vidi il parco di fronte a me. Vuoto. La mongolfiera era sparita, i bambini anche. C’era un enorme vuoto tra gli alberi, come un cratere lasciato da un meteorite.
Poi scorsi un’unica sottilissima fune, fissata ad un paletto, che quasi non si vedeva. La seguii con lo sguardo, in alto sempre più in alto, tanto che dovetti buttare indietro la testa, e lei era là, all’altro capo della fune, bellissima leggera felice. Cavalcava le correnti, non sembrava più enorme e sproporzionata, era giusta, era delle dimensioni perfette per quel cielo.
Ero così contenta per lei e avvertivo così tanto la sua gioia e la sua soddisfazione che non riuscii neppure a dispiacermi per quell’unica fune rimasta che le impediva di volarsene via per sempre.

Aveva avuto il suo cielo. Se lo stava bevendo, con le nubi e col vento. Questo, lo sentivo, le sarebbe bastato per covare felicità per altre centinaia di giorni sulla terra.












venerdì 7 ottobre 2016

Alle donne e agli uomini della mia vita

            Sappiatelo uomini della mia vita, creature umane bellissime e straniere, che io ancora non ho imparato a vivere, forse ancora non ho imparato che bisogna vivere. Ma c’è una cosa che so, uomini miei, uomini e donne che mi appartenete, so che imparerò. E non saprò neppure di aver imparato.

 C’è una cosa che ho saputo. Senza accorgermene, naturalmente, mentre vivevo: L’ineluttabilità. La vita è questa qui, che io la impari o che non la impari, che la riconosca o non la riconosca, che la guidi o la faccia scorrere. La vita è questa ed è qui. Ho imparato, miei cari, l’ineluttabilità e il tempo che involgarisce tutto perché tutto rende finito o ripetibile. Potrò sfuggire al tempo? Voglio farlo? Non so. Questo e qui sono mura e torri alte, è difficile starne fuori. Sempre che io lo voglia.

Sappiate, uomini che influenzate la mia esistenza, che io non so, soprattutto non so che devo morire e che a un certo punto la terra sarà senza di me e gli uomini della mia vita saranno uomini e basta perché tutto ciò che si agglomerava intorno a me scoppierà, si separerà, perderà me, la sua unità.
Cosa siamo allora? Forze aggregatrici? Creatori di insiemi e ponti di unità? Costruttori bellissimi di castelli di legami? Modellisti accurati di piccoli creati in miniatura, ripetenti minuziosamente la creazione in grande di dio. Manovali artigiani della piccola creazione?

Io so, miei esseri, che un uomo che nasce nasce agli altri uomini e nasce già posseduto e che già possiede e poi incontra e ancora viene posseduto e ancora possiede e viene perso e guadagnato e perde e guadagna. Ma non so il valore di ciò che perde e ciò che guadagna e non so la durata, la natura e la forma. E so che se sapessi questo, io avrei imparato la certezza e io e la mia vita cambieremmo completamente, una volta e per sempre, definitivamente.

Io non so nulla, care persone della stessa vita, ma so ammirarvi e amarvi e so desiderarvi, a volte so anche biasimarvi. Non riesco a odiarvi. E anche se non vi trattengo sappiate che in qualche modo vi tengo, anche se non vi cerco sappiate che  in un certo punto della mia vita vi ho trovato e vi ho conservato. Cosa salvare della precipitosa esistenza umana se non questo? Cosa fa eternità se non rubare e nascondere un ingranaggio al meccanismo che tutti porta all’arresto?



          Di che materia siete fatti, uomini che popolate il mio spirito e i miei desideri? Cosa lasciate in me, cosa conformate? E’ sangue carne spirito o amore?
Siete così complesse, nature mie umane. Vi tengo vi tengo e sempre mi sfuggite. Dove ve ne state? Come fate a mostrare sempre una sola faccia?


Eravate come ombre e vi ho visto che vi fingevate uomini e io ero fantasma pure e pure mi fingevo uomo e ci sfioravamo e non ci toccavamo, io non sentivo nulla, voi non sentivate. Come posso toccare veramente gli uomini? Come posso sperdere quei fantasmi, costringerli a smascherarsi, denudarli gridando: Non mentire tu sei uomo. Mostrati a me, non temere. E come faccio io stessa a non temere che gli altri mi si mostrino?

Io vi voglio carne nella mia carne, vita della mia vita, io vi voglio innestare nelle mie carni come pezzi vivi di una creatura mitologica. Non separatevi da me, condividiamo organi e pensieri. Come faccio a non perdervi? Come. Faccio. A non. Perdervi.


Devo perdervi. Del resto perdo me, continuo a perdermi, lasciandomi indietro come pelle vecchia. Vuota sulla strada, fredda e vuota, esistita, mentre la me stessa palpitante e accesa procede avanti e si fa nuova pelle.
Devo perdervi e recuperarvi, perdervi e recuperarvi. E perdermi e a volte recuperarmi.

Restate vicini però, restate vicini quando vi perderò. E  fate che io vi riconosca.


martedì 26 luglio 2016

Jones il suonatore

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Prima parte

In quel vicolo di roma ristagna sempre una musica come fosse umidità. Passa poca gente di lì, solo quella che lo conosce. Non è piccola come strada, ma ce ne sono di più grandi. Una ragazza è ferma in mezzo come trattenuta ma non è un pensiero a trattenerla, è la musica. Le piace tanto da voler chiudere gli occhi ma non lo fa perché se ne vergogna. Intanto se ne sta là, a galleggiare lievemente sui talloni e ad ascoltare. Potrebbe andare a vedere, dovrebbe andare a vedere da dove proviene quella musica di chitarra morbida, chitarra ben trattata, amata. Ma per il momento non si muove, ha paura che tutto si spezzi e il mondo bello crolli e si frantumi, lei sa bene che mondi belli e effimeri si formano, crollano e si frantumano ad ogni istante.

“Beh, ha ragione, non l’ho più visto da tanto. Quel suonatore all’angolo. Però non so dire quanto. Sì a un certo punto è sparito, ma non me n’ero accorto.” La ragazza china la testa e si allontana dall’edicolante. Perché la gente non dà importanza alle cose veramente importanti? Che cosa è che rendeva organico quel vicolo che sembrava secernere continuamente musica dai muri e dalla strada come umori di un corpo vivo? Cosa faceva rallentare un po’ il passo e posava una melodia nella testa per il resto del giorno? E’ quel qualcosa che sta intorno alla vita di ogni giorno, che muta impercettibilmente e riempie gli spazi vuoti, così piccoli da non poter essere riempiti da nient’altro. E’ quel qualcosa da cui ci si lascia avvolgere, possedere un poco, senza concessione, distrattamente, unicamente perché quel qualcosa c’è, come quando si dà a un mendicante il resto in spiccioli del giornalaio, solo perché il mendicante è lì e gli spiccioli pure ed è più facile che metterli in borsa. Così la gente di quella strada e del vicolo si prendeva quella musica, come spiccioli di cui non si sapeva che farsene e si potevano tenere o dare via. Eppure quegli spiccioli da qualcuno non sono trascurati. Per chi si sente povero sono una piccola ricchezza.
La cosa veramente importante di cui la ragazza chiedeva era un musicista di strada con la sua musica sparsa per la via. Ogni giorno era lì, tutte le ore a carezzare la sua chitarra. Era nero ma non molto scuro, quasi grigio, come se il suo colore si fosse un po’ scambiato all’aria col tempo, poteva avere quarant’anni o giù di lì, portava dei pantaloni neri a righe sottili con le bretelle, con su una t-shirt nera e un fazzoletto rosso al collo. Aveva dei bei capelli ricci e corti, un corpo forte e un sorriso raro e molto bianco. Suonava la chitarra, vicino alla bocca aveva un’armonica sospesa ad un sostegno e a volte cantava con una voce bassa, dolce e sottile. Era fatto così lo strumento di quella musica, sembrava sceso da un transatlantico venuto dall’america un secolo prima.
“Buongiorno”“Buongiorno, cosa desidera?”“Vorrei chiederle una cosa” Il sorriso commerciale si affloscia ma le labbra si riprendono presto. “Prego.” “Si ricorda di un suonatore che stava sempre in quella strada? Con la chitarra e l’armonica a bocca?” Il commerciante si fa sospettoso. “ Si, abbastanza. Si me lo ricordo” ammette “ Sa per caso che fine ha fatto? Sono due mesi che non si vede più, ne sa qualcosa?” “Non ne so proprio niente” si mette sulla difensiva poi si ammorbidisce “ora che ci penso è un sacco che non lo vedo, suonava proprio qui, all’angolo eh? Era nero” “Sì” “No, non lo so, non l’ho mai sentito parlare con qualcuno. Devi vedere al bar, questo qui a destra, lui ci andava nelle pause” “Grazie” La ragazza accenna un sorriso timido, rapidissimo e vola via.

E’ ferma nella musica, a un certo punto si sente osservata. E’ un vecchio con la barba grigia seduto in terra con la schiena contro un muro, la guarda insistentemente, profondamente, senza alcun imbarazzo sociale. Lei arrossisce, teme che voglia dei soldi da lei e la cosa la imbarazza. In quel momento tutto quello che ha è solo musica, quella musica, e non sa se lui potrebbe capire. Ma il vecchio non parla, non agita il barattolo delle monete, solo la guarda come se cercasse l’effetto della musica nei lineamenti del suo volto.

“Mi scusi. Scusi.” Cerca di attirare l’attenzione, “Un attimo solo” le giunge una voce indaffarata dietro una montagna di clienti in attesa di caffè, tutti quei suoni insieme, le voci oziose, i piattini sul bancone, il piccolo getto di vapore, le richieste, le ovattano le orecchie, si mettono tutti insieme dentro come un tappo di stoffa che filtra i suoni in maniera pastosa. Lei attende paziente e intanto diventa tutta occhi, a proteggersi dai suoni indistinguibili. Poi il momento di punta finisce e i clienti sembra che escano dal bar come una massa, tutti insieme. Rimane lei che pare l’abbiano dimenticata là e il barista che sembra stordito da quell’improvvisa solitudine. “Prego” dice con voce affaticata e gentile, è un ragazzo. Rimane zitta. E’ sempre timida con le persone della sua età. Poi chiede un caffè, le sembra la cosa giusta da fare. Il ragazzo sorride e si gira a prepararlo in silenzio. Poi le posa un piattino davanti e un cucchiaio e tutti sembrano in attesa della tazzina di caffè, il loro scopo, il loro completamento. Lei strappa una bustina con cura, cercando di non far cadere lo zucchero, poi beve. Il barista resta a guardarla. “Lei?” “Eh? Come?” fa lui come se riemergesse da una profonda distrazione “No, dicevo. Lei ha presente quel musicista di strada, quello nero, con la chitarra?” Lui la guarda molto fisso e poi sorride “Certo che l’ho presente, è molto bravo.” “Sa dove è?” Lui aggrotta le sopracciglia e piega le labbra “No, è da un po’ che non lo vedo, da più di un mese. Perché?” E’ la prima volta che glielo chiedono, rimane un po’ incerta. “ Vorrei sapere dove è” fa guardinga. Lui alza le spalle dispiaciuto “Mi dispiace non so dove puoi trovarlo. Prima veniva qui, ogni giorno a prendere il caffè, lungo. Ne chiedeva due in tazza grande e lo faceva allungare con l’acqua bollente” ricorda divertito.
E lei si smarrisce un attimo e smarrisce il bar e il tempo e immagina lui che entra stanco con la sua chitarra ferma in una mano e si passa l’altra sulla fronte, poi si guarda in giro e trova il posto migliore davanti al bancone, senza fretta si avvicina e si siede piano poi aspetta un momento e ordina il suo caffè “Due caffè in una tazza grande allungati con acqua bollente” sempre la stessa ordinazione ma lui la ripete perché non crede che la gente possa ricordarsi di lui anche se lo vede giorno dopo giorno. Quindi lo lascia raffreddare un po’ appoggiando gli avambracci sul bancone e non parla. Perché lui non parla per ingannare il tempo, se lo fa è per dire qualcosa e allora lo fa molto raramente. Poi nel suo campo visivo entra il barista.
Lei lo guarda. Il barista, lo stesso barista, una persona concreta, reale per entrambi, un legame tra lui e lei negli occhi, nel tempo. Un elemento che avvolge il tempo, se lo avvolge intorno come zucchero filato e c’ha tutto lì in fili leggeri, presente e passato.
“Io sono innamorata di lui” dice all’improvviso al barista, al solo legame che ha con lui. Il ragazzo rimane interdetto. “ Potrebbe essere in prigione, potrebbe essere morto” china la testa piano sul caffè. Il barista fa il giro del bancone, le si siede vicino e le sorride comprensivo, vorrebbe metterle una mano sulla spalla ma non la tocca. “Eri la sua ragazza?” Lei scuote la testa continuando a fissare il caffè. “Sei stata con lui?” Non risponde. Lui si raddrizza sulla sedia e appoggia un gomito sul bancone pensando. “Come ti chiami?” Lei alza un poco gli occhi “Eleonora” “Che bel nome” fa lui dolcemente “Eleonora, io non so molto dell’uomo che ami, l’ho visto ogni giorno passare da quella porta e sedersi…” si guarda intorno si alza, si sposta al lato più lontano del bancone “esattamente qui. Non ha mai chiacchierato con nessuno di noi. Ma posso dirti che è americano per la cadenza delle sue parole quando chiedeva il caffè, ma forse lo sai già. E che mi sembrava gentile, riservato ma gentile.” Si alza e ritorna vicino a lei e sembra che gli venga in mente qualcosa. Un giorno era entrato un vecchio barbone e lui l’aveva salutato e gli aveva offerto un caffè corretto e poi avevano iniziato a parlare di Hemingway e Fitzgerald, cosa che lo aveva alquanto stupito ma quando si era mostrato troppo interessato alla discussione loro si erano fatti silenziosi e avevano smesso. “Aveva un amico, un vecchio mendicante che sta nel vicolo.” Eleonora si ricorda due occhi chiarissimi come vetri che davano l’impressione che ci fosse qualcuno di ancora più acuto ad osservarti da dietro. Due occhi di vetro. Rabbrividisce dentro, annuisce lentamente e si alza. Il ragazzo pare agitarsi “Tornerai a dirmi come è andata?” Lei lo guarda un attimo e annuisce. Lui sorride. “Mi chiamo Daniele, o Dan.” Lei lo guarda ancora, piega la testa su un lato, annuisce e dice “Arrivederci, Daniele".

mercoledì 6 luglio 2016

Piccolo racconto d'antan

Nanny 
del passaggio all'età adulta




La signora Maria, la fruttivendola, e Clotilde che lavorava nella lavanderia si salutarono lungo la strada e si vennero incontro. “Come siamo eleganti stamattina, tutta in ghingheri!” disse Maria con un sorrisetto “ Hai ricevuto anche tu l’invito di Nanny?” L’altra annuì e cacciò un foglio di quaderno strappato su cui erano scritte poche righe e lesse “ E’ gradito l’abito scuro.” Sorrise divertita, Maria sollevò le spalle come a dire non ne so niente e fece cenno di avviarsi. In piazza c’erano già parecchie persone sedute sulle sedie pieghevoli che avevano portato da casa. Nanny allo sbocco della via principale accoglieva tutti educatamente, con la faccia contrita e lo sguardo insolitamente cupo, come se fosse sulla soglia della casa di un morente. Le due donne dopo averla abbracciata andarono a cercare le comari che le avevano conservato dei buoni posti, passando una diede una gomitata all’altra e indicò un lungo buffet fatto di più tavoli coperti da tovaglie di plastica dove c’erano bibite, salami e pizze rustiche “bene bene bene” disse Maria soddisfatta.
La folla parlottava allegra in attesa, tutti avevano rispettato la richiesta dell’abito elegante e ora commentavano le varie mises. La signora De Leonardi aveva persino messo la grande spilla di diamanti che indossava solo a Pasqua e ai funerali di famiglia.
Uno scampanellio e arrivò Annamaria come fosse una fata, scese dalla bicicletta e tenendola con una mano abbracciò forte Nanny con l’altro braccio “Come stai, dolcezza mia?” le chiese teneramente, Nanny si limitò a scuotere la testa in modo doloroso. Non voleva parlarne. Annamaria le sorrise dolcemente e disse solo “ Vado a posare la bici”.  Annamaria era la ragazza più bella del paese, era una gloria locale, la ritenevano perfino più bella delle ragazze della televisione perché era viva e reale, chi te lo diceva che quelle erano davvero come apparivano in tv? Esclamavano tutti, perfino gli uomini. Annamaria era la cugina di Nanny, aveva pochi anni più di lei. Quando fu vicina al lampione un ragazzo le si fece subito incontro e le chiese se poteva occuparsi lui della bici, lei non disse niente ma gliela lasciò con indifferenza e forse con una punta di fastidio.
Quando furono arrivati tutti, tutti quelli che potevano lasciare il lavoro, agli altri gliel’avrebbero raccontato il giorno dopo, Nanny avanzò con un tavolo quadrato tra le braccia e lo mise davanti alle sedie, al centro della piazza, a mo’ di palco. Ci si sedette sopra, poi si issò prudentemente in piedi e tossì. Si fece silenzio. “ Grazie per essere intervenuti così numerosi” disse. Non saremmo mai mancati, pensarono molti. Nanny aveva quindici anni e sotto molti aspetti era una ragazzina normale, molto bruna, cicciottella, non si poteva dire che era brutta ma non aveva una bellezza che colpiva a prima vista, come quella dei quadri di Botticelli o quella di Annamaria. Tutti la chiamavano Nanny, sin dalla nascita, ma lei si chiamava Giovanna e si firmava così sotto gli inviti che distribuiva ai compaesani. Sotto molti aspetti era una ragazza come le altre, dunque, ma non per tutti. Aveva un nonsoche, un pizzico di anormalità, di diversità, forse di follia. Fatto sta che quel po’ di strano e indefinito che aveva faceva sì che la sua piccola vita non passasse inosservata come tutte quelle della sua età e che tutti la tenessero d’occhio e ognuno a suo modo le volesse bene. Era benvoluta dalle sue compagne perché aveva sempre qualcosa di buffo da dire e poi non aveva niente che potessero invidiare. Era benvoluta dai ragazzi perché non era qualcosa di alieno come tutte quelle del suo sesso e non avevano paura di lei, e non volevano far colpo su di lei. Era adorata dai  pensionati della piazza perché parlava con loro e li ascoltava ma non in modo condiscendente come quelli del volontariato della domenica, li ascoltava come uomini e non come vecchi, come vecchi involucri di fatti passati. Era benvista da tutti i negozianti e fin da piccola ogni volta che poteva li aiutava in negozio e gli faceva sembrare più bello quello che facevano, e loro erano felici di avere qualcuno a cui insegnare che non temessero di sottrarre al lavoro perché non era stipendiata. Piaceva ai suoi professori non perché fosse particolarmente brava a scuola, anzi in alcune materie andava decisamente male, ma perché era l’unica allieva che parlasse a loro come uomini e non solo come contenitori di scienza e dispensatori di voti e autorità. E poi portava gli struffoli a natale e le chiacchiere a carnevale. Nanny faceva degli ottimi dolci, le aveva insegnato la vecchia Sesa, la fornaia, qualche mese prima di morire.
“Purtroppo l’evento per cui vi ho chiamati qui non è lieto. Si tratta di una perdita, si tratta di un funerale.” Continuò Nanny con tono solenne. Il chiacchierio che pizzicava la piazza si arrestò, l’atmosfera di festa gelò. “Che vuoi dire, Nannì? Chi è morto? Non abbiamo visto nessun manifesto.” Fece un uomo seduto in prima fila, “ Tu l’hai visto?” chiese al vecchio alla sua destra che disse di no “E tu?” fece alla donna alla sua sinistra che scosse la testa. Si sollevò un vociare perplesso. Nanny, insolitamente grave, alzò le braccia in modo teatrale, chiedendo il silenzio “Non ci sono manifesti ma è morto qualcuno che conoscevate” Si levò un urlo “Peppino! Dove sta Peppino?Non l’ho visto oggi!” teste agitate si voltarono di qua e di là, “Oh, so’ qua! So’ qua!” disse un vecchio con la coppola in testa e due denti in bocca, tutti si quietarono di nuovo, guardando Nanny preoccupati. Lei parlò  “ E’ morta la vecchia Nanny, la Nanny che voi tutti conoscevate.” Il cambiamento fu repentino. I volti tesi e tirati si rilassarono, le teste smisero di cercare persone assenti tra le sedie vuote, qualcuno si mise più comodo sulla sedia, altri parlottarono vivaci. Le cose erano tornate alla normalità, di nuovo tutto ciò che si aspettavano era una bravata di Nanny, che era puntualmente arrivata. Ci furono persino delle risatine trattenute. Nanny parve non notarle, parve non notare alcun cambiamento nell’atmosfera generale e continuò seria nel suo vestito nero troppo grande per lei, probabilmente prestatole da qualche signora del paese di grossa corporatura.
“Alfredo” disse all’improvviso la ragazzina “ Ti ricordi la Nanny che rideva a veder nascere i tuoi pulcini?” Un contadino abbronzato annuì dal suo posto in fondo “Ebbene non c’è più. E’ morta” Cercò con gli occhi tra la folla “Chiara, hai presente la ragazza che voleva imparare tutti i nomi dei fiori?Defunta.” continuò  a chiamarli per nome “Michele, Arturo, Ciccio e tutti gli altri ricordate la Nanny che si arrabbiava come un…” “Come un turco” la precedette Michele annuendo e sorridendo al pensiero “…quando perdeva a scopone?” concluse Nanny “Adios. Kaput.” E fece un gesto definitivo con le mani. “ Da oggi nulla mi interesserà più, nulla mi farà gioire veramente. Non riderò mai più di gusto. Prego Maestro.” Nanny fece un cenno a uno spilungone sulla quarantina che era in piedi alla destra del tavolo su cui si era issata Nanny. Quello, pronto, iniziò a suonare con l’armonica a bocca una lamentosa melodia, “Attacchi, Nonna.” Disse quindi Nanny a una vecchissima donna, fragile come una foglia secca. Quella si alzò tremante, si mise al centro tra il piccolo palco e le sedie e iniziò a cantare con una voce piccola e tremolante Perché, mammina, si soffre sempre d’inverno. In paese era famosa da almeno dieci lustri come esecutrice di Perché mammina si soffre sempre d’inverno. Nanny chiuse gli occhi e stette immobile fino alla fine della performance. Tra il pubblico c’era chi non ce la faceva più a trattenersi e ogni tanto si innescavano a catena attacchi di risa convulse. Di quelle che non riesci a smettere, che si concludono con le lacrime. Era la scena tragica più comica che si fosse mai vista.
Gli artisti continuavano imperterriti la loro esecuzione, Nanny aveva sempre gli occhi chiusi e una espressione dolorosa. La poderosa Signora Lenin, così chiamata da tempo immemorabile, ex sessantottina inaffondabile, decise che era tempo di sgattaiolare via e fumarsi la sua canna pomeridiana. La Signora Lenin era sempre provvista di canne in gran quantità e i ragazzi, quelli più ribelli, filonavano la scuola per andare a fumare da lei, a patto, però, che stessero a sentire tutti i suoi racconti di quando militava nel partito e si era quasi unita alla lotta armata. La donnona accese lo spinello. Il fumo danzò allegramente e salì verso l’alto e in alto decise di arrestarsi sotto il naso di Nanny che annusò lo strano odore e fu pervasa da un certo benessere. Man mano che la canna si consumava le espressioni della Signora Lenin e di Nanny diventarono sempre più serafiche e serene. La ragazzina aprì gli occhi e la bocca in un gran sorriso e scoppiò a ridere. Rise tanto e tanto forte che si piegò in due e dovette tenersi la pancia e le vennero le lacrime agli occhi. La dolente melodia si interruppe di botto e gli ispirati esecutori si guardarono perplessi e un po’ piccati. L’ilarità generale era ormai incontenibile e aumentò ancora quando scorsero la Signora Lenin accoccolata dietro il tavolo sotto il suo fumo scuro e capirono ciò che era successo.  Le risate produssero un tale boato che gli uccelli posati sugli alberelli della piazza volarono via. C’era gente che ululava dal ridere, crisi respiratorie, persone che cadevano dalle sedie e non lo sentivano neanche, come anestetizzate dalle risate. Tutto questo durò a lungo.

Quando infine tutti si furono calmati, ritendendosi ormai sciolti dal lutto, si avviarono al buffet chiacchierando allegramente e trattenendo qualche scampolo di risata. L’atmosfera era quella da festa del Patrono. Quanto a Nanny, quando fu finito l’effetto esilarante del fumo, tornò cupa, se possibile ancor più cupa di prima e rimase per qualche minuto a fissare le sedie vuote davanti a sé. Poi ridiscese lentamente con espressione truce. Annamaria che era stata l’unica a non aver mai nemmeno sorriso, le si avvicinò comprensiva. Lei la capiva, ci era già passata. Nanny alzò gli occhi sconsolati a guardarla e disse “ Io ho provato a dirglielo. Lo hai visto. Ho provato a dirgli che sono cresciuta. Lo faccio per loro, sai. Sai quanto si dispiaceranno quando non mi troveranno più, non mi capiranno più…” Annamaria annuì seria. Nanny scosse la testa “Succede tutte le volte, uno cerca di prepararli, di avvisarli… e loro non capiscono mai.”

martedì 21 giugno 2016

Lettera d'amore in 23 canzoni



Volevo scriverti una lettera che ti desse l'idea di quel continuo accadere dentro di me che da qualche anno a questa parte è smosso da te. Volevo scriverti una lettera che desse l'idea della fluidità, della varietà, della mutevolezza dei sentimenti che si incontrano ai pensieri e dei pensieri che intercettano i sentimenti. Ho pensato che solo la musica poteva farlo davvero bene. Che solo la musica ha quel flusso unitario e sciolto e diverso ma legato che hanno i sentimenti e che dovrebbero avere i pensieri sui sentimenti. Allora ti ho scritto una lettera per canzoni, perchè ti diano un'idea quanto più reale possibile dei miei sentimenti e ti raccontino in quale corrente tu ti sia venuto a bagnare.

1) TAKE ME HOME, COUNTRY ROADS – John Denver

E’ la colonna sonora di un film animato dello Studio Ghibli che mi è molto caro: I sospiri del mio cuore. Mi ci riconosco e ci riconosco anche te. E’ una bella storia di un amore puro tra due persone pure ancora in crescita. Lei è una ragazzina di tredici anni che vuole diventare una scrittrice, la testa persa nel mondo della sua immaginazione, piena di dubbi e critiche su sé stessa, angosciata e paralizzata dai suoi desideri e le sue paure, ma anche divertente e allegra. Lui è un suo coetaneo, compagno di scuola, l’ha notata, si è innamorato della sua diversità e della sua stranezza, ma anche di quella strana complementarietà che li rende compatibili, lui così solido e tranquillo. Ha letto tutti i libri che lei leggeva in biblioteca per farsi notare da lei, ma soprattutto per cercare di capirla. Lei all’inizio lo odia: lui la fa arrabbiare, non lo capisce. Eppure è attratta da qualcosa che lui ha e lei, invece, sa di non  avere, anche se ancora non sa cos’è. Lo ritiene arrogante, borioso, sicuro di sé. Poi, poco a poco, scopre la sua insicurezza ed è questa che la colpisce più di ogni cosa. E scopre, finalmente, cos’è che lui aveva e che lei invece non ha: la forza di costruire qualcosa, di prendersene cura, giorno per giorno, di farla crescere. E, infatti, lui costruisce violini, vuole andare in Italia a imparare a fare il liutaio e, come lei sa che i suoi tentativi di scrittura sono pietre grezze tutte da levigare, lui sa che i suoi violini sono tutt’altro che perfetti. Ma mentre lei si affligge del fatto di non riuscire a creare qualcosa che la soddisfi e si ritiene incapace, lui crede nel migliorare e nel migliorarsi e cerca la strada per farlo. Mi ricorda la tua frase, che dicevi sempre quando ti lodavo per qualcosa o qualcosa ti riusciva bene: Si può sempre migliorare. E lui, infine, riesce a convincere i suoi a mandarlo a studiare in Italia e lei, mentre lui è via, prima si abbatte ma poi si dedica anima e corpo a riuscire a finire un romanzo, perché vuole imparare la forza e la pazienza di lui. E ce la fa e non è affatto perfetto, ma è lì, frutto del suo lavoro e della sua dedizione. E poi lui torna e lei è serena perché, con il suo esempio davanti agli occhi, ha iniziato a fare come lui: semplicemente avere fiducia nella vita. Credere di potercela fare a migliorare, a crescere, nonostante gli ostacoli, e intanto godersi il tempo impiegato a farlo.

2) SUSANNE – Fabrizio De Andrè/Leonard Cohen

Ho sempre voluto essere la Susanne di qualcuno. Ho pensato che forse sono la tua. 

3) LONG LONG JOURNEY – Enya 

Enya è il mio psicofarmaco naturale. Mi ristabilisce uno stato di tranquillità e quasi di contemplazione. Mi cade addosso come una doccia calda rilassante. Me la sento nel petto. Questa canzone in particolare mi ricorda che la strada è lunga nei periodi bui e difficili ma che ti devi ripetere di andare avanti perché non si può mai smettere di andare avanti anche al buio. E questo, in mezzo al disastro, ha una sua certa bellezza.

4) WHILE MY GUITAR GENTLY WEEPS – The Beatles

I Beatles erano innovatori, erano geni, erano venerati, erano dei. Questa canzone mi ricorda che erano uomini. E il più umano di loro era George Harrison che scriveva canzoni per chi di loro perdeva la bussola. E suonava la sua tristezza e la sua disperazione per il prezzo del successo planetario su quattro poveri esseri umani che li stritolava. Mi fa pensare che qualcuno può. Qualcuno può rimanere umano quali che siano le circostanze. La ascolto nei miei momenti tristi o depressi, mi sento capita e mi sento di capirlo quando l’ha scritta. 

5) LOVE IS HERE TO STAY – Louis Armstrong/Ella Fitzgerald

Questa canzone mi dà serenità e allegria. Il modo incredibile in cui si combinano perfettamente le due voci di Armstrong e Fitzgerald: l’una roca, che raspa, un rotolare di ciottoli e ghiaietto; l’altra liscia come l’acqua, liquida, levigata. Acqua sul brecciolino. Una combinazione sorprendentemente perfetta. 

6) ROMEO AND JULIET – Dire Straits

La canzone dei miei struggimenti romantici. Scoperta nel viaggio studio a Malta nel 2009. Mi ricorda una notte di delusione in cui mi struggevo, mangiavo i cioccolatini, e mi struggevo ancora, ascoltando questa canzone a ripetizione. Adolescenza spinta. A 21 anni. 

7) THE MOON SONG – Karen O

Contrariamente a quasi tutte le altre, è una acquisizione recente. La nostra prima estate da quando ci eravamo messi insieme. Io e l’amore, il mio, il nostro. Io che non capivo l’amore. E poi questo film, Her. Non è il film l’importante, ma lì, in una scena secondaria, leggono una lettera, neanche la più famosa, una di quelle che gli altri dimenticano. Era per un anniversario di cinquant’anni di matrimonio. Te l’ho scritta tante volte. Inizia con “Continuerai a raccontarmi” e finisce con “ E’ bello vedere il mondo come lo vedi tu”. Ho capito che quella lettera era il nostro amore. Era l’amore che mi stavi offrendo, tra tutti i milioni di tipi di amore che esistono nel mondo. E ho capito che io quell’amore lo volevo, che amavo essere amata in questo modo, che mi scioglieva il cuore, che tu mi stavi sciogliendo il cuore, che era ben annodato. 

8) LA CURA – Franco Battiato 

Non amo Battiato. Così incredibilmente cervellotico e così serioso da scadermi nel ridicolo. Non riesco a prenderlo sul serio perché si prende troppo sul serio. E’ il cugino Collins di Orgoglio e pregiudizio. Ma questa canzone, per quanto fitta di battiatismi, mi ha parlato con verità. Il desiderio di prendersi cura di un altro uomo è uno dei sentimenti più belli e commoventi. Forse il senso più alto dell’amore. Perché per prenderti cura di una persona, nel modo giusto, quella persona la devi capire, pienamente e profondamente. E questo è uno dei più grandi atti d’amore che si possano fare. 

9) HUMAN ORCHESTRA – Colonna sonora del film Bright Star

E’ tutto il lato fragile dell’esistenza. Bellissimo, delicato e struggente. E quindi avvolto da tristezza. L’estrema bellezza è estremamente fragile. Io vorrei insegnarti la fragilità di alcune persone, bella e triste. Persone che sembrano deboli o perse o incapaci, perdenti. Sono le persone-fiori, così brevi e splendide, che ti riempiono di stupore e di incredibile malinconia insieme. 

10) SO LONG, MARIANNE – Leonard Cohen

Questa è la canzone che mi ricorda tutte le persone-zingare che sono entrate nel mio cuore, una volta, dalla finestra, e mi hanno stupita e conquistata. Sono delle persone che ho amato di passaggio, ma che non avevo la capacità di trattenere, perché si presentavano già zingare e nomadi nella mia esistenza. Mi hanno incantato con le loro nature e le loro storie, io ho aperto loro la finestra e le ho fatte entrare, le ho dato un pasto caldo, ho dato loro affetto, mi sono presa cura di loro se erano ferite, ho giocato con loro. Ma la finestra era aperta, potevano sempre fuggire via e, ad un certo punto, tutte l’hanno fatto. Amo queste persone affamate e irrequiete, ma non riesco a sfamarle. Forse nessuno può, neppure loro stesse. Le prime volte ho tentato di tenere chiusa la finestra, ma soffrivano, si agitavano, diventavano feroci, la rompevano e scappavano. Allora ho imparato a tenerla aperta e lasciarle andare. Possono tornare, ogni volta che vogliono, il mio fuoco sarà sempre caldo anche per loro.

11) SE TI TAGLIASSERO A PEZZETTI – Fabrizio De Andrè

La canzone di De Andrè in cui mi ritrovo di più. Un giorno qualcuno mi dedicò questo verso: Adesso aspetterò domani per avere nostalgia, Signora Libertà Signorina Fantasia. Così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza. Con la tua nuvola di dubbi e di bellezza”. Ci ho visto dentro tutta la mia vita. Ci ho visto dentro tutta me. Mi accompagna nell’animo da sempre. 

12) WAIT – Alexi Murdoch

Un’altra canzone sentita in un film. Uno di quelli che amo di più: American life. Questa canzone mi è cara perché canta qualcosa di fondamentale per me: una persona, qualunque di noi, può perdersi per la strada, può arrancare, può essere in ritardo, può intrecciarsi nella sua testa, può ingabbiarsi nella paura, però ha bisogno – ha sempre bisogno – che chi la ama, chiunque la ami, stia lì ad aspettarla mentre lotta, cade, si districa da tutto questo. E lo chiede sempre. Anche se di fatto non lo sa, anche se sembra che non lo voglia o che ti respinga o che ne possa fare a meno. Tutti hanno bisogno di un viso in cima alla scala, in fondo al tunnel, che ti guardi con amore e dica: “Io sono qui, ad aspettarti. Io ti amo, so che ce la farai. Vieni da me. Ti aspetto”.

13) PERFECT DAY – Lou Reed

Lou Reed è una delle voci più belle e sensuali di sempre. Sensuali perché vibra di promesse ai tuoi sensi, ti solletica l’udito, ti ispira il tatto. Questa canzone ha l’atmosfera di quei giorni che sono perfetti con poco, non dovevano neanche esserlo, sono improvvisati, rubati, eppure d’un tratto scopri che sono stati perfetti proprio per questo: perché non avevano avuto bisogno di preparativi, di aspettative, di motivazioni. Sono capitati, così materiali e inattesi, da non darti il tempo o la scusa di non goderteli.

14) I’VE JUST SEEN A FACE – The Beatles

Questa canzone batte il tempo del mio cuore quando è felice. E’ il suono che fa la mia eccitazione di vita e d’amore. E’ quando il cuore va a palla e sembra che la vita sia un gioco meraviglioso e che tu non ti annoieresti mai a giocarlo in questo modo. 

15) PLEASE PLEASE PLEASE LET ME GET WHAT I WANT – The Smiths

Questa canzone, invece, è la canzone della mia disperazione. In particolare quella legata a qualcosa che il mio cuore e il mio corpo desiderano ma che non possono avere. Per me è catartica, è come il canto della fenice: il mio dolore che si trasforma in questa canzone e vola via. I giorni successivi a quelli in cui mi sono dichiarata ad un ragazzo che ho desiderato per molti anni e lui mi ha respinta, l’ho sentita ogni giorno, per ore. E giorno dopo giorno si è portata via un po’ del mio dolore. Mi ha ripulita. Ne sono uscita forte. 

16) ONLY TIME – Enya

Only time è una voce lontanissima, eterna, infinita. E’ la voce della madre del mondo che ti conforta e ti consola e dice al tuo cuore: “Stai calmo. Nessuno può sapere cosa succederà prima che succeda. Solo il tempo chiarisce, solo il tempo lenisce. Tu stai vivendo la vita di uomo come miliardi dei miei figli, tuoi fratelli, prima di te. E, capisci, per certe cose l’unica legge è quella del tempo. Il tempo ti chiarirà tutto, il tempo ti curerà. Resisti”.

17) FAMOUS BLUE RAINCOAT – Leonard Cohen

Cohen più che fare canzoni racconta storie, meravigliosamente. Il tono di questa mi incanta, perché quando qualcuno riesce a trasmettere con poche parole e note e modulazioni della voce una tale intensità e complessità di sentimenti a me pare un miracolo. Lui racconta la storia di un amore e di un tradimento, ma non quelli che si potrebbero pensare. Cohen scrive una lettera in musica a un suo amico, si rivolge direttamente a lui: “la mia donna, Jane – dice Cohen – se ne è andata a vivere  con te, uno dei miei più cari amici, ma ora è tornata da me, svuotata”. Dal suo tono, da quello che dice, si capisce che Cohen è rimasto ferito, eppure non odia l’amico, non lo riesce ad odiare. Questo suo amico è una di quelle persone belle e fragili, di cui ti parlavo prima. Quasi sicuramente votato all’autodistruzione. Cohen  gli scrive per dirgli: “dovrei odiarti, eppure non ti odio. Anzi il mio cuore è ancora colmo di amore per te, non ti è indifferente. Vuole sapere come stai, se te la passi così male come dicono, se ti sei disintossicato, se l’abbandono di Jane ti ha buttato nella depressione”. Questa è la storia di un amore tra due esseri umani, che si può chiamare amicizia. Ed è l’estremo tentativo di un uomo di salvare l’altro incapace di aiutarsi da solo. Gli dice: “torna. Ti salviamo noi. Non importa che sia Jane o sia io. Torna. Tu hai qualcuno. Non abbandonarti”. Non è solo perdono, è oltre, è di più: è cura. Prendersi cura. Cosa che si fa per amore, sempre a discapito di un po’ di sé stesso.

18) TOWARDS THE SUN – Alexi Murdoch

 E’ la canzone del viaggio, del distacco. La chitarra di sottofondo macina Km, mentre la voce sale alto oltre tutti i panorami e vicino al cielo e al sole. Come quando si guida da soli e gli occhi sono incollati fuori, i piedi premono i pedali, ma la mente viaggia, fa un giro intorno al sole, e ritorna. 

19) TEMA D’AMORE – Ennio Morricone

Questa musica ha la tua dolcezza piana e delicata. Quella che ti fa sorridere agli angoli della bocca e sfiorarmi con la punta delle dita. Ma che poi gonfia. Diventa potente, travolgente. E quando ne sorprendo la fermezza e la forza penso sempre quanto possa essere stupefacente la coesistenza in te di entrambe. 

20) HEY THAT’S NO WAY TO SAY GOODBYE – Leonard Cohen

La mia canzone delle separazioni. Tutti gli amori a distanza hanno il suono di questa canzone. C’è amore, c’è desiderio, c’è intimità, c’è benedizione, c’è nostalgia, familiarità, consolazione. Mi risuona dentro ogni volta che parti. 

21) CANZONE – Lucio Dalla

E’ la mia canzone d’amore preferita. Non è particolarmente romantica e per nulla sdolcinata. Per me l’amore è così: è allegro, passionale, libero, un po’ pazzo. E’ felicità, contemplazione, sensualità. E’ “lo stare nudi in mezzo a un campo a sentirsi addosso il vento”; è l’istinto del desiderio del “potrei amarti anche qua: nel cesso di una discoteca o sopra il tavolo di un bar”; è “i miei occhi dai tuoi occhi non li staccherei mai, adesso anzi me li mangio tanto tu non lo sai”. Questi ultimi versi mi ricordano sempre te: hai degli occhi incredibili, bellissimi, i tuoi occhi dicono tutto, sono fermi e limpidi ma anche caldi. Io credo che prima di tutto mi sono innamorata di quello che dicevano i tuoi occhi.

22) JE VAIS T’AIMER – Louane 

Mi ricorda un momento particolarmente bello con te. Era un tempo della nostra storia in cui ci allontanavamo, ci avvicinavamo, ci riallontanavamo. Continuamente. E io cercavo affannosamente qualcosa che ci accomunasse, che ci tenesse vicini. Quando andammo a vedere questo film, La famiglia Belier, ci piacque. Eravamo di nuovo molto vicini e questa canzone cantava con la voce del mio amore per te. Con l’intensità che sapevo aveva il tuo. Anche se spesso non lo capivamo e non ci capivamo. Ce la siamo poi dedicata a vicenda molte volte. 

23) VIOLIN-CONCERTO OP. 35 – Tchaicovskij

E’ il concerto di musica classica che più amo in assoluto. E’ indescrivibile l’effetto che mi fa: mi esalta, mi scioglie, mi rende nostalgica, languida. E’ la musica che più si avvicina a un orgasmo di donna, prima sottile e piano, poi teso fino all’esplosione.