sabato 30 gennaio 2016

La Terza era della procedura penale - Un racconto costituzionale a puntate. "Di riforme, di giustizia, di fallimenti, di amore, di scoperte, di ripensamenti e di altre cose della vita umana".



1. Ogni fine ha un inizio




“In piedi entra la giuria”
In piedi entra la giuria suona ormai come un comando dato direttamente alle mie gambe, si stendono e si ripiegano in autonomia, portando in alto e riportando a terra il resto del corpo in modo efficiente e sicuro. Intanto io ho tutto il tempo di parlarmi nella testa, a volte parlo così tanto nella mia testa che stento a sentire quello che succede fuori. Oggi mi parlo del verdetto che sto aspettando. Colpevole. La giuria dirà colpevole. E sarà il quarto salario che mi sfuma in un mese.
“In nome del popolo italiano pronunciamo questa sentenza, il fatto che essa dispone avrà valore di verità a partire da subito salvo successive impugnazioni”.
La formula di rito pronunciata dal giudice. Ora chiederà ai giurati, dai quali si è separato due minuti fa e con cui ha avuto un’accesa discussione di due ore e mezza, cosa hanno deciso.
“Che cosa ha deliberato la giuria? L’imputato è?”
Colpevole. Signor giudice.
Colpevole. Signor giudice.
“Colpevole, signor giudice.” Il presidente della giuria ha una voce sottile e stridula, ma la parola si impone da sé, non importa sentirla perfettamente. Si riuscirebbe a intenderla anche dal solo labiale.
Chino la testa. Faccio finta di disapprovare, di essere dispiaciuto per il mio cliente. In realtà non voglio guardarlo e sono dispiaciuto più per me stesso.
Continua il dialogo di rito. Il giudice sta leggendo con voce monotona la ricostruzione del fatto.
“All’esito del processo di primo grado, svoltosi in contraddittorio e nel rispetto di tutte le parti, si dichiara che la verità mutualmente ricostruita è questa: In data 5 agosto del corrente anno, il Signor G. F., imputato, ha lasciato la sua abitazione in auto…”
Non occorre ascoltarla tutta, si capisce già che è stata recepita quasi interamente la proposta di compromesso avanzata dalla pubblica accusa e dalla parte offesa. Salvo qualche contentino che mi avranno dato qua e là per rendermela meno indigesta. Mentre il giudice legge il suo piatto racconto, getto un’occhiata al tavolo del pubblico ministero senza alzare la testa. Avrà poco meno di trent’anni quel sorrisetto soddisfatto che finge modestia. Non gli importa che si tratti di uno stupido delitto colposo, per lui, all’inizio della carriera, ogni causa vinta è un tassello di popolarità in più. Alla mia età ogni causa persa è uno sprofondare sempre più nel baratro. E’ normale, più vinci più ti affidano cause spettacolari, più perdi più ti trovi relegato nel giro degli incidenti stradali, per dirne uno. Ma il problema sta tutto nella popolarità, l’indice di gradimento precipita e insieme a questo la tua credibilità. E senza favore del pubblico e credibilità non vale la pena neanche di definirsi avvocato.
Dal silenzio improvviso capisco che il giudice ha finito di leggere la ricostruzione dei fatti, alzo lo sguardo e incontro prima quello del giudice, interrogativo, poi quello del pubblico ministero, quasi commiserante, infine quello del mio cliente, l’unico che mi riesce a scuotere. Stanno aspettando tutti me, è il momento in cui devo ritirarmi dieci minuti con il mio cliente nella camera affianco. Non una piacevole prospettiva.
“Avvocato, lei e il suo cliente hanno dieci minuti per la Consultazione. Torni al suono della campanella”. Aggiunge come se fosse dubbioso del fatto che potessi non accorgermi del suono della campanella.
“Si vostro onore”rispondo stancamente.
Esco da una porta laterale, piuttosto vicina al tavolo della difesa. Il mio cliente viene fatto uscire da un’altra porta che dà sulla stessa stanzetta.
L’incontro è penoso, ma non ci vuole molto. Il cliente ha fretta di liquidarmi. Io ho fretta di liquefarmi. Concordiamo di riconoscere la verità della ricostruzione dei fatti. So che poi il cliente impugnerà in secondo grado, ma lo farà senza di me. Probabilmente scorrerà le tabelle degli indici di gradimento e cercherà un avvocato che gli offra il miglior rapporto possibile tra popolarità e prezzo. Mi succede spesso. In primo grado cercano di risparmiare. Poi, davanti a un verdetto di colpevolezza si spaventano e tentano di rimediare. Altra cosa da non sottovalutare é che sono entrati nel grande carrozzone spettacolare del processo e, una volta dentro, chiunque vuole uscirne il meglio possibile. E’ il proprio show, il tuo show personale, quello che si aspetta da una vita e tutti sono lì per te.
Tornati in aula, il giudice mi rivolge la domanda di rito.
“La difesa riconosce la verità della ricostruzione dei fatti?”
“Si vostro onore”.
“L’imputato riconosce la verità della ricostruzione dei fatti?”
“Si vostro onore, ma mi riservo di impugnare nel merito per migliorare la mia situazione”.
Il mio cliente ripete la formula che gli ho detto pochi secondi fa.
“Molto bene. La sentenza verrà depositata entro quindici giorni. Dal giorno del deposito inizia il termine di trenta giorni per avanzare richiesta di impugnazione nel merito, di impugnazione in diritto o di avvio del procedimento di pre-esecuzione. La seduta è sciolta”.



Viviamo in un’epoca dominata da un’ansia di miglioramento generalizzata. Da ogni parte, in ogni ramo del sapere, si vuole migliorare, sempre di più. Andare avanti, ottimizzare, ottenere sempre maggiore efficienza. Non poteva sottrarsi la sfera del processo. Il processo, il giudizio, è qualcosa di fortemente connaturato alla vita umana. Provate a vivere senza fare o ricevere giudizi, senza il timore di processi, senza prestare attenzione alle valutazioni esterne. Provate, pochi ci riescono. Anarchici? Liberi? Criminali? Ma ognuno, anche l’anarchico, ha il proprio processo da scontare. Che venga dai suoi o anche solo da sé stesso. Viviamo tutti perennemente sotto giudizio.
Come poteva quindi il processo penale sfuggire all’epoca dell’ottimizzazione e dell’efficienza? C’è stata una riforma, la Riforma, quindici anni fa. Ero da poco laureato in procedura penale, avevo iniziato a fare l’assistente presso la cattedra del mio professore, quando siamo stati travolti dal grande afflato riformatore. E’ salito al potere il Rottamatore, il distruttore del vecchio, il rinnovatore. Così si presentava. Mi suonava male, malissimo. Quello che a quasi il 60% dei miei connazionali eccitava a me precipitava nel pessimismo e nel terrore. Cambiare, migliorare, liberarsi del vecchiume, dei pesi, delle pastoie. Tagliamo e rimodelliamo in nome dell’efficienza. Naturalmente la prima cosa che toccarono fu la Costituzione. Le costituzioni erano eredità della seconda guerra mondiale troppo pesanti: a quell’epoca si era visto che cosa poteva fare l’uomo all’altro uomo, si era assistito a come fosse facile attaccare la democrazia dall’interno, servendosi dei meccanismi della democrazia stessa, per poi sventrarla. Era scoppiata la guerra, la più enorme e folle che si fosse vista da decenni, dove molti uomini avevano smarrito il senno e il senso dell’essere umani, molti altri c’erano arrivati fino al nocciolo, l’avevano capito, l’avevano conservato, nel caso fossero sopravvissuti all’ecatombe umana e spirituale. Pochi sopravvissero e quando si potè ricominciare a mettere un poco di ordine nel mondo, decisero di fare qualcosa perché quello che era accaduto non si ripetesse. Quel qualcosa erano le Costituzioni. Quando qualche studente mi chiedeva che cosa fosse una costituzione, io rispondevo: è la tua libertà. Non ho mai creduto in Dio, ma una religione forse l’ho avuta. Credevo che la Costituzione fosse una delle cose più belle che fosse accaduta all’umanità, forse più della venuta di Gesù Cristo.
Le costituzioni hanno ridato sicurezza ed equilibrio agli uomini e al diritto. Ma poi ci siamo sentiti sempre più sicuri, nelle nostre comode case, con la pace alle spalle da molti anni. E anzi, a volte le costituzioni ci pesavano con fastidio, quando gravavano con insopportabili lentezze le operazioni economiche, i processi, il lavoro degli organi dello stato, la repressione dei crimini, la lotta al terrorismo. Come quei vecchi lenti e decrepiti che fanno un sacco di storie e di ammonimenti quando le cose potrebbero essere molto più snelle, rapide, semplici. Efficienti.
Uso spesso quest’ultima parola perché è con questa che ce l’hanno infilato più volte nel culo. Chiedo scusa. La colpa è del mio professore. Usava queste frasi anche nelle relazioni e una volta si fece buttare fuori da un convegno internazionale. Non lo invitarono mai più. E io non posso evitare di farlo, mi sento un po’ più lui quando lo faccio e la cosa mi conforta.
Periodo lungo di corruzione, di crisi dell’istruzione, crisi economica. Immigrazione, povertà, paura del terrorismo, decadenza della politica, degrado dei mass media. Siamo passati per governi populisti, governi di potentati economici, governi di ladri e corrotti, governi improponibili e impresentabili, governi di inetti e temporeggiatori. E poi è arrivato lui, l’attuale. Il riformatore. Nessuno ricorda di averlo votato la prima volta, ma non è importante, arrivati al punto in cui eravamo l’avrebbero votato comunque se gliene fosse stata data la possibilità. Non aggrappatevi a tutti questi formalismi democratici che paralizzano il Paese.
Il riformatore è dinamico e simpatico, vuole piacere a tutti. Un colpo al cerchio ed uno alla botte. Le tensioni si allentano, si stringono le mani dietro le telecamere. Il riformatore vuole aiutare il Paese, ama profondamente il Paese, è in pena per esso. Cosa fare se non riformare la Costituzione? sia chiaro non togliamo diritti a nessuno, limiamo un po’ quella parte strutturale che non si adegua più a delle istituzioni di un paese rapido ed efficiente. Peccato che quella fosse la parte dei limiti e contrappesi ai poteri dello Stato.
Successo popolare, pochi oppositori bollati come professoroni pesanti, spaventati, trincerati dietro al vecchio, conservatori dello status quo. La riforma cambia la Costituzione. Diventa una Carta snella, flessibile, di soli quaranta articoli. Ma fondamentali. Il resto lo affidiamo alle leggi e ai decreti del governo, molto più liberi di cambiare così come cambiano i tempi.
Io ho pensato che il mio professore ne sarebbe morto. Mi ero già allontanato da lui, non voleva più sentirmi. Avevamo rotto anche violentemente ma quando lessi della riforma sulla gazzetta provai una pena così profonda per lui che desiderai che fosse morto qualche anno prima per non vedere questo momento. Aveva novant’anni all’epoca ma con una mente più lucida della mia. Solo dopo la sua morte appresi che quel giorno i vicini chiamarono la polizia perché il vecchio dell’ultimo piano aveva preso a sfasciare i mobili e rompere oggetti. Non so che accadde dopo.
Appena l’approvazione della nuova Costituzione dinamica glielo permise, si passò a cambiare i singoli poteri dello Stato per permettere all’esecutivo di vegliare meglio sulla loro efficienza. Il primo della lista, naturalmente, fu il potere giudiziario.
Si arrivò così alla riforma del processo penale. La terza era della procedura penale – come la chiamarono – nella quale io e il mio lavoro di avvocato ci troviamo ora infognati da quasi quindici anni.