martedì 16 febbraio 2016

Riflessioni, le matin. Di caffè, di scrittori, di Emmanuel Carrere, di un teatro passato, di realtà e di irrealtà.

La mattina: quando la coscienza si è appena accorta di non essere più spenta e di non essere più buia, irrorata dal caffè del mattino, questa specie di trasfusione di vitalità, che da una certa età in poi è necessaria per iniziare a vivere ogni giorno, durante la quale io leggo. Leggo perché i libri, al mattino, sono per me, anch’essi una trasfusione di vita, di vita mentale, di vita interiore, non saprei come chiamarla. E’ come se nutrendomi delle loro parole, io avessi la materia prima per poi trasformarla nelle mie e riutilizzarla come mie parole, cosa che non potrei fare in assenza delle loro, perché non avrei la materia da trasformare. E poi leggo la sera, prima di andare a letto, perché leggo prima di andare a letto? Perché è come se quella vita di altri, perché il libro non è altro che la vita di un altro che raccoglie in sé la vita di altri, la vita dello scrittore che raccoglie e salva la vita delle persone che hanno ispirato il libro, o la sua stessa vita, o tutto quanto insieme. Ebbene tutte quelle vite che non sono la mia, è come se dessero un senso alla fine della mia giornata, qualsiasi cosa abbia fatto in quella giornata, leggere di loro, mi dà un senso, mi fa sentire parte dell’umanità come ad altre persone stare in una comunità, aiutare, costruire qualcosa, li fa sentire parte dell’umanità.
Stamattina ho letto uno scrittore francese, scoperto appena, grazie ad un articolo di un anno e mezzo fa, che ho trovato casualmente in un vecchio giornale. Quell’articolo mi ha innamorato perché era così personale, perché gli scrittori, a differenza dei giornalisti, hanno questa bellissima capacità di trasferire sé stessi, la propria umanità, tutto quello che pensano, che vedono, nei loro scritti. Sì, sono dei pazzi egocentrici, sicuramente, egocentrici fino al midollo, ma di un egocentrismo autistico, chiuso:  voglio che mi guardiate ma non come me stesso, ci deve essere un mezzo tra me e voi. Io voglio essere guardato da voi ma non dritto negli occhi, ho bisogno di uno schermo e quello schermo è la scrittura, sono le loro parole, i libri, gli articoli.
Questo scrittore però, era più onesto degli altri, più vivo degli altri, perché metteva sulla carta il suo nome, la sua vita, niente personaggi, niente pseudonimi, era lui e basta. E mi è piaciuto così tanto che l’ho comprato di corsa, appena ho finito di leggere quell’articolo sono andata in libreria a cercare i suoi libri e ne ho preso uno dal titolo decisamente eloquente. Si chiama “Vite che non sono la mia”. Vite che non sono la mia, eh. Non è questo che fanno gli scrittori in fondo? Rubano vite che non sono la propria. In qualche modo si arrogano il diritto di raccontarle.
Ma perché loro, mi sono sempre chiesta, perché loro si arrogano il diritto di raccontarle? Perché gli altri cedono, talvolta di buon grado, questo importantissimo diritto, quello di parlare della propria vita, quello di consegnare il senso della loro vita alle parole? Perché? Beh io penso che sia perché riconoscono il talento, riconoscono la vocazione.
 Perché ci si lascia ritrarre da un artista? Tutti quei quadri, di secoli e secoli, madonne con facce di povere contadine o borghesi che posavano per quadri scandalosi di avanguardia, perché lo facevano? perché si donavano in questo modo al talento, talora totalmente estraneo? Non lo so.
La spiegazione è difficile da trovare, ma credo che raccolga e racchiuda in qualche modo tutta la bellezza degli esseri umani, la vanità sicuramente, ma non è solo vanità, perché loro non lo fanno solo per sé stessi,  lo fanno per quell’arte di cui l’artista che li sta immortalando è solo un tramite. Loro vogliono inserirsi in quel flusso che legherà se stessi e l’artista e il loro tempo ai tempi futuri e vogliono entrarci perché sanno quanto sia importante tutto questo per il genere umano.
Stavamo dicendo, il libro che ho letto, stamattina, è un libro di quelli bellissimi, che non trasfigurano totalmente le vite che gravitano intorno all’autore, lasciano nomi, date, luoghi, così come sono, però è come se le esaltassero, come se riuscissero a trovare l’oro, l’oro puro, in quello che per noi sarebbe solo una manciata di terra, di terra comune, di terra già vista, magari a volte terra bella, terra interessante ma solo terra. E loro vedono luccicare l’oro. Poi, sì, ci vuole un processo particolare perché quell’oro si riveli in tutta la sua bellezza, perchè smetta di sembrare terra, e quel processo deve essere fatto con cura e con sapienza, ed è quello che fanno loro. Perdonatemi la metafora, è un po’ trita quella dell’oro, ma è quella che forse rende meglio l’idea. E allora ho iniziato a pensare agli uomini della mia vita, ho iniziato a pensare, perché io, che voglio scrivere, che ho il senso, la voglia, se non il talento, di scrivere, perché non riesco a illuminare così, a setacciare così, le persone, che ho a mia disposizione, che non sono meno speciali di quelle che quello scrittore ha a sua disposizione, anzi, anzi.

Un uomo fuori da un’agenzia di viaggio, sta spruzzando acqua su un bonsai, il termine tecnico dovrebbe essere nebulizzare.
Ma stavo dicendo di stamattina e del mio desiderio di parlare e di pensare, cosa ho pensato. Ho pensato alla mia semipermanenza in mezzo a della gente di teatro, perché? Perché, mi sono accorta che il teatro, che si crede essere il luogo della massima finizione, luogo dell’inganno, in verità, è il luogo della realtà. Quello che ho scoperto, frequentando attrici, ma attrici vere, attrici appassionate, attrici che ne vivono, che non fanno altro, che lo insegnano, e questo è ancora di più, perché per insegnare qualcosa devi prima conoscerla e per conoscerla devi entrare, tuffarti dentro quello che stai facendo, una cosa è fare e una cosa è dover estrinsecare, estrapolare, per darla ad altri, e così mi sono resa conto di questo, che io ero l’unica che mentiva là in mezzo.
 Tra tutte le persone che recitavano, io ero l’unica che mentiva, e forse questo mi ha reso la più scrittrice di tutti. Lo scrittore tra gli attori, è lui quello che mente. Perché? Perché non bisogna credere che il teatro sia finzione, in realtà il teatro attinge ai serbatoi più concreti di realtà, quelli che uno ha dentro di sé.
Una delle due insegnanti all’inizio del mio corso, frustrata dalla mia incapacità di attingere alla realtà, di manipolarla, di prenderla e farne qualcosa, anche solo buttarla fuori, esporla, frustrata da questa mia totale irrealtà, ha detto: “La  vergogna in teatro- e per questo intendeva la timidezza, la pudicizia, l’imbarazzo- la vergogna in teatro  è volgarità”.
 Non so se fosse una sua frase, o se gliela avessero ripetuta i suoi maestri al tempo, ma è una frase verissima. E dovrebbe essere vera anche nella vita per quanto ne so. La vergogna in teatro è volgarità, chi si vergogna in teatro è come in un salotto buono qualcuno di sguaiato, che parla ad altissima voce, che monopolizza l’attenzione, che monopolizza la conversazione. In teatro chi si schernisce, chi si vergogna, è qualcuno che non rispetta le regole civili, le regole del teatro. Vagli a dire, che io ho un problema con la realtà, un serio problema. E mi sforzo, sì, di capirla, di esserne parte. Ma è un processo difficoltoso, per me, in qualche modo monca, è difficile arrivare a quello che per altri è invece qualcosa di assolutamente naturale. Perché, non so, me lo sono sempre chiesta, ma è inutile cercare di trovare una spiegazione, perché sono fatta così e basta.
Quello che mi preme dire, che mi premeva dire poco fa, e che ora mi riesce un po’ più difficile, perché a me la coscienza viene su a ondate, a rigurgiti che poi ti lasciano il sapore in bocca, un po’ acido, a volte dolciastro, un sapore digerito di cose che tu hai conosciuto attraverso i sensi, hai preso dall’esterno ma poi hai intriso di te, perché la digestione non è altro che questo se ci pensate: inserite in voi qualcosa di fuori, di prodotto da altri, e poi lo intridete di cose del vostro corpo.
Prima entra in voi, si fa questo bel tour di vostre secrezioni, di vostri umori, striscia nel vostro interno e poi si riempie, il cosiddetto bolo, si riempie di saliva, di succhi gastrici e poi, sì, viene scomposto, ma non è che il suo passaggio resti indifferente a voi, passi inosservato, non è così: Lascia qualcosa, prende qualcosa, esce diverso.
E il gusto, che cos’è il gusto? A parte sorbire di quell’”esterno”. Il gusto è anche memoria, è anche ricordo sensoriale, di quello che voi avete conosciuto in qualche modo, tra tatto gusto olfatto. E poi memoria. E non è diverso con le esperienze della vita, non è diverso, sebbene entrino per altri canali, sebbene siano meno materiche, come accade col cibo, il cibo è sfacciato in questa sua materialità, è sfacciato in questo suo percorso, ma lo stesso accade con tante altre cose: accade con gli odori, accade con i pensieri. Quante volte accade con i pensieri.
E quindi, Io e il teatro. Se mi interrogo sul perchè io abbia voluto fare il teatro, rispondo in vari modi: uno è quello di questa dannata ansia che io ho di essere quello che non sono, il secondo è quello del fatto che ho una scarsissima conoscenza di me.
 Io sono profonda più dell’antro più profondo e oscuro, io sono infinita più dell’universo infinito e sconosciuto, non perché io sia speciale, ma perché è così, ogni essere umano è così.
Io non ci credo che ci siano persone che hanno una conoscenza così chiara e finita di se stessi, loro credono di averla, è perché non si sono posti ancora in determinate situazioni, non si sono ancora posti determinate domande.
Sicuramente sono più ancorate alla realtà di me, meno perse in loro stesse. C’è un modo più chiaro di esplorare sé stessi, piuttosto che gettarsi nel buio, buttarsi alla cieca nel buio come faccio io.
 Puoi legarti a una corda, puoi puntellarti a una parete, puoi portarti i bengala, che illuminino il percorso, puoi studiare, leggere, quello che hanno fatto altri prima di te, immergendosi in altre grotte che non sono loro stessi, e seguire quella strada. Si, sono sicuramente approcci più sensati, piuttosto che calarsi alla cieca e cercare di capire, di individuare, quello che i sensi ottenebrati cercano di mandarti, cercano di decifrare, ma io faccio così. Sono fatta così. Che posso fare? Migliorare, sicuramente. Ma migliorare me stessa non è stato mai il mio pezzo forte, denigrarla si, criticarla si, migliorarla no, non molto.
Quindi scarsa conoscenza delle proprie capacità e caratteristiche, voglia di sperimentarle si, e dall’altro lato, c’è il ricordo dell’infanzia, che è una cosa che mi perseguita. Io devo liberarmi della mia infanzia perché se no continuerò a cercarla in ogni cosa che faccio, a cercare di riprodurla. Ci sono esperienze che puoi fare anche al di là della tua infanzia, anche ammettendo di essere cresciuta. Ammettilo, porca miseria, cerca altre esperienze.
Da piccola ho amato recitare, ero molto brava, per quanto possano essere bravi i bambini, ma avendo conosciuto bambini che erano incapaci, veramente incapaci, di recitare, ed io spiccavo, su di loro,devo ammettere che lo facevo bene. Perché immaginavo, perché riproducevo, copiavo e riproponevo, come fanno gli attori, rimasti in questo modo bambini. Io li invidio, non lo riesco più a fare, la mia mente è bloccata, non immagina più, il mio cuore è bloccato, non sente più, la mia immaginazione è bloccata, non riproduce più. Volevo trovare un modo per sbloccarmi e non ci sono riuscita, tutto quello che ho prodotto sono stati momenti di possessione quasi orgasmici e incontrollati, la caduta, la perdita delle inibizioni, ma questo non è teatro, questa non è immaginazione controllata, questa non è attingere al reale, è solo togliere i freni, e allora ho fallito in questo mio tentativo, ma ho fallito solo a causa mia, perché avevo delle ottime insegnanti, perché avevo un ambiente protetto e stimolante di persone intelligenti e dotate che volevano divertirsi.

Ma io? cosa volevo fare io? Io volevo assistere. Il mio desiderio principale in ogni cosa, non è fare ma assistere, io sono un testimone. Quando studiavo procedura penale, sul mio manuale, al margine, io avevo scritto: Non giudice, non imputato, ma testimone sempre. 

venerdì 12 febbraio 2016

Professò, permettete uno sfogo (non molto) poetico?: Il razzista metropolitano

Il razzista metropolitano


Ho un serio problema con un particolare esemplare umano: il razzista metropolitano. 
I razzisti sono una cosa schifosa, è chiaro. Sono come degli animali carnivori che si nutrono del proprio stesso branco. Iene che si nutrono di iene, avvoltoi che divorano avvoltoi. I razzisti non sono solo un'involuzione della razza umana, sono proprio un'inversione della catena alimentare. 
Un solo altro organismo eguaglia questo processo: la cellula tumorale. 
Detto questo, non pone alcun problema di riconoscimento il razzista selvatico o "nature". Quello che gira col casco integrale con sotto la rasatura da naziskin, il manganello che spunta dalla tasca dei pantaloni e la croce uncinata tatuata su una spalla, per intenderci. 
Se vedi una merda di cane per strada, tipicamente olezzante, marroncina con sfumature giallastre, un po' molle o un po' secca, a seconda dei casi, non pensi che sia un fungo spuntato dal terreno, un frutto caduto da un albero o un oggetto smarrito. Una merda è una merda. E fa schifo. C'è poco da fare. 
Ma se quella stessa merda (tipicamente olezzante, marroncina con sfumature giallastre, un po' molle o già un po' secca a seconda dei casi) la trovi, che so, come soprammobile in una casa elegante o come fermacarte in un ufficio, allora ti poni qualche problema. La prima inevitabile reazione è di rimanere sconcertato.
 In seguito, inizia un titubante, cauto, dialogo con te stesso. 

IO (cauto): Ma questa è una merda...
ME (titubante): a prima vista così sembrerebbe. Ma potrei sbagliarmi...
IO: no, è proprio una merda merda. Dammi retta. 
ME: senti, è possibile che ci sbagliamo. Se era una merda qualcuno prima di noi l'avrebbe notato, non l'avrebbero mica lasciata lì. 
IO: è tipicamente olezzante...
ME: tante cose hanno un odore tipico penetrante. Prova a dormire nella stessa stanza con un formaggio di fossa.
IO: è marroncina con sfumature giallastre.
ME: Potrebbe avere assunto quel colore per diverse cause. Ho visto uno che aveva fatto una serie di lampade sbagliate che aveva esattamente quel tono di colore. 
IO: è un po' molle (o un po' secca, la cosa non cambia). 
ME: mah... chissà. Comunque non mi convince. Che vuoi saperne della consistenza osservandola da questa distanza, magari è un effetto ottico. Magari se ci avviciniamo sparisce. 
IO: no, senti, quella è proprio una merda. E tu sei uno stronzo. TUUTUUTUU
ME: pronto? Pronto???

Ecco. Il razzista metropolitano provoca questo turbamento, questo dissidio, come chiamarlo, questo sdoppiamento interiore in me, che si conclude inevitabilmente con la incazzatura di una parte di me e la totale confusione dell'altra.
Tu conosci uno - mettiamo avvocato - giacca, cravatta, ventiquattr'ore, educazione universitaria superiore, parla di libri, di cinema, di musica, non ha armi contundenti nella tasca di dietro dei pantaloni, non ha mai picchiato nessuno, non ha dato fuoco a senzatetto o rotto vetrine di negozi. Se gli dessi un tirapugni di ferro probabilmente ci si pettinerebbe i capelli. 
Sei dunque incline a ritenerlo una persona quantomeno integrata nella società, insomma gli attribuisci un bagaglio minimo di rudimenti della civiltà. Poi, casualmente, ci passi una serata e, in meno di due ore, ti accorgi che ha insultato nell'ordine cinesi, negri, froci, terroni e disabili. E tu sei rimasto lì, a sentirlo parlare con lo stesso medesimo tono di quando ti raccontava dell'ultimo film di Sorrentino. 
Mentre a te ti si è gelato sulla faccia lo spremuto sorriso di circostanza che avevi assunto fino a quel momento. 
Quest'uomo non ha mai fatto alcun male a un cinese, lo sai per certo, anzi ha sempre trattato ciascuna di quelle sue categorie con proprietà formale. Però le disprezza. Ci si sente superiore, lui in quanto maschio italiano bianco privilegiato. 
E allora cominci a capire che quel sottilmente olezzante razzismo metropolitano non è altro che un modo facile per averla interiormente vinta sugli altri. 
Capisci che questo è un ominicchio piccolo piccolo e spaventato che non ha trovato niente di meglio per avere un'immagine positiva di sè che denigrare quella degli altri in base a comodi, credibili, sperimentati e abbastanza diffusi stereotipi. 

Inizi ad avvertire l'odore tipico più deciso. 

Un ometto che non ha trovato niente di meglio per inserirsi nel mondo che unirsi a questo vasto popolo sotterraneo di uomini virtualmente incappucciati che, non riuscendo in alcun modo morale, lavorativo, fisico, ad elevarsi sugli altri, li schiacciano nella loro testa per farli diventare piccoli e brutti e trionfare su di loro nel minuscolo spazio della loro interiorità. 

Noti il colore marroncino, le sfumature giallastre. 

Questa fetta di umanità che ha trovato troppo faticosa la faccenda dell'evoluzione o proprio non ha la capacità o la materia prima per farci un essere umano completo, e allora ha bisogno di un cervello collettivo, in comune, pensieri preconfezionati, in comodato d'uso, pacchetti di convenzioni e convinzioni facilmente e comodamente aderibili. 
Oscar Wilde scriveva "Non disprezzare la società, lo fa solo chi non può entrarci". Chi disprezza l'umanità è solo perchè non può entrarci. 

ME: è molle... E' proprio una merda. 
IO: Alleluja! Ci sei arrivata. 
ME: pace fatta? 
IO: pace fatta. 




giovedì 11 febbraio 2016

La terza era della procedura penale. Parte seconda.

2. Ricordi di una vita passata 

La verità nel processo non esiste.
Se studi diritto, te lo insegnano al quarto anno di università. Se fai la pratica di avvocato, già dopo il primo mese ne sei convinto.
Di tutti gli strumenti che hanno a che fare con le cose umane, il processo è il più difficile, labile, impreciso, confuso. Lo scopo di tutti quei termini, quelle scadenze, quelle formalità, lo scopo perfino della disposizione dei banchi in aula e della toga del giudice è quello di dare un ordine e una forma a qualcosa di totalmente magmatico, aleatorio, fallibile.
Eppure il processo è una delle pratiche più longeve nella storia dell’uomo. E’ qualcosa di cui l’umanità non può fare a meno. Che, anzi, agogna, desidera, pretende, brama.
Processo, processo, dateci un processo. Ci cadono tutti, dai colpevoli agli innocenti, dai giustizialisti ai garantisti.
Il processo interessa, appaga, entusiasma.
Il processo dà un senso allo scorrere della vita, è il fiume delle cose umane che passa in un letto accuratamente scavato, con un disegno che viene limato da secoli.
Eppure, la verità non è qualcosa che appartiene al processo.
“Stronzate! Stronzate! Le tue vaccate da intellettuale dei miei coglioni. Cos’è sei insoddisfatto della vita? Suicidati o fatti una scopata, ma evita di fare danni all’umanità con le tue teorie da esistenzialista del cazzo”.
Chiudo gli occhi e cerco dentro di me quell’odore di lana sporca e fumo stantio che si portava sempre dietro il mio maestro, un’emanazione esterna del suo spirito acre e incontenibile. 
Stronzate del cazzo. Il mio maestro era uno dei più grandi processualisti del suo tempo e parlava come uno scugnizzo dei quartieri spagnoli che ha fatto scuola sulla strada e nei vicoli bui della metropolitana, quello che era stato per i primi diciotto anni della sua vita.
Quello della sua giovinezza era un tempo strano e confuso. La guerra mondiale aveva stravolto tutti gli ordini e le convenzioni, aveva rotto le barriere, spazzato via le sicurezze di secoli. I professori universitari si esprimevano con volgarità irripetibili, i contadini e i soldati riscoprivano pensieri di un lirismo straziante, la bellezza alle volte era nella morte, la bestialità nella vita, a volte coraggioso era chi uccideva, a volte chi riusciva a non farlo. Il potere, il governo, il sapere, la comunicazione e la cultura erano in un momento di nudità e di irripetibile realismo. Erano saltate, per un istante, per un periodo brevissimo, un soffio nella storia di un popolo, le ipocrisie su cui da millenni gli uomini strutturano la propria vita per riuscire a viverla comoda.
Vivere comoda la vita. E’ come prendere un treno ultrarapido e confortevole verso la morte. Poche fermate, servizio snack. Di quelli così veloci e confortevoli che del viaggio non te ne accorgi neanche. Del viaggio non te ne accorgi neanche e, all’improvviso, sei arrivato. Sei morto. E allora aspetta un attimo. Non è la comodità la cosa più importante di questo viaggio, non è la poltrona di pelle reclinabile e lo stomaco pieno che ti concilia meglio il sonno.
Lui mi ha cercato di insegnare principalmente questo: di viverla il più scomodamente possibile la vita, tenerla come un sasso appuntito nell’imbottitura della poltrona che ti ricorda inesorabilmente che hai un culo di carne viva e di non dimenticartelo mai, di essere vivo, di soffrire, di cambiare posizione. Si incazzava a bestia e iniziava a urlare e a imprecare davanti al mio pessimismo, fatalismo e alla mia arrendevolezza.
Aveva quella sciarpa rossa logora e quei maglioni lunghissimi di lana pesante abbottonati sul davanti, che superati i settant’anni gli arrivavano al ginocchio.
Quando ho iniziato il dottorato con lui, nella sua cattedra, oltre al Professore, erano in quattro, due donne e due uomini. E’ difficile rendere l’idea del rapporto che legava quelle cinque persone, cui, primo dopo molti anni, mi andavo ad unire. Erano un incrocio tra una setta agnostica, un gruppo di idealisti frustrati, di rivoluzionari falliti, e una famiglia disfunzionale, dove periodicamente c’era qualcuno che mandava a fanculo gli altri e faceva la mossa di andarsene, ma dopo qualche giorno lo ritrovavi di nuovo lì, come se niente fosse. Io, ragazzetto ben nutrito e relativamente amato, della medio-alta borghesia, preso dai miei dubbi esistenziali e da un vago disagio dello stare al mondo, non c’entravo nulla là in mezzo. Ho sempre sospettato che il Professore mi avesse preso con sé perché lo facevo incazzare. Ero il suo personale sasso fastidioso nella poltrona imbottita della vita.

Io, da parte mia, pensavo che quel gruppo di disadattati accademici fosse quello fatto per me che non trovavo posto da nessun’altra parte. Ero fuori posto anche lì, ma ero in compagnia. Era un gruppo di persone che si sentiva fuori posto nel mondo e il Prof. li raccoglieva come preziosissimi fiori rari sui cigli delle strade. Un unico  irripetibile giorno, insieme a una parte della sua storia passata, ci raccontò anche perché scegliesse persone come noi. E la sua spiegazione, irreprensibile nella sua follia, mi piacque.