martedì 26 luglio 2016

Jones il suonatore

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Prima parte

In quel vicolo di roma ristagna sempre una musica come fosse umidità. Passa poca gente di lì, solo quella che lo conosce. Non è piccola come strada, ma ce ne sono di più grandi. Una ragazza è ferma in mezzo come trattenuta ma non è un pensiero a trattenerla, è la musica. Le piace tanto da voler chiudere gli occhi ma non lo fa perché se ne vergogna. Intanto se ne sta là, a galleggiare lievemente sui talloni e ad ascoltare. Potrebbe andare a vedere, dovrebbe andare a vedere da dove proviene quella musica di chitarra morbida, chitarra ben trattata, amata. Ma per il momento non si muove, ha paura che tutto si spezzi e il mondo bello crolli e si frantumi, lei sa bene che mondi belli e effimeri si formano, crollano e si frantumano ad ogni istante.

“Beh, ha ragione, non l’ho più visto da tanto. Quel suonatore all’angolo. Però non so dire quanto. Sì a un certo punto è sparito, ma non me n’ero accorto.” La ragazza china la testa e si allontana dall’edicolante. Perché la gente non dà importanza alle cose veramente importanti? Che cosa è che rendeva organico quel vicolo che sembrava secernere continuamente musica dai muri e dalla strada come umori di un corpo vivo? Cosa faceva rallentare un po’ il passo e posava una melodia nella testa per il resto del giorno? E’ quel qualcosa che sta intorno alla vita di ogni giorno, che muta impercettibilmente e riempie gli spazi vuoti, così piccoli da non poter essere riempiti da nient’altro. E’ quel qualcosa da cui ci si lascia avvolgere, possedere un poco, senza concessione, distrattamente, unicamente perché quel qualcosa c’è, come quando si dà a un mendicante il resto in spiccioli del giornalaio, solo perché il mendicante è lì e gli spiccioli pure ed è più facile che metterli in borsa. Così la gente di quella strada e del vicolo si prendeva quella musica, come spiccioli di cui non si sapeva che farsene e si potevano tenere o dare via. Eppure quegli spiccioli da qualcuno non sono trascurati. Per chi si sente povero sono una piccola ricchezza.
La cosa veramente importante di cui la ragazza chiedeva era un musicista di strada con la sua musica sparsa per la via. Ogni giorno era lì, tutte le ore a carezzare la sua chitarra. Era nero ma non molto scuro, quasi grigio, come se il suo colore si fosse un po’ scambiato all’aria col tempo, poteva avere quarant’anni o giù di lì, portava dei pantaloni neri a righe sottili con le bretelle, con su una t-shirt nera e un fazzoletto rosso al collo. Aveva dei bei capelli ricci e corti, un corpo forte e un sorriso raro e molto bianco. Suonava la chitarra, vicino alla bocca aveva un’armonica sospesa ad un sostegno e a volte cantava con una voce bassa, dolce e sottile. Era fatto così lo strumento di quella musica, sembrava sceso da un transatlantico venuto dall’america un secolo prima.
“Buongiorno”“Buongiorno, cosa desidera?”“Vorrei chiederle una cosa” Il sorriso commerciale si affloscia ma le labbra si riprendono presto. “Prego.” “Si ricorda di un suonatore che stava sempre in quella strada? Con la chitarra e l’armonica a bocca?” Il commerciante si fa sospettoso. “ Si, abbastanza. Si me lo ricordo” ammette “ Sa per caso che fine ha fatto? Sono due mesi che non si vede più, ne sa qualcosa?” “Non ne so proprio niente” si mette sulla difensiva poi si ammorbidisce “ora che ci penso è un sacco che non lo vedo, suonava proprio qui, all’angolo eh? Era nero” “Sì” “No, non lo so, non l’ho mai sentito parlare con qualcuno. Devi vedere al bar, questo qui a destra, lui ci andava nelle pause” “Grazie” La ragazza accenna un sorriso timido, rapidissimo e vola via.

E’ ferma nella musica, a un certo punto si sente osservata. E’ un vecchio con la barba grigia seduto in terra con la schiena contro un muro, la guarda insistentemente, profondamente, senza alcun imbarazzo sociale. Lei arrossisce, teme che voglia dei soldi da lei e la cosa la imbarazza. In quel momento tutto quello che ha è solo musica, quella musica, e non sa se lui potrebbe capire. Ma il vecchio non parla, non agita il barattolo delle monete, solo la guarda come se cercasse l’effetto della musica nei lineamenti del suo volto.

“Mi scusi. Scusi.” Cerca di attirare l’attenzione, “Un attimo solo” le giunge una voce indaffarata dietro una montagna di clienti in attesa di caffè, tutti quei suoni insieme, le voci oziose, i piattini sul bancone, il piccolo getto di vapore, le richieste, le ovattano le orecchie, si mettono tutti insieme dentro come un tappo di stoffa che filtra i suoni in maniera pastosa. Lei attende paziente e intanto diventa tutta occhi, a proteggersi dai suoni indistinguibili. Poi il momento di punta finisce e i clienti sembra che escano dal bar come una massa, tutti insieme. Rimane lei che pare l’abbiano dimenticata là e il barista che sembra stordito da quell’improvvisa solitudine. “Prego” dice con voce affaticata e gentile, è un ragazzo. Rimane zitta. E’ sempre timida con le persone della sua età. Poi chiede un caffè, le sembra la cosa giusta da fare. Il ragazzo sorride e si gira a prepararlo in silenzio. Poi le posa un piattino davanti e un cucchiaio e tutti sembrano in attesa della tazzina di caffè, il loro scopo, il loro completamento. Lei strappa una bustina con cura, cercando di non far cadere lo zucchero, poi beve. Il barista resta a guardarla. “Lei?” “Eh? Come?” fa lui come se riemergesse da una profonda distrazione “No, dicevo. Lei ha presente quel musicista di strada, quello nero, con la chitarra?” Lui la guarda molto fisso e poi sorride “Certo che l’ho presente, è molto bravo.” “Sa dove è?” Lui aggrotta le sopracciglia e piega le labbra “No, è da un po’ che non lo vedo, da più di un mese. Perché?” E’ la prima volta che glielo chiedono, rimane un po’ incerta. “ Vorrei sapere dove è” fa guardinga. Lui alza le spalle dispiaciuto “Mi dispiace non so dove puoi trovarlo. Prima veniva qui, ogni giorno a prendere il caffè, lungo. Ne chiedeva due in tazza grande e lo faceva allungare con l’acqua bollente” ricorda divertito.
E lei si smarrisce un attimo e smarrisce il bar e il tempo e immagina lui che entra stanco con la sua chitarra ferma in una mano e si passa l’altra sulla fronte, poi si guarda in giro e trova il posto migliore davanti al bancone, senza fretta si avvicina e si siede piano poi aspetta un momento e ordina il suo caffè “Due caffè in una tazza grande allungati con acqua bollente” sempre la stessa ordinazione ma lui la ripete perché non crede che la gente possa ricordarsi di lui anche se lo vede giorno dopo giorno. Quindi lo lascia raffreddare un po’ appoggiando gli avambracci sul bancone e non parla. Perché lui non parla per ingannare il tempo, se lo fa è per dire qualcosa e allora lo fa molto raramente. Poi nel suo campo visivo entra il barista.
Lei lo guarda. Il barista, lo stesso barista, una persona concreta, reale per entrambi, un legame tra lui e lei negli occhi, nel tempo. Un elemento che avvolge il tempo, se lo avvolge intorno come zucchero filato e c’ha tutto lì in fili leggeri, presente e passato.
“Io sono innamorata di lui” dice all’improvviso al barista, al solo legame che ha con lui. Il ragazzo rimane interdetto. “ Potrebbe essere in prigione, potrebbe essere morto” china la testa piano sul caffè. Il barista fa il giro del bancone, le si siede vicino e le sorride comprensivo, vorrebbe metterle una mano sulla spalla ma non la tocca. “Eri la sua ragazza?” Lei scuote la testa continuando a fissare il caffè. “Sei stata con lui?” Non risponde. Lui si raddrizza sulla sedia e appoggia un gomito sul bancone pensando. “Come ti chiami?” Lei alza un poco gli occhi “Eleonora” “Che bel nome” fa lui dolcemente “Eleonora, io non so molto dell’uomo che ami, l’ho visto ogni giorno passare da quella porta e sedersi…” si guarda intorno si alza, si sposta al lato più lontano del bancone “esattamente qui. Non ha mai chiacchierato con nessuno di noi. Ma posso dirti che è americano per la cadenza delle sue parole quando chiedeva il caffè, ma forse lo sai già. E che mi sembrava gentile, riservato ma gentile.” Si alza e ritorna vicino a lei e sembra che gli venga in mente qualcosa. Un giorno era entrato un vecchio barbone e lui l’aveva salutato e gli aveva offerto un caffè corretto e poi avevano iniziato a parlare di Hemingway e Fitzgerald, cosa che lo aveva alquanto stupito ma quando si era mostrato troppo interessato alla discussione loro si erano fatti silenziosi e avevano smesso. “Aveva un amico, un vecchio mendicante che sta nel vicolo.” Eleonora si ricorda due occhi chiarissimi come vetri che davano l’impressione che ci fosse qualcuno di ancora più acuto ad osservarti da dietro. Due occhi di vetro. Rabbrividisce dentro, annuisce lentamente e si alza. Il ragazzo pare agitarsi “Tornerai a dirmi come è andata?” Lei lo guarda un attimo e annuisce. Lui sorride. “Mi chiamo Daniele, o Dan.” Lei lo guarda ancora, piega la testa su un lato, annuisce e dice “Arrivederci, Daniele".

mercoledì 6 luglio 2016

Piccolo racconto d'antan

Nanny 
del passaggio all'età adulta




La signora Maria, la fruttivendola, e Clotilde che lavorava nella lavanderia si salutarono lungo la strada e si vennero incontro. “Come siamo eleganti stamattina, tutta in ghingheri!” disse Maria con un sorrisetto “ Hai ricevuto anche tu l’invito di Nanny?” L’altra annuì e cacciò un foglio di quaderno strappato su cui erano scritte poche righe e lesse “ E’ gradito l’abito scuro.” Sorrise divertita, Maria sollevò le spalle come a dire non ne so niente e fece cenno di avviarsi. In piazza c’erano già parecchie persone sedute sulle sedie pieghevoli che avevano portato da casa. Nanny allo sbocco della via principale accoglieva tutti educatamente, con la faccia contrita e lo sguardo insolitamente cupo, come se fosse sulla soglia della casa di un morente. Le due donne dopo averla abbracciata andarono a cercare le comari che le avevano conservato dei buoni posti, passando una diede una gomitata all’altra e indicò un lungo buffet fatto di più tavoli coperti da tovaglie di plastica dove c’erano bibite, salami e pizze rustiche “bene bene bene” disse Maria soddisfatta.
La folla parlottava allegra in attesa, tutti avevano rispettato la richiesta dell’abito elegante e ora commentavano le varie mises. La signora De Leonardi aveva persino messo la grande spilla di diamanti che indossava solo a Pasqua e ai funerali di famiglia.
Uno scampanellio e arrivò Annamaria come fosse una fata, scese dalla bicicletta e tenendola con una mano abbracciò forte Nanny con l’altro braccio “Come stai, dolcezza mia?” le chiese teneramente, Nanny si limitò a scuotere la testa in modo doloroso. Non voleva parlarne. Annamaria le sorrise dolcemente e disse solo “ Vado a posare la bici”.  Annamaria era la ragazza più bella del paese, era una gloria locale, la ritenevano perfino più bella delle ragazze della televisione perché era viva e reale, chi te lo diceva che quelle erano davvero come apparivano in tv? Esclamavano tutti, perfino gli uomini. Annamaria era la cugina di Nanny, aveva pochi anni più di lei. Quando fu vicina al lampione un ragazzo le si fece subito incontro e le chiese se poteva occuparsi lui della bici, lei non disse niente ma gliela lasciò con indifferenza e forse con una punta di fastidio.
Quando furono arrivati tutti, tutti quelli che potevano lasciare il lavoro, agli altri gliel’avrebbero raccontato il giorno dopo, Nanny avanzò con un tavolo quadrato tra le braccia e lo mise davanti alle sedie, al centro della piazza, a mo’ di palco. Ci si sedette sopra, poi si issò prudentemente in piedi e tossì. Si fece silenzio. “ Grazie per essere intervenuti così numerosi” disse. Non saremmo mai mancati, pensarono molti. Nanny aveva quindici anni e sotto molti aspetti era una ragazzina normale, molto bruna, cicciottella, non si poteva dire che era brutta ma non aveva una bellezza che colpiva a prima vista, come quella dei quadri di Botticelli o quella di Annamaria. Tutti la chiamavano Nanny, sin dalla nascita, ma lei si chiamava Giovanna e si firmava così sotto gli inviti che distribuiva ai compaesani. Sotto molti aspetti era una ragazza come le altre, dunque, ma non per tutti. Aveva un nonsoche, un pizzico di anormalità, di diversità, forse di follia. Fatto sta che quel po’ di strano e indefinito che aveva faceva sì che la sua piccola vita non passasse inosservata come tutte quelle della sua età e che tutti la tenessero d’occhio e ognuno a suo modo le volesse bene. Era benvoluta dalle sue compagne perché aveva sempre qualcosa di buffo da dire e poi non aveva niente che potessero invidiare. Era benvoluta dai ragazzi perché non era qualcosa di alieno come tutte quelle del suo sesso e non avevano paura di lei, e non volevano far colpo su di lei. Era adorata dai  pensionati della piazza perché parlava con loro e li ascoltava ma non in modo condiscendente come quelli del volontariato della domenica, li ascoltava come uomini e non come vecchi, come vecchi involucri di fatti passati. Era benvista da tutti i negozianti e fin da piccola ogni volta che poteva li aiutava in negozio e gli faceva sembrare più bello quello che facevano, e loro erano felici di avere qualcuno a cui insegnare che non temessero di sottrarre al lavoro perché non era stipendiata. Piaceva ai suoi professori non perché fosse particolarmente brava a scuola, anzi in alcune materie andava decisamente male, ma perché era l’unica allieva che parlasse a loro come uomini e non solo come contenitori di scienza e dispensatori di voti e autorità. E poi portava gli struffoli a natale e le chiacchiere a carnevale. Nanny faceva degli ottimi dolci, le aveva insegnato la vecchia Sesa, la fornaia, qualche mese prima di morire.
“Purtroppo l’evento per cui vi ho chiamati qui non è lieto. Si tratta di una perdita, si tratta di un funerale.” Continuò Nanny con tono solenne. Il chiacchierio che pizzicava la piazza si arrestò, l’atmosfera di festa gelò. “Che vuoi dire, Nannì? Chi è morto? Non abbiamo visto nessun manifesto.” Fece un uomo seduto in prima fila, “ Tu l’hai visto?” chiese al vecchio alla sua destra che disse di no “E tu?” fece alla donna alla sua sinistra che scosse la testa. Si sollevò un vociare perplesso. Nanny, insolitamente grave, alzò le braccia in modo teatrale, chiedendo il silenzio “Non ci sono manifesti ma è morto qualcuno che conoscevate” Si levò un urlo “Peppino! Dove sta Peppino?Non l’ho visto oggi!” teste agitate si voltarono di qua e di là, “Oh, so’ qua! So’ qua!” disse un vecchio con la coppola in testa e due denti in bocca, tutti si quietarono di nuovo, guardando Nanny preoccupati. Lei parlò  “ E’ morta la vecchia Nanny, la Nanny che voi tutti conoscevate.” Il cambiamento fu repentino. I volti tesi e tirati si rilassarono, le teste smisero di cercare persone assenti tra le sedie vuote, qualcuno si mise più comodo sulla sedia, altri parlottarono vivaci. Le cose erano tornate alla normalità, di nuovo tutto ciò che si aspettavano era una bravata di Nanny, che era puntualmente arrivata. Ci furono persino delle risatine trattenute. Nanny parve non notarle, parve non notare alcun cambiamento nell’atmosfera generale e continuò seria nel suo vestito nero troppo grande per lei, probabilmente prestatole da qualche signora del paese di grossa corporatura.
“Alfredo” disse all’improvviso la ragazzina “ Ti ricordi la Nanny che rideva a veder nascere i tuoi pulcini?” Un contadino abbronzato annuì dal suo posto in fondo “Ebbene non c’è più. E’ morta” Cercò con gli occhi tra la folla “Chiara, hai presente la ragazza che voleva imparare tutti i nomi dei fiori?Defunta.” continuò  a chiamarli per nome “Michele, Arturo, Ciccio e tutti gli altri ricordate la Nanny che si arrabbiava come un…” “Come un turco” la precedette Michele annuendo e sorridendo al pensiero “…quando perdeva a scopone?” concluse Nanny “Adios. Kaput.” E fece un gesto definitivo con le mani. “ Da oggi nulla mi interesserà più, nulla mi farà gioire veramente. Non riderò mai più di gusto. Prego Maestro.” Nanny fece un cenno a uno spilungone sulla quarantina che era in piedi alla destra del tavolo su cui si era issata Nanny. Quello, pronto, iniziò a suonare con l’armonica a bocca una lamentosa melodia, “Attacchi, Nonna.” Disse quindi Nanny a una vecchissima donna, fragile come una foglia secca. Quella si alzò tremante, si mise al centro tra il piccolo palco e le sedie e iniziò a cantare con una voce piccola e tremolante Perché, mammina, si soffre sempre d’inverno. In paese era famosa da almeno dieci lustri come esecutrice di Perché mammina si soffre sempre d’inverno. Nanny chiuse gli occhi e stette immobile fino alla fine della performance. Tra il pubblico c’era chi non ce la faceva più a trattenersi e ogni tanto si innescavano a catena attacchi di risa convulse. Di quelle che non riesci a smettere, che si concludono con le lacrime. Era la scena tragica più comica che si fosse mai vista.
Gli artisti continuavano imperterriti la loro esecuzione, Nanny aveva sempre gli occhi chiusi e una espressione dolorosa. La poderosa Signora Lenin, così chiamata da tempo immemorabile, ex sessantottina inaffondabile, decise che era tempo di sgattaiolare via e fumarsi la sua canna pomeridiana. La Signora Lenin era sempre provvista di canne in gran quantità e i ragazzi, quelli più ribelli, filonavano la scuola per andare a fumare da lei, a patto, però, che stessero a sentire tutti i suoi racconti di quando militava nel partito e si era quasi unita alla lotta armata. La donnona accese lo spinello. Il fumo danzò allegramente e salì verso l’alto e in alto decise di arrestarsi sotto il naso di Nanny che annusò lo strano odore e fu pervasa da un certo benessere. Man mano che la canna si consumava le espressioni della Signora Lenin e di Nanny diventarono sempre più serafiche e serene. La ragazzina aprì gli occhi e la bocca in un gran sorriso e scoppiò a ridere. Rise tanto e tanto forte che si piegò in due e dovette tenersi la pancia e le vennero le lacrime agli occhi. La dolente melodia si interruppe di botto e gli ispirati esecutori si guardarono perplessi e un po’ piccati. L’ilarità generale era ormai incontenibile e aumentò ancora quando scorsero la Signora Lenin accoccolata dietro il tavolo sotto il suo fumo scuro e capirono ciò che era successo.  Le risate produssero un tale boato che gli uccelli posati sugli alberelli della piazza volarono via. C’era gente che ululava dal ridere, crisi respiratorie, persone che cadevano dalle sedie e non lo sentivano neanche, come anestetizzate dalle risate. Tutto questo durò a lungo.

Quando infine tutti si furono calmati, ritendendosi ormai sciolti dal lutto, si avviarono al buffet chiacchierando allegramente e trattenendo qualche scampolo di risata. L’atmosfera era quella da festa del Patrono. Quanto a Nanny, quando fu finito l’effetto esilarante del fumo, tornò cupa, se possibile ancor più cupa di prima e rimase per qualche minuto a fissare le sedie vuote davanti a sé. Poi ridiscese lentamente con espressione truce. Annamaria che era stata l’unica a non aver mai nemmeno sorriso, le si avvicinò comprensiva. Lei la capiva, ci era già passata. Nanny alzò gli occhi sconsolati a guardarla e disse “ Io ho provato a dirglielo. Lo hai visto. Ho provato a dirgli che sono cresciuta. Lo faccio per loro, sai. Sai quanto si dispiaceranno quando non mi troveranno più, non mi capiranno più…” Annamaria annuì seria. Nanny scosse la testa “Succede tutte le volte, uno cerca di prepararli, di avvisarli… e loro non capiscono mai.”