sabato 18 febbraio 2017

Due incontri

Una notte non riuscivo a dormire. Avevo undici anni. Mi alzai dal letto e scesi al piano di sotto, dov’era il soggiorno. Lì c’era mia madre, ancora sveglia, acciambellata sul divano, in un angolo davanti al televisore. Piangeva. Non avevo ancora mai visto mia madre piangere. Guardava il televisore e piangeva, non si era accorta che la stavo fissando. Distolsi lo sguardo da lei e vidi quello che stava guardando. C’era un uomo sullo schermo, era nel mezzo di un palco, seduto con una gamba accavallata sull’altra, teneva una chitarra in braccio e la suonava sfregandola piano, cantava ad occhi chiusi. Era circondato da una decina di musicisti, davanti aveva centinaia di persone. Ma era come fosse solo al mondo. Quella fu la prima volta che vidi Fabrizio De Andrè.
Era l’11 gennaio del 1999, i telegiornali avevano annunciato la sua morte di cancro ai polmoni, a nemmeno sessant’anni, la rai in seconda serata mandava in onda le riprese del suo ultimo concerto. Mia madre piangeva.
La storia di mia madre e Fabrizio De Andrè era iniziata molti anni prima. Era il 1964, De Andrè aveva ventiquattro anni, ed era pressocchè sconosciuto, mia madre diciannove. Mia madre viveva a Torre Maggiore, un minuscolo paesino dell’entroterra pugliese, lì le novità arrivavano di solito portate dai fuoriusciti, i paesani emigrati che tornavano a casa per le feste. Tra questi, un ragazzo con cui lei e le sue sorelle avevano giocato da bambine. Questo ragazzo e la sua famiglia si erano trasferiti al nord, quando tornavano avevano tutti intorno. Uno di quei giorni inforcò la chitarra e prese a suonare. Cantava una canzone dolcissima e immensamente triste, parlava di una ragazza, Marinella, che era scivolata in un fiume e annegata, dopo aver passato la prima e unica notte d’amore con l’uomo della sua vita. Lui, appresa la notizia della sua morte, non voleva crederci ed era tornato a cercarla ogni notte alla sua porta. Era qualcosa di totalmente nuovo.
Se guardate i filmati di quell’anno, c’è questo ragazzetto smilzo e poi la sua voce. Infinita, profonda, pulita, in nulla impostata, con le sfumature roche e tremanti. Raccontava la canzone, poi lo si seppe, di un fatto di cronaca che riguardava una prostituta che era morta annegata. Ne faceva la regina di una storia bella, delicata e struggente. Era un monumento inaspettato alla sua piccola vita e alla sua piccola morte. Temi questi che non erano ancora mai entrati nelle canzoni dell’epoca.
Il ragazzo che era tornato dal nord nel piccolo paesino della Puglia aveva dichiarato con convinzione di aver composto lui quella canzone. Quella fu la prima volta che mia madre ascoltò una canzone di Fabrizio De Andrè.
Quando fu svelato l’inganno, mia madre corse a procurarsi il 45 giri. Quattro anni dopo, nel 1968, uscì il suo primo album circolare –Tutti morimmo a stento – che da ragazza sentiva e risentiva tutto il giorno chiusa nella sua stanza. Parlava di drogati, di donne stuprate da uomini dabbene, di suicidi accolti in paradiso, di guerra sporca e di criminali impiccati che sputavano maledizioni sui loro aguzzini. Ad un certo punto suo padre, mio nonno, non ce la fece più. Prese il 45 giri, lo ruppe in due metà davanti ai suoi occhi e le ordinò di uscire a far prendere aria alla testa e di non ascoltarlo mai più.
Io, dopo quella prima volta ad undici anni, chiesi a mia madre di poter ascoltare quell’uomo che l’aveva fatta piangere. Sentimmo, per molti anni, due raccolte di canzoni, che conservo ancora in cassetta. C’erano La canzone di Marinella, Bocca di Rosa, Andrea, Il fiume Sand-Creek, Il testamento di Tito e altre.
Prostitute, omosessuali, emarginati, criminali, uomini persi, uomini dimenticati, esiliati della vita.
Ogni canzone mi rapiva la mente, iniziavo a farmi molte domande, ma non mi importavano le risposte, mi importava che quella voce continuasse e continuasse a farmi venire in testa centinaia di domande e cose a cui non avevo mai pensato nella mia esistenza.
Le canzoni di De Andrè furono, credo, la prima letteratura della mia vita. Forse quello che accese la mia sete infinita di parole e di storie. 
Consumai quelle cassette fino ai quindici anni. A quel punto io e mia sorella ricevemmo in regalo dai miei genitori il cofanetto completo dei suoi album. Fu un periodo di scoperte ininterrotte. Non ricordo nella mia vita un anno così pieno di stupore e bellezza e dubbi e dolore e malinconia e rabbia.
Volume uno e Tutti morimmo a stento mi insegnarono la pietà; La buona novella, il sentimento religioso, la spiritualità intima di un cristianesimo umano e disarmato, non per forza liturgico, non per forza condiviso; Storia di un impiegato mi insegnò la rabbia e l’impotenza, la cattiveria corrosiva del potere; Non al denaro non all’amore né al cielo mi insegnò la bellezza della miseria umana; Anime Salve, la necessità di appartenere ai pochi, ai diversi, a quelli che rifiutano le verità troppo semplici o troppo evidenti.
De Andrè, con quella sua voce profonda di occhi chiusi che guardavano dentro, a quindici anni mi insegnò qualcosa di molto complesso e ripugnante e struggente e bello, che un po’ forse è la vita.

venerdì 3 febbraio 2017

Clerici vagantes. Ai giovani perduti dell'Accademia

Clerici vagantes

Portami a casa.
 Cos’è casa?
Casa è il posto dove te ne puoi stare dentro te stesso
 senza che nessuno tenti di cavartene fuori e mandarti via.
Lo sai che non posso.
Perché?
Perché sei morto e di tuo non ho neanche il corpo.
Per Giulio Regeni

A chi apparteniamo? Allo Stato? Alla società? Alla famiglia? Alle “formazioni sociali che permettono il pieno sviluppo della nostra personalità”?
Niente ci appartiene e quindi non apparteniamo a niente. Non abbiamo più crediti verso nessuno. Tutti ci devono qualcosa. Qualcosa che, forse non volendolo, ci hanno sottratto.
Siamo un popolo di senza patria e senza radici. Un popolo apolide e sotterraneo che si incontra, si perde, si ritrova, si riconosce. Sosta e poi riparte. Riparte desiderando sostare. Cosa cerca? Un posto da chiamare casa. Ma chi l’ha persa la casa ce l’ha stampata dentro e nessun’altra può adattarsi alla sua forma.
Siamo i profughi del sapere, i nuovi chierici vaganti con gli zaini strappati e gli affitti stanchi. Siamo dottorandi, assegnisti, post-doc, ricercatori. Siamo le generazioni perdute dell’accademia, quelle che la desidereranno per tutta la vita e non potranno che girarle affannosamente intorno come scarni cani affamati.
Il mondo ha rinunciato a noi. Centinaia, migliaia di menti lasciate fuori. Che cosa avremmo potuto dargli? Non lo sapremo mai. Che cosa ha perso l’umanità futura? Non possiamo immaginarlo.
Se c’è un disegno del fato nelle cose umane, il fato ha scelto di non scrivere lì col nostro inchiostro. Siamo punti muti, pagine bianche. Non lasceremo nulla su quella traccia.
Diventeremo avvocati, bancari, impiegati aziendali. Nessuno ci restituirà i mezzi per mettere a frutto le nostre intuizioni. Le idee che forse un qualche dio illuminato aveva inserito in nuce nella nostra testa, nostra e di nessun altro, seccheranno morte e friabili sul ramo secco delle nostre vite di ripiego.
Ma noi intanto vaghiamo, come un popolo senza patria, alla ricerca di chi ci dica “resta”. Ma raramente accade. Il nostro destino è il movimento e noi siamo il movimento del mondo.
Ma è un mondo sempre più chiuso, ci si stringe intorno alle caviglie. Alzano muri e barriere di tutti i tipi, materiali e immateriali, fatte di stabilità negata o visti sottratti. Muri trasparenti di appropriazione e conservazione.
Ci negate l’accesso al vostro mondo, noi siamo gli straccioni dell’anima, gli accattoni della cultura. Come se non vi servissimo.
Come se non vi servisse quello che abbiamo noi, che è unico e nessuno tornerà a portarvelo.
A volte moriamo. Perché è un mondo incattivito quello in cui ci fate girare. L’avete imbizzarrito voi. Ma voi non dovete più viaggiare. Lo facciamo noi al vostro posto, i manovali della sapienza.
C’è sempre uno di noi che crepa quando succede qualcosa di brutto, un attentato un incidente. Perché noi siamo sparsi ovunque, come manciate di sale sulla strada per evitare che ghiacci.
Dovevamo essere nodi e raccordi, dovevamo avvicinare e unire. E invece non siamo che dei rinnegati. Dei rifiutati. E ci portiamo in cuore il senso dell’abbandono che è un buco nero. Come fa ad unire uno che ha il buco nero in corpo?
Dateci una casa. Fateci entrare. Fateci entrare col camino spento. Il fuoco lo portiamo noi.