venerdì 15 dicembre 2017

Un corpo solo


Sono tornato a casa perché mio fratello sta morendo. Ha ventinove anni, due più di me, lavora nel negozio dei miei e vive nella stessa strada dove siamo cresciuti. Mi ha chiamato lui, ma non per guardarlo morire. «Fosse per questo non ti avrei scomodato, Vincé. Non è mica una bella cosa vedere la gente morire.» Mi ha chiamato per la partita. La maledettissima partita di qualificazione per il torneo. Tommaso gioca da tre anni in una squadra di rugby del suo quartiere, quando torno giù e ci vediamo non fa che descrivermi per ore le partite in mezzo al fango e sotto la pioggia. E più c’è fango e più c’è pioggia più lui è contento, gli si illuminano gli occhi ed è come se quegli ostacoli là spazzassero via tutto il resto. Spazzassero via il fatto che ha un cancro alla pelle, ad esempio. «Io sono il mediano di mischia. Come fanno senza di me?» «Ma chi se ne fotte del rugby. Fammi il piacere.» «Io. Io me ne fotto, hai capito? Non li posso lasciare soli. Per questo ho chiamato a te.»
Scuoto la testa e guardo la sua faccia tirata, il corpo è debole, poggiato sul lettino come fosse stato dimenticato là. Gli occhi invece no. Gli occhi hanno assorbito tutta la forza che è sparita dal resto e mi fissano senza mollarmi un attimo. Un pallone ovale stretto saldo tra le braccia. «Mi devi aiutare. Devi essere me». «Ma che cazzo dici, Tommà? Sei diventato scemo?» «Devi essere il mio rimpiazzo. Almeno finché non mi rimetto in forze. Un po’ di tempo ce l’ho prima che mi diventi definitivo.» Non riesco a guardarlo per troppo. Ѐ più forte di me. Devo passare a fissare la flebo, il televisore spento o le mie scarpe, perché se no mi viene voglia di piangere e questo non me lo perdonerebbe.
«Te lo ricordi a Pasquale?» «Chi Pasquale?» «Puccettone.» «Ah, Puccettone e come no. Come sta?» «Bene bene, si è aperto un chiosco nella piazzetta.» «Ma dai.» «Devi andare da lui.» «E perché?» «Perché ti deve spiegare.» «Ma cosa? Ancora fai?» «Ti devi allenare, Vincè. La partita è tra un mese.» «Sei diventato tutto scemo.»
***
Nel rugby lo scopo è semplice: appoggiare il pallone oltre la linea di meta. Tutto il resto è un gran casino di regole, passaggi, mischie, infortuni e falli. Un po’ come la vita. La meta è chiara. Ѐ come ci arrivi che fa tutta la differenza del mondo. Lo puoi fare in tanti modi. Puoi calciare da lontano accettando il rischio, puoi prendere quello che desideri in mano e iniziare a correre tenendotelo stretto, puoi condividerlo con chi ti è più vicino e tenerlo d’occhio ed essere pronto quando sta per ripassartelo. Una cosa è certa, che non puoi farlo da solo. Neanche nascere puoi farlo da solo. Questa cosa è fondamentale da capire se vuoi capire il rugby. Non sarai mai solo. Mai. Non puoi dimenticarlo manco un istante perché se no finisce che ti perdi i vari richiami della tua squadra. E avanzi che sei praticamente cieco. I compagni ti sono dietro o al lato. Non è con gli occhi che puoi vedere. Devi imparare a sentire. Come fossero parti del tuo corpo, come se foste collegati e devi solo metterti in ascolto per capire dove sono e cosa fanno. Perché è questo che si fa: corri cieco verso una meta che non sai come raggiungerai e da un momento all’altro ti possono atterrare prendendoti ai fianchi e ti può arrivare addosso una pioggia di corpi che ti bloccano. La vita, appunto.
***
«Che piacere vederti, Viciè. Veramente. Ti trovo bene.» «Pure per me, Pasquà.» «Non scendi mai.» «Eh lo so. Il lavoro…» «Eh, il lavoro.»
Pasquale mi mette la tazzina bollente davanti e poi passa lo strofinaccio sul bancone. Se non fosse per quel guanciale di barba tutto intorno alla faccia, avrei detto che ha continuato ad avere undici anni per tutto questo tempo. «Non sei cambiato per niente proprio.»
Già a undici anni era grosso e massiccio. Faceva paura quando si arrabbiava e si metteva a urlare. Ma non succedeva quasi mai. Era una delle persone più pacifiche che conoscessi. Riusciva a mantenere la calma sempre. Quasi. Si arrabbiava quando qualcuno di noi faceva una cazzata. Quando Ferruccio ha iniziato a farsi, ad esempio. Chissà come sta. Chissà se è morto o in prigione. E Cristiano. E Maria Pia.
«Mi dispiace per tua madre, l’altro anno.» «Grazie. Ma era vecchia, che ci vuoi fare. Io per Tommaso proprio non…» Mi guarda e si ferma. «Mi dispiace, Viciè.» Annuisco.
«Tommaso ha detto che giocherai con noi.» «Ci provo, Pasquà. Non vi assicuro niente. Non ci capisco un cazzo di questo sport.» Fa un gran sorriso. «Ma non c’è niente da capire. Devi solo mettertici dentro e fare. Ah, e non aver paura di farti male. Cioè all’inizio sì, è normale. Poi capisci e smetti.» «Di farti male?» «Di avere paura.»
A diciotto anni non mi importava cosa avrei fatto, volevo solo andarmene da lì. Da quella città stretta, dalle case popolari, dall’assenza di tutto, dalle stesse facce che facevano le stesse stronzate, dalle notizie di quelli che venivano beccati o che morivano troppo giovani. Io volevo studiare e ho studiato. Trovarmi un lavoro e l’ho trovato. E non tornare più. Ma non ce l’ho fatta. Non con Tommaso così. Ho lasciato tutto, ho lasciato il lavoro e sono di nuovo qua. A non fare un cazzo. A vedere le stesse persone. Gli stessi palazzi di trenta metri con le minuscole finestre e i minuscoli balconi schierati come soldatini.
Dopo un po’ che ero là, senza incontrare nessuno, senza uscire mai di casa, Tommaso se n’è uscito con sta storia del rugby.  «Ci stanno tutti, vedrai. Tutti quelli del gruppo. L’abbiamo fondata proprio noi la squadra.» «Ma perché io? Non so giocare. Perché non può farlo un altro della squadra oppure uno nuovo?» «Perché nel rugby, Vincé, si passa solo all’indietro. Ricordatelo questo.»
***
Aspettiamo i ragazzi per l’allenamento. Non hanno proprio un campo. Giocano nel parco, attenti a non colpire vecchiette o affondare carrozzine. «Tutto allenamento per la precisione dei tiri.» Hanno provato a chiedere spazi al comune, ma non ne vogliono sapere. «Noi siamo una squadra popolare. Che vuol dire che non ci facciamo pagare la quota. Lo sport deve essere per tutti. A disposizione. Ma ci mancano gli spazi.» Spazi. Se guardo a come è cambiata la mia città in questi otto anni, direi che è un problema comune. Gli spazi vuoti è come se se li fossero mangiati e gli fossero tornati su palazzi e pompe di benzina come rigurgiti. Il rugby ha bisogno di spazio. E fango. E docce. «Non scordarti le docce, sono una cosa fondamentale. Quando giochi e sudi per due ore d’inverno, se non ti lavi e non ti asciughi ti si ghiaccia tutto addosso e sei fottuto.»
Pasquale mi è venuto a prendere davanti casa, come se non sapessi dove sta il parco del Mercatello. Ma forse ha pensato che sarebbe stato meglio per me averlo vicino, aspettando di rivedere tutti loro.
«Che cosa fai tu? Placchi, corri, attacchi?» Pasquale si fa professionale: «nel rugby devi capire una cosa. Tutti fanno tutto. Devi saper correre, placcare, difendere, attaccare, passare. Devi essere pronto a fare quello che serve. Troppo facile se ti limiti a stare nel tuo. Devi saper cambiare. Essere flessibile. Adeguarti a quello che ti si prospetta volta per volta. Devi essere imprevedibile. Come l’ovale quando rimbalza.» «Però ci sono i ruoli no? Mio fratello era mediano di mischia.» «Ѐ mediano di mischia. Tu sei solo il rimpiazzo, non ti montare.» «Tu che sei?» «Io sono un pilone.» «Che fa il pilone?» «Tiene insieme tutto. E regge il colpo nella mischia. La mischia è quando stanno tutti abbracciati e poi spingono contro quegli altri avversari. Più o meno.» «E tu che fai?» «Sto là perché non crolli tutto.»
«No, non ci posso credere! Vincenzo!» Mi salta al collo e per un attimo vedo solo uno schermo di capelli biondi. «Maria Pia?» «Vincenzo ciao! Come sono felice che sei sceso.» Maria Pia è una ragazza tutta gambe. Esile. Il suo nome di battaglia nel rugby è la gazzella di Pastena. «Vedessi come corre.» Me la ricordo a dodici anni, con quelle gambe secche e nemmeno una curva. La prendevamo in giro a sangue, ma lei rideva, ci mostrava il dito medio e continuava a giocare con noi. Poi a quattordici d’improvviso gli erano spuntati tette e sedere e aveva iniziato a uscire con vari ragazzi, mentre a noi esplodevano i brufoli in faccia e le femmine ci gettavano occhiate schifate. Da allora ci guardava con commiserazione, ma a vendicarsi non si è mai vendicata, bisogna riconoscerle la superiorità morale. «Uè, Maria Pia. Che fai qua?» «Come che faccio? Che fanno loro senza di me.» Prende la rincorsa e si butta addosso a Puccettone, che l’acchiappa al volo. Poi la bacia. «Ma no, fantastico. State insieme.» «Ma non te l’ha detto Tommaso?» «No!» «Che stronzo.» Ridono. E rido pure io. Non so perché, ma questa cosa mi rende molto felice. «Allora si inizia?» «Ma giochi pure te?» «Eccerto. Sono un’ala di tre quarti. Corro un sacco. Come sai da tutte le gare che perdevate da piccoli.» Inizia a fare un giro del parco.
Io tiro il braccio a Puccettone e regredisco improvvisamente: «Pasquà, ma ci stanno le ragazze?» Lui mi guarda con commiserazione, la stessa espressione di Maria Pia a quattordici anni. «Sì ci stanno pure le ragazze, Vincé. Siamo una squadra mista. Ci sono trenta ragazzi e dieci ragazze.» «Sì ma come fanno? Cioè qua ci si scontra, ci si mena.» «Si vede che non hai mai litigato con Maria Pia.» «Ma non sono, tipo, grosse.» «Non è che sei tanto grosso pure te, eh. Il bello del rugby è che c’è un posto per tutti. Per quello piazzato, quello alto e magro, quello basso. Senti, ti ricordi che io facevo pugilato, sì? Anche lì era misto, ma non riuscivo a colpire le ragazze che mi facevano sempre una pezza. Poi con i ragazzi abbiamo fatto sta cosa del rugby e ho visto questi omoni che non si facevano problemi a buttarsi addosso alle ragazze e loro che riuscivano a farli cadere placcandoli. E non mi sono fatto più questioni. Sanno difendersi, ti assicuro.» «Ma come è successo che avete messo su questa squadra?» «Può dirtelo lui. L’idea è stata la sua.» Guardo oltre il dito di Puccettone e lo vedo che viene verso di me sorridendo.
Ferruccio è stato il mio migliore amico dai cinque ai sedici anni. Eravamo indivisibili. Stava sempre a casa mia o andavamo al parco a cacciare lumache. A casa sua non ci andavo mai. I miei non volevano. Il padre era stato arrestato e si era preso sette anni. La madre piangeva in continuazione. Poi il fratello di Ferro si iniziò a drogare. Lui aveva quindici anni allora e diventò sempre incazzato. Intrattabile. Litigavamo continuamente e cercava di attaccare briga per ogni stronzata. Smettemmo di vederci. Poi seppi che il fratello era morto di overdose. Partii per l’università e ogni volta che chiamavo, Tommaso mi teneva aggiornato su quello che gli succedeva: aveva iniziato a farsi. Aveva rubato. Era stato arrestato. A un certo punto gli dissi di smetterla. Non ne volevo sapere più niente.
«Ferrù…» Vorrei dirgli tante cose. Che mi dispiace, è una. Che avrei dovuto capire. Che gli sarei dovuto stare vicino. Che dovevo tornare a cercarlo. «Enzo!» Mi abbraccia forte, poi mi dà dei colpi sulle spalle, «Sono fiero di te. La laurea, il lavoro. Tommaso mi ha sempre tenuto informato di tutto.» «Io…» Lui mi guarda con gli occhi cerchiati e sorridenti « Vincè, non preoccuparti. Tutta acqua passata. Poi non c’era niente di bello da dirti.»
«Avanti forza, correre. Poi in cerchio per le flessioni.» Sono arrivati tutti alla spicciolata, io sto attaccato a Ferro come alla gonna della mamma. Alcuni non li conoscevo. «Vedi quello? Stava facendo jogging al parco una mattina, Puccettò gli ha urlato: vieni ad allenarti con noi. Lui si è girato dietro, poi ha fatto: ma chi io? Ѐ un anno e mezzo che è il nostro tallonatore.» «E loro?» «Sono Abdul e Mohammed. Siamo andati a reclutare giocatori al centro di accoglienza. Hanno avuto il permesso di soggiorno l’altro ieri. » «Oh c’è Annalisa, e Corsaro! Ma che hanno?» «Ciao belli. Ciao a tutti.» «Uè ma c’è Vincenzo!» «Ma che avete? Limoni?» «Sì, limoni. Abbiamo altre due casse in macchina. Dobbiamo fare il limoncello. Chi ci dà una mano?» Prima dell’allenamento si pelano limoni. «Ti è andata bene che non era periodo di raccolta dei pomodori. Ѐ tremendo.» «Ma Annalisa non era laureata in matematica? E Corsaro faceva lettere.» Annalisa ride. «Non si combinava molto. E c’erano queste terre di mio nonno a Giovi. Abbiamo detto, ma chi ce lo fa fare. E siamo andati a coltivare la terra. Loro ci aiutano coi lavori. Attento a non pelare la parte bianca. Abbiamo tanti progetti belli. Devi passare a vedere una volta.» «Non andare. Ti mettono a raccogliere patate.» «Ok, basta così. Iniziamo l’allenamento.» «Acchiappa a Ferruccio, è già partito.» «Vado a mettere i limoni in macchina. Mi aiuti?» Accompagno Annalisa all’auto. «Era eccitatissimo che venissi a giocare con noi. Anche se non lo fa vedere. » «Pasquale mi ha detto che l’idea della squadra è stata sua.» «Ah, non la sai la storia?» «No.» «Beh, te la devi far raccontare da lui.» «Annalì, in che ruolo gioca Ferruccio?» «Ѐ il numero 8.» «Che fa di particolare l’8?» «Diciamo che è importante nella mischia, è quello che è dietro a tutti, all’ultimo, ma dà la spinta agli altri. Se non ci fosse lui a controllare, a incanalare la forza, a dare la palla al mediano, gli altri non saprebbero cosa fare.»
***
I tre giocatori davanti si allacciano per le braccia, ai lati ci sono i piloni, che reggono gli urti e sostengono la mischia, al centro il tallonatore che cerca di uncinare il pallone coi piedi, prima degli avversari, e spingerlo indietro verso i suoi. I due di dietro incastrano le teste sotto i fianchi di quelli davanti e si fanno compatti grazie agli altri due dell’ultima fila che incrociano le braccia e tengono la testa all’esterno della fila davanti. Questa struttura fa sì che la forza degli otto corpi venga potenziata e incanalata nella spinta che gli impone il numero otto da dietro. La stretta che li unisce fa in modo che quei corpi diventino un corpo solo che ha la potenza di tutti. Ma solo se sono legati bene e se si sostengono gli uni con gli altri questa cosa funziona, altrimenti si disfa e l’energia si disperde.
«BASSI, TOCCO, VIA!» Siamo al secondo giro di birre. Abbiamo brindato a noi, alle docce, a Tommaso, alla Prof. Scarrapieco, alle tette di Annalisa quando era in terza media e alla vittoria del prossimo 14 settembre. «Io però con quelli non lo so se lo faccio il terzo tempo.» «Il terzo tempo è un obbligo morale.» « Ma che obbligo e obbligo. Ѐ la parte migliore.» «Ragà, ma che cazzo è sto terzo tempo. Non avevate detto che erano due?» Corsaro mi spiega: «Dopo le partite si va sempre a bere insieme agli avversari. Quello è il terzo tempo.» «Ma come a bere? Con loro?» «Eccerto, dopo essersi menati per un’ora e venti, è l’unica cosa che resta da fare.»
Ferruccio è uscito a fumare e mi ha chiesto di accompagnarlo. Mi sento bene dove sto, come non mi succedeva da anni. «Ferrù, come ti è venuto di fare sta squadra?» Lui mi guarda e soffia il fumo. «Così, tre anni fa stavo in comunità e ci facevano fare dei laboratori. Era ottobre, tipo. In uno venivano degli allenatori a spiegarci vari sport e io sentii questo che parlava delle regole del rugby. Un bel casino, ma intrigante. E in qualche modo familiare. Nel senso che quelle regole un po’ te le senti dentro, non è proprio apprenderle da fuori, ma riconoscerle in te, nelle tue reazioni, hai presente?» «No, veramente.» «Ti faccio l’esempio che mi ha colpito quel giorno: quando il giocatore che ha la palla cade, quello che deve fare, che gli viene istintivo fare, è proteggere la palla. E i compagni della sua squadra che lo vedono…» «Gli si buttano addosso!» «Sì, bravo, gli si buttano addosso. Per proteggerlo e per permettergli di salvare la palla. Capisci? Gli fanno da schermo, lo coprono per proteggerlo dagli avversari.» Rifletto un attimo. «Ferro, ma tre anni fa era quando Tommaso è uscito dall’ospedale, dopo che si era tolto il primo tumore.»
***
Hanno sospeso la chemio a Tommaso. Lui sta peggio. Ma non gli faceva più effetto. Hanno detto che gli avrebbero dato solo cure palliative. «Mi ero scocciato di andare all’ospedale. Meglio così.» Gli ho raccontato l’ultimo allenamento, di come ho trasformato la touche in maul e lui mi ha detto di farmi spiegare il rolling da Pasquale. Mancano dieci giorni alla partita e ci stiamo allenando praticamente ogni sera e poi stiamo insieme fino a tardi. A parte Cristiano che la mattina alle 4 deve andare al mercato. Ѐ come non averli mai lasciati. Ma non è essere tornato indietro. O forse sì, ma è tornare indietro per andare avanti. «Adesso parli come un vero rugbista.» «Ti salutano tutti. Ferro mi ha detto di chiamarti capocchiò, così ti incazzavi.» Tommaso ride. «Vogliono sapere se vieni alla partita.» Lo sguardo di Tommaso sembra incrinarsi un attimo, ma forse no. Forse è una mia impressione, «Dì a tutti che ci vediamo nel terzo tempo.»

Giovanna Stanzione