lunedì 9 gennaio 2017

Egregio Signor Giuseppe Tomasi, via Butera, 28 – Palermo




Egregio Signor Giuseppe Tomasi, via Butera, 28 – Palermo

E’ vero, ho rifiutato il tuo libro. Ho rifiutato Il gattopardo e Don Fabrizio Salina. E te. Soprattutto te. Come potevo fare altrimenti, dimmi? Come potevo io, da Siciliano, non rifiutare tutto quello che andavi dicendo sui Siciliani? Tutto quello che volevo che cambiasse. Che tutto cambiasse. E che invece tu condannavi all’ ineluttabilità dell’eternità?
E’ vero, non ho detto che il libro fosse brutto. Era incompleto. Mancava un finale diverso. Perché tu non eri in grado di concepirne uno. Tu che eri convinto che le forze eterne, immutabili, inesauste che scorrevano negli uomini, scorressero sempre e comunque nel sangue di tutte le epoche, di tutti i siciliani, di tutti gli italiani, rendendogli le vene pesanti come piombo. Tu che stavi morendo e sentivi il tuo fluido vitale seccarsi, anzi gocciolare via in granelli. Come potevi tu credere che potesse essere fatto qualcosa di diverso? Serviva troppa energia vitale per farlo. E tu non ne avevi quasi più. Ma del resto non ne avevi avuta neanche quando la tua morte era ancora lontana. Tu vivevi da sempre con un piede nella morte. 
Non ho detto che il tuo libro era insincero. Anzi, ti ho scritto che era serio e onesto. Onesto senz’altro. Avevi capito il popolo siciliano. Sapevo che avevi capito. Ma non era quello attuale. Non doveva essere quello attuale. E’ un po’ vecchiotto, ti ho detto. Vecchio. Sembra uno di quei libri dell’ottocento. 
Te l’avevo già rimandato indietro, l’anno precedente, quando ero in Mondadori. Bello era bello. Lo avevo detto anche all’editore. Ma era incompleto. Mancava qualcosa. Aggiungilo e poi rimandacelo qui. Me lo hai rimandato. A me. Anche se lavoravo, l’anno dopo, in Einaudi. Mite, riflessivo, profondamente consapevole, di una sapienza antica e di una pazienza secolare, avevi ripreso su la penna e avevi aggiunto due capitoli. Ma non avevi capito. Forse sei morto, un anno e due giorni più tardi, senza capire mai. Senza capire il mio rifiuto. 
Mancava qualcosa nel tuo romanzo. Il finale, hai pensato. No. Mancava il futuro. Mancava il tempo. Tu non credi in nessuno dei due. Tu sei come una divinità vecchia e stanca, vedi tutto, ma lo vedi dall’inconclusività della tua eternità. Lo vedi eterno. Ti sei dimenticato il tempo. Tu hai scritto di quello che sempre rimane immutato nell’animo dell’uomo dopo duecento come dopo duemila anni. Non credi al tempo. 
Ma perché? Credi davvero che tra duemila anni prima e ora l’uomo non sia mutato affatto? No, forse lui no. Ma la sua vita non credi sia mutata? 
E’ in questi piccoli mutamenti di vita che dobbiamo credere. Vogliamo credere. Altrimenti nulla sarebbe mai meglio e tutto peggio, come nel mondo dei tuoi Sedara. 
Mi hanno accusato di averti respinto per motivi politici. No, non è vero. Ti ho respinto per motivi umani. Perché avevo pietà degli uomini, perché tengo a loro. Anche tu avevi pietà degli uomini ma non tenevi a loro. Non tenevi neanche a te stesso. Ti facevano però compassione. Li guardavi nel tuo libro come qualcosa di bellissimo e straziante, come un cucciolo di cane morto sulla strada. Qualcosa di puro ma di irreparabilmente corrotto, perché destinato alla decomposizione. Già in decomposizione. 
Il tuo libro è bello. Di una bellezza terribile e inumana. I tuoi luoghi polverosi e sabbiosi, i tuoi uomini stanchi e condannati, i tuoi arazzi e tappeti e cannocchiali che puntano sempre al cielo hanno il passo incontestabile e altissimo del capolavoro. Di quegli affreschi che sono scoperti a marcire dietro una mano di intonaco e poi, portati alla luce, sono di uno splendore passato, stinto, che mozza il fiato. 
Bassani ti è venuto a cercare, pure dopo che sei morto. E’ andato dalla tua vedova, ha voluto il manoscritto originale. Che non fosse in nulla contaminato da me e dalle mie richieste. L’ha portato in Feltrinelli, ha fatto di te quello che sei ora, uno dei più noti scrittori italiani di tutti i tempi. 
Bassani, lo scrittore dei vinti. Dei finiti. Come poteva non essere stregato da te? Che sei il dio dello splendore del tramonto, dell’abbandono, del languore, dell’ineluttabilità. Come non potevate parlare la stessa lingua segreta fatta di rinunce, di sofferenza, di accettazione e di scuotimenti di capo? 
Ma era te che avrei voluto attirare nella vita. Nella vita potente e prepotente che io invece coglievo tutto intorno. Nella necessità, nel dovere, di agire, di spronare, di smuovere. Di dare una botta ai Sedara, gettarli di fianco, e mettercisi al loro posto. 
Tu eri il nemico, Tomasi. Tu sei sempre stato il mio nemico.
Non è di destra o di sinistra che stiamo parlando. Non di progressisti o conservatori. Di nobiltà e borghesia. Credimi. Nonostante la mia storia politica e la mia storia di vita, non è per questo che ti ho respinto. 
Io ti ho respinto perché sono un essere umano. Nient’altro. Con la debolezza di sperare, con il desiderio di credere che i giorni passino sopra i giorni, che il tempo sia quel tempo che si butta in avanti e là rimane, che si possa fare qualcosa con questa imperfetta, mobile, corrotta, stupida, disastrosa materia umana.
Perdonami Tomasi. Perdonami perché sono un uomo. Come te. Uno di quelli per cui hai inventato la pietà. Per cui sei morto di pietà.

Elio Vittorini




Giuseppe Tomasi di Lampedusa incontra Giorgio Bassani ad un concorso di poesia. Ancora non sanno che neanche un anno dopo la sua morte sarà Bassani stesso a volere fortemente e con insistenza che il suo libro vedesse la pubblicazione con l’editore Feltrinelli per cui lavorava, arrivando a recarsi lui stesso dalla vedova dello scrittore a prendere nelle mani il suo manoscritto originale. Tomasi di Lampedusa ha già scritto Il Gattopardo, ma non lo ha ancora proposto a nessun editore. Sceglie, nel 1956, Elio Vittorini, che lavora in Mondadori. Si dice che, quella prima volta, Vittorini non abbia nemmeno letto il dattiloscritto. Gli era arrivato dinanzi, infatti, accompagnato dai pareri di tre lettori. Tutti e tre bocciavano il romanzo, pur se lodandone molte caratteristiche. Vittorini mandò all’editore una nota con una breve sintesi dei tre giudizi, con il suggerimento di chiedere all’autore di migliorare l’opera e rinviarla una volta integrata. Era il 22 ottobre 1956 e così diceva la nota: “Per i due primi lettori il lavoro manca soltanto di abilità; per il terzo di determinazione morale. Manca comunque di qualcosa che rende monco il libro pur pregevole. Non si può far capire all’autore che dovrebbe rimetterci le mani (e in qual senso)?”. Questa si tradusse, nelle spire editoriali, in una lettera di netto rifiuto consegnata il 10 dicembre seguente. Tomasi di Lampedusa scrisse due nuovi capitoli e nel 1957 rispedì l’opera a Vittorini che, in quel tempo, lavorava nell’Einaudi. Nuovamente il testo passò al vaglio di due lettori, ma questa volta fu Vittorini stesso a firmare la lettera di rifiuto.

Egregio Tomasi, 

il suo Gattopardo l'ho letto davvero con interesse e attenzione. Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto Vecchiotto, da fine Ottocento, il suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica, come nel capitolo quinto, forse il più convincente di tutto il romanzo. 
Tuttavia, devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti, e io credo che questo "squilibrio" sia dovuto ai due interessi, saggistico (storia, sociologia, eccetera…) e narrativo, che si incontrano e scontrano nel libro con prevalenza, in gran parte, del primo sul secondo. […]
Voglio dire che, seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d'un epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell'epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell'epoca. […]

Con i migliori saluti, suo Elio Vittorini.

La lettera fece in tempo a giungere a Tomasi di Lampedusa, due giorni prima della sua morte.

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