martedì 1 marzo 2016

La nuova era del processo. Terza parte.

3. Un buon momento per un cambiamento

Se potessi scegliere una colonna sonora per i miei ultimi venti anni di vita penso sarebbe Please please please let me get what I want dei The Smiths che ricomincia a loop fino a non avere più significato. Il mio problema però è che raramente ho avuto chiaro che cosa volessi dalla vita. Mia madre direbbe che è perché avevo sempre avuto tutto facile e non avevo dovuto affrontare i veri problemi della vita. Mio padre no. Non lo diceva. Forse perché mi assomigliava. Due spilungoni con gli occhi tristi.
 E’ in quel fondo di tristezza che leggo il filo di continuità della mia vita, me l’ha travasato da occhio a occhio, il mio babbo. Il sentimento che ogni cosa in fondo abbia poco senso. Salvo quei momenti. Non so esattamente cosa siano. Io li ho sempre chiamati i miei momenti di “epifania” ma non sono sicuro che sia il termine giusto. Sono dei momenti, istanti, che hanno costellato la mia vita fin dall’adolescenza, sempre più rari, man mano che crescevo. Momenti incredibili di illuminazione, di serenità infinita, di contemplazione della bellezza del mondo, della bellezza di essere vivo, di respirare, di avere un cielo sulla testa e un cuore nel petto, bellezza di poter sentire, vedere, commuoversi, minuti in cui ero tutto sensi, tutto sensi protesi verso il mondo fisico. Di solito avveniva in istanti di non vita, ore rubate a quel marasma di desideri, doveri e ansie che è l'esistenza umana: quando restavo sveglio fino alle 5 con i miei amici e poi loro se ne andavano a dormire e io invece prendevo la macchina e andavo vicino al mare e aspettavo l’alba o quando mi svegliavo all'improvviso e non riuscivo più a dormire e sgattaiolavo via senza svegliare mio fratello che dormiva nella mia stessa stanza, mi buttavo una cosa qualsiasi addosso e scendevo in strada e riscoprivo la mia città, svuotata, pulita anche se sporca, ma di una pulizia delle cose degli uomini, dei rumori, dei desideri, delle incombenze, delle angosce. Le città vuote di uomini sono così docili, come animali fedeli che ti hanno seguito tutto il giorno nelle tue peregrinazioni e alla fine possono addormentarsi, soddisfatti, riposarsi serenamente prima di doversi svegliare e ricominciare a seguire passo passo gli infiniti giri a loro incomprensibili dei padroni.
Solo in quei momenti di solitudine e pienezza mi sentivo vivo, indicibilmente vivo, effettivamente vivo. Così com’ero, io solo. Non vivo come emanazione riflessa nelle persone della mia vita, non vivo come individuo nella società, come uomo nella razza umana, vivo come me. Esattamente come me, come il mio corpo e un animo che finalmente si spandeva tutto, come gas, fino a riempirmi in ogni piccolo spazio disponibile.
Io vivo nell’attesa di quei momenti che mi mettono al mondo, non la mia laurea, non la prima volta che ho fatto l’amore, non quando ho scoperto di tenere realmente ad un’altra persona, non quando ho vinto la mia prima causa, nessuno di questi giorni vale un secondo di quei pochi minuti rubati al flusso delle cose umane.
Il problema è che non ho mai realmente capito come si vive nella restante parte del tempo.

Mi guardo nello specchietto dell’auto, mi guarda indietro un Lupin piuttosto invecchiato con due occhiaie da bassettound. Se avessi fatto il musicista o il pittore questa tristezza esistenziale sarebbe stata incredibilmente affascinate. Così sono solo un avvocato depresso. E non c’è niente di più patetico. Già lo è fare l’avvocato sforzandosi di avere una parvenza di felicità o equilibrio. Avete idea di come sia lavorare prendendosi carico dei problemi della gente, litigando per conto loro, cercandone le soluzione quando si è assolutamente incapaci di farlo con la propria vita?

-        - Hai sbagliato tutto nella vita.

Ho sbagliato tutto nella vita. Quella che me lo sottolinea praticamente ogni settimana è una delle mie più vecchie amiche, Margherita, Pubblico ministero di un metro e cinquanta scarsi, capelli corti, fisico da ragazzino di quindici anni, cuore da colibrì iperattivo. Leggermente più grande di me, mi ha adottato praticamente da subito, io pennellone lento e perennemente spaesato nel tribunale e nella vita, mi ha preso sotto le sue alucce incredibilmente resistenti e mi ha guidato quel po’ che era necessario per far sì che almeno iniziassi a muovermi. Poi è volata a fare il suo lavoro, instancabile. Periodicamente torna da me a tentare di mischiarmi un po’ della sua naturale e ininterrotta forza dinamica.
-         - Tu dovevi fare lo scrittore o il professore di letteratura o di filosofia. Che ci fai qua tra le cose più pratiche del mondo? Non ci capisci proprio niente. Non fanno per te. Il diritto sono tutte le cose più piccole e spicciole della vita umana, serve per regolarla, capisci? Per farla scorrere ordinata. E’ una grande mamma chioccia per noi. Uno di quei capifamiglia senza il quale la famiglia si disgregherebbe nel panico. Poi, che ognuno dà una propria interpretazione delle direttive del nonno è pure normale, per questo ci si scontra, ci si mette d’accordo, si trova un compromesso. Ma tu che ci fai qui? Tu sei il nipotino fragile e distratto, quello che resta in un angolo a fissare per ore fuori dalla finestra, mentre nella stanza impazza la rissa di famiglia. Come ti è venuta l’idea che da grande avresti potuto arbitrare o addirittura partecipare a quella rissa? Per te è arabo. Non ti ci diverti come noi. Non ti lasci guidare dai tuoi obiettivi, dai tuoi desideri, dai tuoi guadagni o da quello che credi giusto, come facciamo noi altri che si lavora nel diritto. Partecipi solo per finta, poi dopo aver fatto il minimo del tuo dovere, torni a guardare fuori dalla finestra.

Io ho sbagliato tutto nella vita. Ne sono consapevole. Ma il diritto di cui parla Marghe, il diritto che ho conosciuto giorno per giorno nel tribunale, fatto di facce, di carte, di tempi e di relazioni umane, non è il diritto che avevo amato all’università. Il diritto che avevo conosciuto io, nella mia altra vita, non era il vecchio capofamiglia cocciuto e un po’ scemunito, da cui cavare massime coerenti di convivenza, era un flusso ininterrotto di bellissima informe materia, in continuo cambiamento. E tu, studioso, eri insieme artista e scienziato: la studiavi, la conoscevi, la manipolavi, ne comprendevi le regole interne e comprendevi come avrebbe interagito con l’esterno, poi, nella forma che le avevi donato, la mandavi nel mondo e ti mettevi ad osservarla per vedere come se la cavava, se avevi avuto ragione a pensarla così, a interpretarla così, se resisteva, se andava cambiata o integrata. Ma tu eri sempre fuori, al di sopra, guardavi dall’alto quella materia fluida che scorreva in mezzo ad altri, uomini donne, avvocati, giudici, pubblici amministratori, imputati, cancellieri, polizia giudiziaria, tu osservavi tutti e osservavi la tua materia come interagiva con loro e come loro la mutavano e la rendevano vitale, ma anche come si distorceva e reagiva male con altre componenti. Allora la riprendevi con te, la riportavi in laboratorio, nella tua testa, e provavi nuovi esperimenti, nuove combinazioni, immaginavi nuove soluzioni. Questo era per me il diritto nella mia vecchia vita. Niente che mi riguardasse da vicino o la mia esistenza. Apparteneva solo alla mia mente.

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