domenica 15 novembre 2015

Della lettura e di altri parti

Voi parlate tanto di libri ma non sapete neanche che sapore hanno. 
Ne avete mai mangiato uno? Voi state lì a guardarli, li girate, li rigirate, gli date un’annusatina, una leccata, timida con la punta della lingua, li pesate sul palmo della mano. E passate quei primi istanti a soppesarli, ne individuate gli ingredienti, la perfezione degli odori, delle proporzioni. 
Ma via, sprecate quei primi fondamentali istanti a parlarci sopra al libro, a mettere la vostra testa dietro la sua copertina.
Ma via buttatevi, azzannateli, mordeteli, divorateli, affondateci la bocca. Dal libro deve colare sangue e succo sul vostro mento, sul bavero, sul petto. 
Non ci deve essere rispetto per i libri ma un sacrificio. Un sacrificio cruento, una fusione.
Mi avete chiesto in che modo li leggo io i libri. In questo modo carnivoro: potrei disperderne brandelli , far colare il succo ma io li voglio, li desidero dentro di me, provo piacere. 
Mi avete chiesto che cos’è leggere. Leggere è tutti quegli atti totalmente umani, bassamente umani, è un meraviglioso atto di piacere. Leggere è mangiare, è l’atto sessuale, è ingestione e espulsione. 
Voi siete i sacerdoti del libro, i custodi di quel luogo sacro. Ma via! Il libro è un sacro da profanare: profanatelo, riempitelo di umano, pisciateci in quella chiesa. 
E non venite a dirmi che leggete ad alta voce, che sottolineate le righe più belle, che piegate le pagine che vi sono piaciute. Così trattate un libro come un libro: sapete di essere lì, di averlo in mano, sapete che quella parte vi piace più dell’altra, sapete che quel libro finirà, che è destinato a finire. Come si fa a perdersi quando quegli atti vi ricordano sempre a voi stessi? Come si fa a fondersi, sciogliersi, mischiarsi e ricomporsi col libro, se tenete sempre una penna in mano e un tigno in testa, trovare le parti più belle. Affermate voi stessi sul libro quando dovreste tacervi e basta, e stare ad ascoltare. Ascoltate, siamo condannati ad essere noi stessi per la vita, siamo stati noi stessi dalla nascita alla crescita, saremo noi stessi nella morte. Non siete stanchi? E’ come avere sempre una sola vista, un solo orizzonte, un solo suono, un solo odore da annusare e riannusare, un solo tessuto da palpare e ripalpare. 
Voi siete voi, sempre pieni di voi, attaccati da nuguli di voi stessi che vi si ficcano negli occhi, non sentite il bisogno di uscire da voi stessi, non sentite il limite di vedere un mondo sempre infilati in un sacco che siete voi, che ha la vostra stoffa? 
I libri sono i buchi, buchi in cui spiare, i buchi da allargare e finalmente uscire, uscire a vedere come sarebbe il mondo se voi non ci foste. Cos’altro vi dà la possibilità di esistere smettendo di esistere? Di guardare l’esistenza senza doverla sempre filtrare per voi stessi, di conoscere finalmente altro. E’ l’unico modo per conoscere altro e non sempre il solito composto stantio, impastato con parti di voi.


Mentre voi parlavate di testa, io pensavo di viscere. E il mio pensiero di viscere spiava attraverso l’ombelico e vedeva cieco, perché l’ombelico non ha pupille: è un occhio cavato, vede sentendo, e ricordando.
E il mio ombelico mi ha ricordato che il mio rapporto con i libri passa da lì, nel sentimento di un cordone tagliato. In quella sensazione fantasma che hanno le persone che hanno perso un arto, mutilato, quando sentono di poterlo muovere ancora. 
Il mio rapporto coi libri è un rapporto ombelicale, vi ho detto. Cosa significa, mi avete chiesto. Non lo so, non l’avevo mai detto prima ma ho sentito che era vero mentre lo dicevo. E ho sentito che era vero quando voi ricostruivate l’etimologia di autore, autore- autorità, all’origine del libro c’è un’autorità che pone. Lì ho smesso di ascoltarvi perché c’era una vocina-me che mi dava fastidio e volevo chiarire con lei perché la smettesse di borbottare con quello squittio sommesso. “Autorità, autorità- diceva- bella scoperta. Tutti hanno bisogno di un’autorità. E’ un’autorità che pone anche noi stessi quando ci partorisce continuamente no? Non puoi pensare che una volta per tutte tu sia bello e partorito, no no. Sarebbe troppo difficile essere sé stessi ogni giorno da soli, senza alcun aiuto esterno. Autorità, autorità si certo. L’autorità ci serve, noi veniamo partoriti continuamente dall’autorità.”  Eh? Non potei trattenermi dall’interromperla, volevo che si sfogasse da sola e si esaurisse, come al solito. Volevo continuare ad ascoltare voi che ora parlavate di metodi di lettura lenta ma non mi sono saputa trattenere. Lei a fatica ha represso un mugolio di vittoria. “Si si si- mi ha detto con voce sibilante che voleva essere suadente- si autorità. Tu lo sai cosa fai quando leggi un libro?” Ero affascinata, diceva cose sconosciute che sapevo benissimo. “Entri in un ventre. Oh si si si. Tu ti accucci in quel ventre e ti attacchi il tuo cordone. E non sei più completo, non sei più autonomo, sei feto. Dipendi in tutto e per tutto dal libro che ti sfama. Tu puoi provare solo bisogni fisici tutto il resto dei sentimenti non ti appartiene più, vedi quello che vede la Madre, senti l’esterno solo ovattato dal suo ventre, non senti più il tuo interno, come se non esistesse più. Senti il suo interno, quello della Madre. Ti sei chiusa nell’utero, piccolo essere molle e informe, ti sei chiusa nell’utero, si si si, ora ti muovi se si muove lui, respiri la sua aria, l’interno e l’esterno non sono più tuoi. Sono i suoi.”  Avevo gli occhi spalancati e continuavo ad ascoltarla inebetita, fingendo di sentire voi. Momenti di nulla, vuoto di te, dipendenza fetale. Aveva ragione. Esisti e non esisti, esisti o non esisti, non ha importanza, aveva ragione. E poi il libro finisce e vieni espulsa fuori, ogni parto è traumatico ma è anche liberatorio. E quando esci sei sempre tu eppure ti sei accresciuta, sei stata in gestazione.
 I libri sono così, ti tengono in una continua gestazione. E le madri? Le madri che creano quegli uteri? Che ti offrono quegli uteri? Santo cielo - pensai - gli scrittori non sono altro che madri in affitto.

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