2. Ricordi di una vita passata
La verità nel processo
non esiste.
Se studi diritto, te lo
insegnano al quarto anno di università. Se fai la pratica di avvocato, già dopo
il primo mese ne sei convinto.
Di tutti gli strumenti
che hanno a che fare con le cose umane, il processo è il più difficile, labile,
impreciso, confuso. Lo scopo di tutti quei termini, quelle scadenze, quelle
formalità, lo scopo perfino della disposizione dei banchi in aula e della toga
del giudice è quello di dare un ordine e una forma a qualcosa di totalmente magmatico,
aleatorio, fallibile.
Eppure il processo è
una delle pratiche più longeve nella storia dell’uomo. E’ qualcosa di cui
l’umanità non può fare a meno. Che, anzi, agogna, desidera, pretende, brama.
Processo, processo,
dateci un processo. Ci cadono tutti, dai colpevoli agli innocenti, dai
giustizialisti ai garantisti.
Il processo interessa,
appaga, entusiasma.
Il processo dà un senso
allo scorrere della vita, è il fiume delle cose umane che passa in un letto
accuratamente scavato, con un disegno che viene limato da secoli.
Eppure, la verità non è
qualcosa che appartiene al processo.
“Stronzate! Stronzate!
Le tue vaccate da intellettuale dei miei coglioni. Cos’è sei insoddisfatto
della vita? Suicidati o fatti una scopata, ma evita di fare danni all’umanità
con le tue teorie da esistenzialista del cazzo”.
Chiudo gli occhi e cerco
dentro di me quell’odore di lana sporca e fumo stantio che si portava sempre
dietro il mio maestro, un’emanazione esterna del suo spirito acre e incontenibile.
Stronzate del cazzo. Il
mio maestro era uno dei più grandi processualisti del suo tempo e parlava come
uno scugnizzo dei quartieri spagnoli che ha fatto scuola sulla strada e nei
vicoli bui della metropolitana, quello che era stato per i primi diciotto anni
della sua vita.
Quello della sua
giovinezza era un tempo strano e confuso. La guerra mondiale aveva stravolto
tutti gli ordini e le convenzioni, aveva rotto le barriere, spazzato via le
sicurezze di secoli. I professori universitari si esprimevano con volgarità
irripetibili, i contadini e i soldati riscoprivano pensieri di un lirismo
straziante, la bellezza alle volte era nella morte, la bestialità nella vita, a
volte coraggioso era chi uccideva, a volte chi riusciva a non farlo. Il potere,
il governo, il sapere, la comunicazione e la cultura erano in un momento di
nudità e di irripetibile realismo. Erano saltate, per un
istante, per un periodo brevissimo, un soffio nella storia di un popolo, le
ipocrisie su cui da millenni gli uomini strutturano la propria vita per
riuscire a viverla comoda.
Vivere comoda la vita.
E’ come prendere un treno ultrarapido e confortevole verso la morte. Poche
fermate, servizio snack. Di quelli così veloci e confortevoli che del viaggio
non te ne accorgi neanche. Del viaggio non te ne accorgi neanche e,
all’improvviso, sei arrivato. Sei morto. E allora aspetta un attimo. Non è la
comodità la cosa più importante di questo viaggio, non è la poltrona di pelle
reclinabile e lo stomaco pieno che ti concilia meglio il sonno.
Lui mi ha cercato di
insegnare principalmente questo: di viverla il più scomodamente possibile la
vita, tenerla come un sasso appuntito nell’imbottitura della poltrona che ti
ricorda inesorabilmente che hai un culo di carne viva e di non dimenticartelo
mai, di essere vivo, di soffrire, di cambiare posizione. Si incazzava a bestia
e iniziava a urlare e a imprecare davanti al mio pessimismo, fatalismo e alla
mia arrendevolezza.
Aveva quella sciarpa
rossa logora e quei maglioni lunghissimi di lana pesante abbottonati sul
davanti, che superati i settant’anni gli arrivavano al ginocchio.
Quando ho iniziato il
dottorato con lui, nella sua cattedra, oltre al Professore, erano in quattro,
due donne e due uomini. E’ difficile rendere l’idea del rapporto che legava
quelle cinque persone, cui, primo dopo molti anni, mi andavo ad unire. Erano un
incrocio tra una setta agnostica, un gruppo di idealisti frustrati, di
rivoluzionari falliti, e una famiglia disfunzionale, dove periodicamente c’era
qualcuno che mandava a fanculo gli altri e faceva la mossa di andarsene, ma
dopo qualche giorno lo ritrovavi di nuovo lì, come se niente fosse. Io,
ragazzetto ben nutrito e relativamente amato, della medio-alta borghesia, preso
dai miei dubbi esistenziali e da un vago disagio dello stare al mondo, non c’entravo
nulla là in mezzo. Ho sempre sospettato che il Professore mi avesse preso con sé
perché lo facevo incazzare. Ero il suo personale sasso fastidioso nella
poltrona imbottita della vita.
Io, da parte mia,
pensavo che quel gruppo di disadattati accademici fosse quello fatto per me
che non trovavo posto da nessun’altra parte. Ero fuori posto anche lì, ma ero
in compagnia. Era un gruppo di persone che si sentiva fuori posto nel mondo e
il Prof. li raccoglieva come preziosissimi fiori rari sui cigli delle strade.
Un unico irripetibile giorno, insieme a
una parte della sua storia passata, ci raccontò anche perché scegliesse persone
come noi. E la sua spiegazione, irreprensibile nella sua follia, mi piacque.
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