giovedì 11 febbraio 2016

La terza era della procedura penale. Parte seconda.

2. Ricordi di una vita passata 

La verità nel processo non esiste.
Se studi diritto, te lo insegnano al quarto anno di università. Se fai la pratica di avvocato, già dopo il primo mese ne sei convinto.
Di tutti gli strumenti che hanno a che fare con le cose umane, il processo è il più difficile, labile, impreciso, confuso. Lo scopo di tutti quei termini, quelle scadenze, quelle formalità, lo scopo perfino della disposizione dei banchi in aula e della toga del giudice è quello di dare un ordine e una forma a qualcosa di totalmente magmatico, aleatorio, fallibile.
Eppure il processo è una delle pratiche più longeve nella storia dell’uomo. E’ qualcosa di cui l’umanità non può fare a meno. Che, anzi, agogna, desidera, pretende, brama.
Processo, processo, dateci un processo. Ci cadono tutti, dai colpevoli agli innocenti, dai giustizialisti ai garantisti.
Il processo interessa, appaga, entusiasma.
Il processo dà un senso allo scorrere della vita, è il fiume delle cose umane che passa in un letto accuratamente scavato, con un disegno che viene limato da secoli.
Eppure, la verità non è qualcosa che appartiene al processo.
“Stronzate! Stronzate! Le tue vaccate da intellettuale dei miei coglioni. Cos’è sei insoddisfatto della vita? Suicidati o fatti una scopata, ma evita di fare danni all’umanità con le tue teorie da esistenzialista del cazzo”.
Chiudo gli occhi e cerco dentro di me quell’odore di lana sporca e fumo stantio che si portava sempre dietro il mio maestro, un’emanazione esterna del suo spirito acre e incontenibile. 
Stronzate del cazzo. Il mio maestro era uno dei più grandi processualisti del suo tempo e parlava come uno scugnizzo dei quartieri spagnoli che ha fatto scuola sulla strada e nei vicoli bui della metropolitana, quello che era stato per i primi diciotto anni della sua vita.
Quello della sua giovinezza era un tempo strano e confuso. La guerra mondiale aveva stravolto tutti gli ordini e le convenzioni, aveva rotto le barriere, spazzato via le sicurezze di secoli. I professori universitari si esprimevano con volgarità irripetibili, i contadini e i soldati riscoprivano pensieri di un lirismo straziante, la bellezza alle volte era nella morte, la bestialità nella vita, a volte coraggioso era chi uccideva, a volte chi riusciva a non farlo. Il potere, il governo, il sapere, la comunicazione e la cultura erano in un momento di nudità e di irripetibile realismo. Erano saltate, per un istante, per un periodo brevissimo, un soffio nella storia di un popolo, le ipocrisie su cui da millenni gli uomini strutturano la propria vita per riuscire a viverla comoda.
Vivere comoda la vita. E’ come prendere un treno ultrarapido e confortevole verso la morte. Poche fermate, servizio snack. Di quelli così veloci e confortevoli che del viaggio non te ne accorgi neanche. Del viaggio non te ne accorgi neanche e, all’improvviso, sei arrivato. Sei morto. E allora aspetta un attimo. Non è la comodità la cosa più importante di questo viaggio, non è la poltrona di pelle reclinabile e lo stomaco pieno che ti concilia meglio il sonno.
Lui mi ha cercato di insegnare principalmente questo: di viverla il più scomodamente possibile la vita, tenerla come un sasso appuntito nell’imbottitura della poltrona che ti ricorda inesorabilmente che hai un culo di carne viva e di non dimenticartelo mai, di essere vivo, di soffrire, di cambiare posizione. Si incazzava a bestia e iniziava a urlare e a imprecare davanti al mio pessimismo, fatalismo e alla mia arrendevolezza.
Aveva quella sciarpa rossa logora e quei maglioni lunghissimi di lana pesante abbottonati sul davanti, che superati i settant’anni gli arrivavano al ginocchio.
Quando ho iniziato il dottorato con lui, nella sua cattedra, oltre al Professore, erano in quattro, due donne e due uomini. E’ difficile rendere l’idea del rapporto che legava quelle cinque persone, cui, primo dopo molti anni, mi andavo ad unire. Erano un incrocio tra una setta agnostica, un gruppo di idealisti frustrati, di rivoluzionari falliti, e una famiglia disfunzionale, dove periodicamente c’era qualcuno che mandava a fanculo gli altri e faceva la mossa di andarsene, ma dopo qualche giorno lo ritrovavi di nuovo lì, come se niente fosse. Io, ragazzetto ben nutrito e relativamente amato, della medio-alta borghesia, preso dai miei dubbi esistenziali e da un vago disagio dello stare al mondo, non c’entravo nulla là in mezzo. Ho sempre sospettato che il Professore mi avesse preso con sé perché lo facevo incazzare. Ero il suo personale sasso fastidioso nella poltrona imbottita della vita.

Io, da parte mia, pensavo che quel gruppo di disadattati accademici fosse quello fatto per me che non trovavo posto da nessun’altra parte. Ero fuori posto anche lì, ma ero in compagnia. Era un gruppo di persone che si sentiva fuori posto nel mondo e il Prof. li raccoglieva come preziosissimi fiori rari sui cigli delle strade. Un unico  irripetibile giorno, insieme a una parte della sua storia passata, ci raccontò anche perché scegliesse persone come noi. E la sua spiegazione, irreprensibile nella sua follia, mi piacque.

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