lunedì 7 novembre 2016

Io e lei


Ho passato i primi dieci anni della mia vita ad immaginare la mia morte. Ma non immaginavo di suicidarmi e non desideravo morire, no. Non era l’atto in sé di morire che mi interessava. Io immaginavo dettagliatamente le conseguenze della mia morte sulle persone che mi amavano. Mi collocavo sempre in un punto imprecisato in alto e osservavo invisibile i miei genitori disperarsi, mia sorella piangere, il mio corpo inerme nella bara, e mi commuovevo, ma mi commuovevo forte su queste scene strazianti, che ogni volta erano diverse. A volte mi facevo morire in circostanze eroiche, a volte meschine, ma la cosa importante erano quelle reazioni che mi spiegavano qualcosa di fondamentale: come sarebbe stato il mondo senza di me. E mentre mi commuovevo sul dolore dei miei cari per la mia morte, che io stessa avevo provocato nella mia testa, li consolavo con parole dolcissime, insegnavo loro a vivere senza di me.
Ecco, in questo mio comportamento inconscio di bambina c’era già forse tutta l’essenza del mio rapporto con la scrittura: l’osservazione della realtà modificata dalla mia immaginazione; il sentire nella mia carne la verità che sto raccontando, anche se sono consapevole del fatto che ha essenza solo di pensiero e di carta; pensare il mondo attraverso la mia testa ma, allo stesso tempo, senza di me; annullarmi, uccidermi, distruggere la mia forma, ma contemporaneamente diventare tutto, spandermi senza forma, impregnare di me stessa tutto il mondo di scrittura che sto creando. E poi scuotere le emozioni degli altri, far soffrire volontariamente e dopo consolare, mostrare l’orrido del mondo e insieme l’infinita dolcezza e bellezza.
 A poco più di otto anni, chiusa in bagno per ore a fare quel gioco macabro che mi piaceva da morire, io avevo intuito tutti i punti salienti del fare letteratura.
Ma in realtà, forse tutto è iniziato molto prima. Fin dai tempi dell’asilo, quando tornavo a casa e raccontavo quello che mi era successo in classe. Ero piccolissima, quattro, cinque, massimo sei anni. Inventavo spudoratamente tutto quello che dicevo. Anche con un certo surrealismo bretoniano primo periodo. Raccontavo, ad esempio, che io e il bambino che mi piaceva ci eravamo tramutati in due pesciolini e, sfuggendo agli inservienti della mensa che ci volevano cucinare, eravamo saltati nello scarico del lavandino e poi da lì, attraverso le tubature, eravamo arrivati nel mare e vissuto mille avventure.
Ma la cosa fondamentale era che più raccontavo, più credevo fermamente a quello che dicevo. Credevo davvero che fosse successo, anche se sapevo che non era così. La mia volontà di immaginazione era così potente che si imponeva sui recettori dei cinque sensi e io sentivo, sulla pelle nei ricordi nel cuore, tutte quelle emozioni e sensazioni che raccontavo. E presa nel vortice e nella bellezza del mio autoinganno, ero convinta di averlo in pugno, il mio pubblico, i miei genitori. Ero convinta che si bevessero ogni mia parola e ridacchiavo tra me e me fiera della mia furbizia e della mia bravura.
A quattro anni avevo scoperto l’irresistibile droga dell’invenzione e la piacevolezza di irretire gli altri esseri umani con le parole.
Quando poi, da un po’ più grande, ho capito che c’era qualcosa di sbagliato nell’inganno e nella bugia, che, una volta scoperta, era una cosa socialmente condannata, allora mi sono sentita improvvisamente un essere immondo, sporco, truffaldino. Quello che solo qualche anno prima mi dava un immenso puro piacere, adesso era un marchio di infamia. Ero una bugiarda. E una bugiarda cronica. Sentivo su di me la tara della vergogna, ero segnata, sbagliata. Mi detestavo ma sapevo di non poterne fare a meno. Ero condannata ad inventare dalla mia natura deviata. Ormai mi ritenevo abominevole, ma continuavo a inventare, anche se con l’idea di essere un mostro, una paria dell’umanità, che fingeva di essere come gli altri, ma in realtà aveva in sé questo seme marcio della menzogna.
Avrete capito che da bambina tendevo ad essere un tantino melodrammatica.
Ma perché pur ritenendomi abominevole non riuscivo a smettere di inventare e di mentire? All’epoca non l’avevo così chiaro, ma la risposta era che la realtà mi sembrava troppo deludente, troppo piatta, squallida. In confronto vedevo nella mia testa, come con qualche aggiustatina qua e là, qualche aggiunta, qualche variazione, poteva essere così interessante, appassionante, esteticamente valida, in una parola: bella. E allora perché limitarsi a rendere la realtà così com’era, spoglia e noiosa, se avevo tutto questo nella testa e il talento e la capacità per trasformarla in qualcosa di veramente degno di essere raccontato?
Solo molti anni più tardi ho capito che quella infamante pulsione alla menzogna non era una mia tara mentale, ma semplicemente la valvola di sfogo di una mia natura: della predisposizione a narrare. Io semplicemente usavo me stessa come libro vivente cui tenere avvinti i miei (pochi) lettori.
Non capivo allora che in modo molto rudimentale mi stavo destreggiando con la funzione estetica della creazione artistica.
Tutta questa predisposizione e questo desiderio alla narrazione non hanno trovato però, per molto tempo, un posto ben definito nella mia vita.
O meglio, ben presto, appena imparai a leggere e compresi a quali meraviglie mi poteva condurre il saperlo fare autonomamente, io capii di voler fare la scrittrice.
A quattro anni già scrivevo quelli che pomposamente chiamavo “i miei romanzi”, ma che più semplicemente erano degli agghiaccianti raccontini di tre pagine, scritti da sinistra a destra e da destra a sinistra, in inconsapevole omaggio alle antiche forme di scrittura bustrofedica, e non capivo come tutti quelli che li leggessero non cadessero ai miei piedi inneggiando alla mia genialità.
La convinzione di essere un genio precoce, circondato da creature che solo accidentalmente avevano la mia stessa età anagrafica, ma la cui inferiorità era ben chiara quando la loro massima ambizione era tirare fuori dal naso la caccola più grossa di tutte, mi accompagnò per buona parte della mia infanzia e della mia adolescenza.
A sedici/diciassette anni, avevo più di dieci anni di carriera di scrittrice segreta e solitaria alle spalle e  ormai scrivevo cose complicatissime, intessute di filosofia, storia, lirismo greco. Mai più scritto nella mia vita qualcosa di così complicato e pretenzioso, per fortuna.
E poi semplicemente mi sono scissa.
A diciotto anni c’è stata una vera e propria crisi. Una rottura. Una divisione.
Questa mia natura di narratrice che fino a quel momento andava di pari passo con la mia vita, con i miei studi e con la mia ambizione di diventare scrittrice, improvvisamente si è ritrovata separata ed espulsa.
Mi ricordo che una delle mie fantasie, insieme dolci e amare, di quei primi anni di università era di guardare quell’altra Giovanna andare per la strada che avrei voluto intraprendere e che non avevo avuto il coraggio di fare, e pensare: lei lo sta facendo. In qualche altro mondo, universo, io lo sto facendo, sono andata lì con il mio vocabolario di latino, il mio vocabolario di greco, e ho continuato a imparare la letteratura, la scrittura, le lettere. La mia vita, la vita di quella Giovanna lì, sarà totalmente intrisa di letteratura e sarà dedicata solo a quello.
E mi piaceva questa idea, questa mia altra me che vedevo continuare in quella vita. Voleva dire che in qualche altro posto io lo stavo facendo, che non lo avevo abbandonato del tutto, ma quel sogno, quell’idea, continuava a vivere e altrove era reale.
Ma qui non mi poteva appartenere. Erano altre le persone che sceglievano lettere all’università, erano altre quelle che pensavano realmente che nella vita avrebbero potuto scrivere libri. Non certo io, non in questo mondo, non in questa vita. Io ero predestinata ad altro.
E così ho intrapreso la strada della giurisprudenza. Ma a quel punto ero già dimezzata. E dimezzarsi vuol dire indebolirsi. La perdita dell’unità si paga sempre.
Era solo una metà di me che stava percorrendo quella strada, con un occhio sempre all’altra metà, che ogni tanto tornava, ogni tanto andava. Avevamo dei momenti, delle finestre, in cui ci parlavamo, volte in cui litigavamo, quando lei tornava e piantava un gran casino e buttava all’aria tutto, oppure semplicemente si metteva lì e mi pesava addosso, sulle spalle, senza fare niente, se non guardarmi in silenzio, con disapprovazione. Voleva solo dire: io esisto, non credere di esserti liberata di me solo perché mi hai mandata a spasso. Io ero te e tu mi hai mandato via, come una sorella piccola e difficile che tenevi in casa e che ad un certo punto hai scacciato per farle intraprendere una vita sua e per poter vivere la tua, quando avevi detto, giurato per tutti gli anni dell’infanzia, che ti saresti sempre occupata di lei.
Questo è durato per i sei anni di università e per i tre anni di dottorato. Nove anni in cui periodicamente è tornata questa mia pesante coinquilina, vagabonda e fallita, che chiedeva chiedeva sempre cure e mi accusava del suo fallimento, perché io ero andata avanti e stavo cercando di costruirmi qualcosa senza di lei.
E poi, sempre all’improvviso, come si compiono tutte le scelte della mia vita, finito il dottorato l’ho ripresa in casa. Ho richiamato questa vagabonda fallita e le ho detto: ho sbagliato a dividerci, ho sbagliato a mandarti via, proviamo a rimetterci insieme, ricuciamoci. Facciamo quello che volevi fare tu fin dall’inizio, prendiamoci cura di te.
E’ però una cosa difficilissima, perché io col tempo ho saldato quell’apertura, i punti di sutura sono andati via, si è formata nuova pelle, ed è complicatissimo ora rinnestarci quella me trascurata e difficile, che ha fatto quella vita sbandata nel mondo della scrittura e della letteratura, ma solo nella sua testa, non l’ha veramente vissuta, se non impiegando ore e ore della sua vita a leggere. Giorni, mesi, forse interi anni, se le sommiamo tutte.
Perché una cosa che ho fatto veramente con costanza nella mia vita è stato leggere. E anche quella che ho fatto meglio, con più piacere, in abbondanza.
Era nel momento della lettura che quelle due me si riunivano e si riappacificavano e tornavano ad essere come quando erano bambine e una teneva in mano il libro e l’altra leggeva appoggiata alla sua spalla, e chi finiva per prima di leggere, aspettava l’altra per girare pagina.  
Leggere, oltre ad essere una delle cose che mi dà più piacere al mondo, è stata anche la sola attività che non ho cambiato o abbandonato ad un certo punto.
Perché io ho un problema con le continuazioni.
Io mi sono sempre ritenuta una campionessa degli inizi, una virtuosa degli inizi. Ho iniziato tantissime cose nella mia vita. Ed ero sempre una rivelazione: la giovane promessa degli scacchi, la rivelazione della scrittura, del teatro, una campionessa in erba di tennis o di scherma.
Ma poi semplicemente non continuavo, non mi interessava. A me interessavano solo gli inizi. Ero una drogata di inizi.
E invece ho capito che la vita, quella vera, sta esattamente un passo dopo, nel momento in cui continui qualcosa, ogni volta che trovi la forza, la volontà e il modo per continuare a farla.
Prima invece non capivo come le persone potessero scegliere di dedicarsi a continuare qualcosa, una sola cosa nel tempo, rinunciando a tutte le mille altre possibilità. Come sapevano di voler continuare a studiare pianoforte se non avevano mai provato il violino? Come decidevano di allenarsi ogni giorno a pallavolo se non avevano mai toccato un campo da calcio?
Io cambiavo continuamente e vorticosamente perché pensavo che concentrandosi su qualcosa si lasciavano necessariamente andare cento altre e io non volevo lasciare andare niente.
Ho sempre avuto questo desiderio totalizzante di essere qualsiasi cosa: il pittore che dipinge, lo scultore che scolpisce, ma anche lo spazzino che si alza alle quattro di notte, l’operaio che vive nei grigi quartieri popolari. Sentivo che c’era della bellezza in tutti i tipi di esistenza, anche i più miseri e disperati, che io non avrei conosciuto mai e che desideravo profondamente vivere almeno per un istante.
Ancora una volta la mia natura mi portava verso la scrittura: perché solo uno scrittore può essere così arrogante da credere che nella sua testa, nella sua sola vita, ci possa essere tutto il mondo e che lui possa diventare tutto, chiunque.
Ed ora mi ritrovo qui, di nuovo con questa povera vagabonda disadattata che se ne è andata in giro solo con la testa senza mischiarsi mai alla realtà vera. Ho scelto di prendermi cura di lei, per un anno, perché glielo dovevo, dopo tutto quello che le ho fatto in nome di un’altra vita che avevo deciso dovesse essere senza di lei. Lei è diffidente, chiusa, timorosa e scostante. Non mi ha perdonata. Da bambina e per molti anni era convinta di essere una creatura superiore, destinata a mostrare al mondo la sua genialità, poi l’ho scacciata di malomodo cercando di dimenticarmi della sua stessa esistenza. Non si fida più di me. Non è cresciuta, è in qualche modo bloccata a quel giorno dei miei, dei nostri, diciott’anni in cui l’ho mandata via. Si è accorta che non ci assomigliamo più, che io sono cambiata, sono molto più vecchia di lei e più matura. Ma io sono sincera. Non le negherò più il suo spazio: voglio la sua meraviglia, voglio la sua arroganza, voglio la sua acutissima ingenuità, la sua saggia esperta ignoranza. Voglio conservarla, e che lei ritorni com’era, ma voglio anche permetterle di crescere, finalmente.

Nessun commento:

Posta un commento