Ho passato i primi
dieci anni della mia vita ad immaginare la mia morte. Ma non immaginavo di suicidarmi
e non desideravo morire, no. Non era l’atto in sé di morire che mi interessava.
Io immaginavo dettagliatamente le conseguenze della mia morte sulle persone che
mi amavano. Mi collocavo sempre in un punto imprecisato in alto e osservavo
invisibile i miei genitori disperarsi, mia sorella piangere, il mio corpo
inerme nella bara, e mi commuovevo, ma mi commuovevo forte su queste scene
strazianti, che ogni volta erano diverse. A volte mi facevo morire in
circostanze eroiche, a volte meschine, ma la cosa importante erano quelle
reazioni che mi spiegavano qualcosa di fondamentale: come sarebbe stato il
mondo senza di me. E mentre mi commuovevo sul dolore dei miei cari per la mia
morte, che io stessa avevo provocato nella mia testa, li consolavo con parole
dolcissime, insegnavo loro a vivere senza di me.
Ecco, in questo mio
comportamento inconscio di bambina c’era già forse tutta l’essenza del mio
rapporto con la scrittura: l’osservazione della realtà modificata dalla mia
immaginazione; il sentire nella mia carne la verità che sto raccontando, anche
se sono consapevole del fatto che ha essenza solo di pensiero e di carta;
pensare il mondo attraverso la mia testa ma, allo stesso tempo, senza di me; annullarmi,
uccidermi, distruggere la mia forma, ma contemporaneamente diventare tutto,
spandermi senza forma, impregnare di me stessa tutto il mondo di scrittura che
sto creando. E poi scuotere le emozioni degli altri, far soffrire
volontariamente e dopo consolare, mostrare l’orrido del mondo e insieme l’infinita
dolcezza e bellezza.
A poco più di otto anni, chiusa in bagno per ore
a fare quel gioco macabro che mi piaceva da morire, io avevo intuito tutti i
punti salienti del fare letteratura.
Ma in realtà, forse
tutto è iniziato molto prima. Fin dai tempi dell’asilo, quando tornavo a casa e
raccontavo quello che mi era successo in classe. Ero piccolissima, quattro, cinque,
massimo sei anni. Inventavo spudoratamente tutto quello che dicevo. Anche con
un certo surrealismo bretoniano primo periodo. Raccontavo, ad esempio, che io e
il bambino che mi piaceva ci eravamo tramutati in due pesciolini e, sfuggendo
agli inservienti della mensa che ci volevano cucinare, eravamo saltati nello
scarico del lavandino e poi da lì, attraverso le tubature, eravamo arrivati nel
mare e vissuto mille avventure.
Ma la cosa fondamentale
era che più raccontavo, più credevo fermamente a quello che dicevo. Credevo
davvero che fosse successo, anche se sapevo che non era così. La mia volontà di
immaginazione era così potente che si imponeva sui recettori dei cinque sensi e
io sentivo, sulla pelle nei ricordi nel cuore, tutte quelle emozioni e
sensazioni che raccontavo. E presa nel vortice e nella bellezza del mio autoinganno,
ero convinta di averlo in pugno, il mio pubblico, i miei genitori. Ero convinta
che si bevessero ogni mia parola e ridacchiavo tra me e me fiera della mia
furbizia e della mia bravura.
A quattro anni avevo
scoperto l’irresistibile droga dell’invenzione e la piacevolezza di irretire
gli altri esseri umani con le parole.
Quando poi, da un po’ più
grande, ho capito che c’era qualcosa di sbagliato nell’inganno e nella bugia,
che, una volta scoperta, era una cosa socialmente condannata, allora mi sono
sentita improvvisamente un essere immondo, sporco, truffaldino. Quello che solo
qualche anno prima mi dava un immenso puro piacere, adesso era un marchio di
infamia. Ero una bugiarda. E una bugiarda cronica. Sentivo su di me la tara
della vergogna, ero segnata, sbagliata. Mi detestavo ma sapevo di non poterne
fare a meno. Ero condannata ad inventare dalla mia natura deviata. Ormai mi
ritenevo abominevole, ma continuavo a inventare, anche se con l’idea di essere
un mostro, una paria dell’umanità, che fingeva di essere come gli altri, ma in
realtà aveva in sé questo seme marcio della menzogna.
Avrete capito che da
bambina tendevo ad essere un tantino melodrammatica.
Ma perché pur
ritenendomi abominevole non riuscivo a smettere di inventare e di mentire? All’epoca
non l’avevo così chiaro, ma la risposta era che la realtà mi sembrava troppo
deludente, troppo piatta, squallida. In confronto vedevo nella mia testa, come
con qualche aggiustatina qua e là, qualche aggiunta, qualche variazione, poteva
essere così interessante, appassionante, esteticamente valida, in una parola:
bella. E allora perché limitarsi a rendere la realtà così com’era, spoglia e
noiosa, se avevo tutto questo nella testa e il talento e la capacità per
trasformarla in qualcosa di veramente degno di essere raccontato?
Solo molti anni più
tardi ho capito che quella infamante pulsione alla menzogna non era una mia
tara mentale, ma semplicemente la valvola di sfogo di una mia natura: della
predisposizione a narrare. Io semplicemente usavo me stessa come libro vivente
cui tenere avvinti i miei (pochi) lettori.
Non capivo allora che
in modo molto rudimentale mi stavo destreggiando con la funzione estetica della
creazione artistica.
Tutta questa
predisposizione e questo desiderio alla narrazione non hanno trovato però, per
molto tempo, un posto ben definito nella mia vita.
O meglio, ben presto,
appena imparai a leggere e compresi a quali meraviglie mi poteva condurre il
saperlo fare autonomamente, io capii di voler fare la scrittrice.
A quattro anni già
scrivevo quelli che pomposamente chiamavo “i miei romanzi”, ma che più semplicemente
erano degli agghiaccianti raccontini di tre pagine, scritti da sinistra a
destra e da destra a sinistra, in inconsapevole omaggio alle antiche forme di
scrittura bustrofedica, e non capivo come tutti quelli che li leggessero non
cadessero ai miei piedi inneggiando alla mia genialità.
La convinzione di
essere un genio precoce, circondato da creature che solo accidentalmente
avevano la mia stessa età anagrafica, ma la cui inferiorità era ben chiara quando
la loro massima ambizione era tirare fuori dal naso la caccola più grossa di
tutte, mi accompagnò per buona parte della mia infanzia e della mia adolescenza.
A sedici/diciassette
anni, avevo più di dieci anni di carriera di scrittrice segreta e solitaria
alle spalle e ormai scrivevo cose
complicatissime, intessute di filosofia, storia, lirismo greco. Mai più scritto
nella mia vita qualcosa di così complicato e pretenzioso, per fortuna.
E poi semplicemente mi
sono scissa.
A diciotto anni c’è
stata una vera e propria crisi. Una rottura. Una divisione.
Questa mia natura di
narratrice che fino a quel momento andava di pari passo con la mia vita, con i
miei studi e con la mia ambizione di diventare scrittrice, improvvisamente si è
ritrovata separata ed espulsa.
Mi ricordo che una
delle mie fantasie, insieme dolci e amare, di quei primi anni di università era
di guardare quell’altra Giovanna andare per la strada che avrei voluto
intraprendere e che non avevo avuto il coraggio di fare, e pensare: lei lo sta
facendo. In qualche altro mondo, universo, io lo sto facendo, sono andata lì
con il mio vocabolario di latino, il mio vocabolario di greco, e ho continuato
a imparare la letteratura, la scrittura, le lettere. La mia vita, la vita di
quella Giovanna lì, sarà totalmente intrisa di letteratura e sarà dedicata solo
a quello.
E mi piaceva questa
idea, questa mia altra me che vedevo continuare in quella vita. Voleva dire che
in qualche altro posto io lo stavo facendo, che non lo avevo abbandonato del
tutto, ma quel sogno, quell’idea, continuava a vivere e altrove era reale.
Ma qui non mi poteva
appartenere. Erano altre le persone che sceglievano lettere all’università,
erano altre quelle che pensavano realmente che nella vita avrebbero potuto
scrivere libri. Non certo io, non in questo mondo, non in questa vita. Io ero
predestinata ad altro.
E così ho intrapreso la
strada della giurisprudenza. Ma a quel punto ero già dimezzata. E dimezzarsi
vuol dire indebolirsi. La perdita dell’unità si paga sempre.
Era solo una metà di me
che stava percorrendo quella strada, con un occhio sempre all’altra metà, che
ogni tanto tornava, ogni tanto andava. Avevamo dei momenti, delle finestre, in
cui ci parlavamo, volte in cui litigavamo, quando lei tornava e piantava un
gran casino e buttava all’aria tutto, oppure semplicemente si metteva lì e mi
pesava addosso, sulle spalle, senza fare niente, se non guardarmi in silenzio,
con disapprovazione. Voleva solo dire: io esisto, non credere di esserti
liberata di me solo perché mi hai mandata a spasso. Io ero te e tu mi hai
mandato via, come una sorella piccola e difficile che tenevi in casa e che ad
un certo punto hai scacciato per farle intraprendere una vita sua e per poter
vivere la tua, quando avevi detto, giurato per tutti gli anni dell’infanzia,
che ti saresti sempre occupata di lei.
Questo è durato per i
sei anni di università e per i tre anni di dottorato. Nove anni in cui
periodicamente è tornata questa mia pesante coinquilina, vagabonda e fallita,
che chiedeva chiedeva sempre cure e mi accusava del suo fallimento, perché io
ero andata avanti e stavo cercando di costruirmi qualcosa senza di lei.
E poi, sempre all’improvviso,
come si compiono tutte le scelte della mia vita, finito il dottorato l’ho
ripresa in casa. Ho richiamato questa vagabonda fallita e le ho detto: ho
sbagliato a dividerci, ho sbagliato a mandarti via, proviamo a rimetterci
insieme, ricuciamoci. Facciamo quello che volevi fare tu fin dall’inizio,
prendiamoci cura di te.
E’ però una cosa difficilissima,
perché io col tempo ho saldato quell’apertura, i punti di sutura sono andati
via, si è formata nuova pelle, ed è complicatissimo ora rinnestarci quella me
trascurata e difficile, che ha fatto quella vita sbandata nel mondo della
scrittura e della letteratura, ma solo nella sua testa, non l’ha veramente
vissuta, se non impiegando ore e ore della sua vita a leggere. Giorni, mesi,
forse interi anni, se le sommiamo tutte.
Perché una cosa che ho
fatto veramente con costanza nella mia vita è stato leggere. E anche quella che
ho fatto meglio, con più piacere, in abbondanza.
Era nel momento della
lettura che quelle due me si riunivano e si riappacificavano e tornavano ad
essere come quando erano bambine e una teneva in mano il libro e l’altra
leggeva appoggiata alla sua spalla, e chi finiva per prima di leggere,
aspettava l’altra per girare pagina.
Leggere, oltre ad essere
una delle cose che mi dà più piacere al mondo, è stata anche la sola attività
che non ho cambiato o abbandonato ad un certo punto.
Perché io ho un
problema con le continuazioni.
Io mi sono sempre
ritenuta una campionessa degli inizi, una virtuosa degli inizi. Ho iniziato
tantissime cose nella mia vita. Ed ero sempre una rivelazione: la giovane
promessa degli scacchi, la rivelazione della scrittura, del teatro, una
campionessa in erba di tennis o di scherma.
Ma poi semplicemente
non continuavo, non mi interessava. A me interessavano solo gli inizi. Ero una
drogata di inizi.
E invece ho capito che
la vita, quella vera, sta esattamente un passo dopo, nel momento in cui
continui qualcosa, ogni volta che trovi la forza, la volontà e il modo per
continuare a farla.
Prima invece non capivo
come le persone potessero scegliere di dedicarsi a continuare qualcosa, una
sola cosa nel tempo, rinunciando a tutte le mille altre possibilità. Come
sapevano di voler continuare a studiare pianoforte se non avevano mai provato
il violino? Come decidevano di allenarsi ogni giorno a pallavolo se non avevano
mai toccato un campo da calcio?
Io cambiavo continuamente
e vorticosamente perché pensavo che concentrandosi su qualcosa si lasciavano
necessariamente andare cento altre e io non volevo lasciare andare niente.
Ho sempre avuto questo
desiderio totalizzante di essere qualsiasi cosa: il pittore che dipinge, lo
scultore che scolpisce, ma anche lo spazzino che si alza alle quattro di
notte, l’operaio che vive nei grigi quartieri popolari. Sentivo che c’era della
bellezza in tutti i tipi di esistenza, anche i più miseri e disperati, che io
non avrei conosciuto mai e che desideravo profondamente vivere
almeno per un istante.
Ancora una volta la mia
natura mi portava verso la scrittura: perché solo uno scrittore può essere così
arrogante da credere che nella sua testa, nella sua sola vita, ci possa essere
tutto il mondo e che lui possa diventare tutto, chiunque.
Ed ora mi ritrovo qui,
di nuovo con questa povera vagabonda disadattata che se ne è andata in giro
solo con la testa senza mischiarsi mai alla realtà vera. Ho scelto di prendermi
cura di lei, per un anno, perché glielo dovevo, dopo tutto quello che le ho
fatto in nome di un’altra vita che avevo deciso dovesse essere senza di lei.
Lei è diffidente, chiusa, timorosa e scostante. Non mi ha perdonata. Da bambina
e per molti anni era convinta di essere una creatura superiore, destinata a
mostrare al mondo la sua genialità, poi l’ho scacciata di malomodo cercando di
dimenticarmi della sua stessa esistenza. Non si fida più di me. Non è
cresciuta, è in qualche modo bloccata a quel giorno dei miei, dei nostri,
diciott’anni in cui l’ho mandata via. Si è accorta che non ci assomigliamo più,
che io sono cambiata, sono molto più vecchia di lei e più matura. Ma io sono
sincera. Non le negherò più il suo spazio: voglio la sua meraviglia, voglio la
sua arroganza, voglio la sua acutissima ingenuità, la sua saggia esperta
ignoranza. Voglio conservarla, e che lei ritorni com’era, ma voglio anche permetterle
di crescere, finalmente.
Nessun commento:
Posta un commento