Una notte non riuscivo
a dormire. Avevo undici anni. Mi alzai dal letto e scesi al piano di sotto,
dov’era il soggiorno. Lì c’era mia madre, ancora sveglia, acciambellata sul
divano, in un angolo davanti al televisore. Piangeva. Non avevo ancora mai
visto mia madre piangere. Guardava il televisore e piangeva, non si era accorta
che la stavo fissando. Distolsi lo sguardo da lei e vidi quello che stava
guardando. C’era un uomo sullo schermo, era nel mezzo di un palco, seduto con
una gamba accavallata sull’altra, teneva una chitarra in braccio e la suonava
sfregandola piano, cantava ad occhi chiusi. Era circondato da una decina di
musicisti, davanti aveva centinaia di persone. Ma era come fosse solo al mondo.
Quella fu la prima volta che vidi Fabrizio De Andrè.
Era l’11 gennaio del
1999, i telegiornali avevano annunciato la sua morte di cancro ai polmoni, a
nemmeno sessant’anni, la rai in seconda serata mandava in onda le riprese del
suo ultimo concerto. Mia madre piangeva.
La storia di mia madre
e Fabrizio De Andrè era iniziata molti anni prima. Era il 1964, De Andrè aveva
ventiquattro anni, ed era pressocchè sconosciuto, mia madre diciannove. Mia
madre viveva a Torre Maggiore, un minuscolo paesino dell’entroterra pugliese,
lì le novità arrivavano di solito portate dai fuoriusciti, i paesani emigrati
che tornavano a casa per le feste. Tra questi, un ragazzo con cui lei e le sue
sorelle avevano giocato da bambine. Questo ragazzo e la sua famiglia si erano
trasferiti al nord, quando tornavano avevano tutti intorno. Uno di quei giorni
inforcò la chitarra e prese a suonare. Cantava una canzone dolcissima e
immensamente triste, parlava di una ragazza, Marinella, che era scivolata in un
fiume e annegata, dopo aver passato la prima e unica notte d’amore con l’uomo
della sua vita. Lui, appresa la notizia della sua morte, non voleva crederci ed
era tornato a cercarla ogni notte alla sua porta. Era qualcosa di totalmente
nuovo.
Se guardate i filmati
di quell’anno, c’è questo ragazzetto smilzo e poi la sua voce. Infinita, profonda,
pulita, in nulla impostata, con le sfumature roche e tremanti. Raccontava la
canzone, poi lo si seppe, di un fatto di cronaca che riguardava una prostituta
che era morta annegata. Ne faceva la regina di una storia bella, delicata e
struggente. Era un monumento inaspettato alla sua piccola vita e alla sua
piccola morte. Temi questi che non erano ancora mai entrati nelle canzoni
dell’epoca.
Il ragazzo che era
tornato dal nord nel piccolo paesino della Puglia aveva dichiarato con
convinzione di aver composto lui quella canzone. Quella fu la prima volta che
mia madre ascoltò una canzone di Fabrizio De Andrè.
Quando fu svelato l’inganno,
mia madre corse a procurarsi il 45 giri. Quattro anni dopo, nel 1968, uscì il
suo primo album circolare –Tutti morimmo a stento – che da ragazza sentiva e
risentiva tutto il giorno chiusa nella sua stanza. Parlava di drogati, di donne
stuprate da uomini dabbene, di suicidi accolti in paradiso, di guerra sporca e
di criminali impiccati che sputavano maledizioni sui loro aguzzini. Ad un certo
punto suo padre, mio nonno, non ce la fece più. Prese il 45 giri, lo ruppe in
due metà davanti ai suoi occhi e le ordinò di uscire a far prendere aria alla
testa e di non ascoltarlo mai più.
Io, dopo quella prima
volta ad undici anni, chiesi a mia madre di poter ascoltare quell’uomo che l’aveva
fatta piangere. Sentimmo, per molti anni, due raccolte di canzoni, che conservo
ancora in cassetta. C’erano La canzone di Marinella, Bocca di Rosa, Andrea, Il
fiume Sand-Creek, Il testamento di Tito e altre.
Prostitute,
omosessuali, emarginati, criminali, uomini persi, uomini dimenticati, esiliati
della vita.
Ogni canzone mi rapiva
la mente, iniziavo a farmi molte domande, ma non mi importavano le risposte, mi
importava che quella voce continuasse e continuasse a farmi venire in testa
centinaia di domande e cose a cui non avevo mai pensato nella mia esistenza.
Le canzoni di De Andrè
furono, credo, la prima letteratura della mia vita. Forse quello che accese la
mia sete infinita di parole e di storie.
Consumai quelle
cassette fino ai quindici anni. A quel punto io e mia sorella ricevemmo in
regalo dai miei genitori il cofanetto completo dei suoi album. Fu un periodo di
scoperte ininterrotte. Non ricordo nella mia vita un anno così pieno di stupore
e bellezza e dubbi e dolore e malinconia e rabbia.
Volume uno e Tutti
morimmo a stento mi insegnarono la pietà; La buona novella, il sentimento
religioso, la spiritualità intima di un cristianesimo umano e disarmato, non
per forza liturgico, non per forza condiviso; Storia di un impiegato mi insegnò
la rabbia e l’impotenza, la cattiveria corrosiva del potere; Non al denaro non
all’amore né al cielo mi insegnò la bellezza della miseria umana; Anime Salve,
la necessità di appartenere ai pochi, ai diversi, a quelli che rifiutano le
verità troppo semplici o troppo evidenti.
De Andrè, con quella
sua voce profonda di occhi chiusi che guardavano dentro, a quindici anni mi
insegnò qualcosa di molto complesso e ripugnante e struggente e bello, che un
po’ forse è la vita.
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