“…”
“Non sai parlare?”
“…”
“Guardami almeno! Che stai cercando là in alto?”
“mmm”
“Ehi bambina, dove stai andando? Dove vai?”
Stavo inseguendo il mio topo. Non potevo fermarmi a parlare
con quel bambino, l’avrei perso. Avevo
visto quel topo volare lievemente reggendosi sulle due zampe su una lanterna
giapponese di carta di riso bianca e avevo preso a seguirlo. Continuavo a
correre col naso all’insù quando sbattei su due ginocchia ossute.
“Ehi” disse un ginocchio.
“ Attenta a dove vai” disse l’altro risentito.
Dovevano essere gemelle. Parlavano con la stessa voce.
Cercai di spiare nel mezzo per ritrovare il mio topo ma loro si serrarono.
“Ti sei persa?” Disse una, scocciata.
Scossi la testa vigorosamente tentando di scartare a destra
per superarle, mi sbarrarono la strada.
“Dove sono i tuoi genitori?”
Mi fermai. Cessai tutti i tentativi di superare le ginocchia
e alzai la testa a fissarle nelle rotule, seccata.
“Sono morti” dissi con cattiveria.
Le ginocchia ebbero un fremito. Strinsi gli occhi e alzai un
sopracciglio. “Oh sì, sono morti orribilmente. L’ultima volta che li ho visti
erano distesi, fermi immobili, avevano gli occhi chiusi ed erano rigidi come
stendipanni.” Le ginocchia si mossero a
disagio, non volevano sentire altro. Io ridevo malignamente dal basso. “ Prima
si agitavano a destra e sinistra, destra e sinistra, poi i petti si sollevavano
come se volessero staccarsi dal corpo, le gambe scalciavano e battevano i pugni
sul materasso. Oh soffrivano orribilmente. Poi più niente. - feci una pausa ad
arte- Allora, come intendete prendervi cura di me?” Le ginocchia cedettero e si
divaricarono. Sorrisi sprezzante e passai oltre vittoriosa, riprendendo la mia
caccia al topo.
Bagno per famiglie
Avevo visto il mio topo svoltare a sinistra, girai l’angolo
e mi trovai in una zona chiusa. Non c’era più strada, non c’era topo. C’era una
porta e un uomo con i capelli unti ritto nel mezzo a fissarla. “Nnnnn
nnnnnnnnn”, sentivo un basso raspio di sottofondo e sperai fosse il mio topo ma
mi resi conto che era quell’uomo che farfugliava sommessamente. Avrei voluto
chiedergli del topo, mi misi di fianco a lui aspettando e intanto guardai
meglio la porta, sopra c’era il disegno di tre omini, due grandi e uno piccolo
e una scritta, BAGNO PER FAMIGLIE.
“AH!” urlò d’un tratto l’uomo sudaticcio, sobbalzò e poi
riprese a biascicare“nnnnnn nnnnnnnnn.”
Ero stanca di aspettare, “Scusi- gli dissi a voce un po’ più
alta del normale- scusi ha-visto-un-topo-entrare?” “ NON POSSO!” gridò lui e
finalmente si girò a guardarmi. Aveva gli occhi così tondi che probabilmente le
palpebre non riuscivano a coprirli tutti e dei capelli appiccicati che
partivano da metà cranio e colavano fino alle spalle. L’uomo allargò ancor di
più gli occhi col rischio che rotolassero via e lo prese un minuscolo tremito,
guardò me, poi guardò la porta, poi di nuovo me. Indicò l’omino in pantaloni
che tendeva un braccino blu a quello più piccolo e mi tese una mano. Non la
presi e continuai a fissarlo negli occhi. “S-mettila d-i f-issarmi” disse infine
abbassando la mano, mentre la faccia gli
si torceva a scatti. “ Le ho chiesto se ha visto un topo bianco entrare.” “ Lì
non può entrare” fece con voce aspra. “E perché?” “Perché potrebbe entrare solo
con una moglie topo e un topolino. Quello è un bagno per famiglie.” Sospirò. Mi fece pena, chiesi il più dolcemente
possibile “ Neanche tu puoi entrare?” scosse la testa guardando il pavimento. “Non
hai una famiglia?” annuì al pavimento. “Perché non la vai a cercare?” Dissi
stendendo un braccio verso l’imbocco dello spiazzo. Mi guardò spaventato. Poi i
suoi occhi si ritirarono un po’ più dentro e riprese a fissare la porta
tendendo un braccio a destra e uno a sinistra come faceva l’omino blu verso il
suo piccolo e l’omino con la gonna. Mi arrabbiai. “Sei uno stupido! C’è tanta
gente che cerca un omino in pantaloni, potresti servire a tante persone e
invece te ne stai lì a fissare quella stupida porta! Non ci puoi entrare, beh
ecchissenefrega! Vai a cercare altre porte! Muoviti!” Strinse gli occhi
dolorosamente “ Mio padre e mia madre sono lì dentro, quando ero piccolo
presero mio fratello per mano e entrarono. Io non ce l’ho fatta, non sono
riuscito ad entrare. Nnnnnnnnn nnnnnn non Posso! NON POSSO!” Si torceva in
spasimi e sputava Non posso come se
ce li avesse tutti sullo stomaco. Lo presi ai gomiti, dove arrivavano le mie
braccia e cercai di calmarlo “Non vuoi, forse non vuoi.” Prese a piangere
piano, con le lacrime che colavano giù per traboccamento, senza partecipazione
o sforzo. “ Avrebbero dovuto prendere anche te, perché non ce la facevi da
solo. Non è colpa tua, non è colpa tua.” Lo calmai accarezzandogli il braccio,
lui mi guardò grato, abbozzò un sorriso e mi serrò la mano con una stretta di
ferro. “ Ahio!” feci guardandolo spaventata dal basso, lui continuava a
sorridere, “Lasciami, io non vengo con te.” Gli dissi cercando di sfilarmi via
la sua mano. “Aspettiamo.” Disse lui riprendendo a fissare la porta e l’omino
con la gonna. “ Io non voglio aspettare- feci agitandomi e torcendomi- io devo
andare, non voglio stare qui ferma, sto cercando una cosa.” Ma l’uomo sembrava
di granito. Mi contorsi, piansi, urlai. Lui non guardava neanche dalla mia
parte. Presi a insultarlo, a dirgli cose a raffica senza sapere quello che
dicevo “ Sei un mostro, pensi solo a te stesso, non pensi a me?Io devo
inseguire il mio topo. Non t’importa di nessuno, solo di te! Ho capito perché i
tuoi genitori ti hanno lasciato qui!” La mano si spalancò come una bocca. Io mi
misi a distanza di sicurezza massaggiandomi il palmo. Lui si rannicchiò in sé
stesso, facendosi piccolo “Non mi hanno lasciato- disse iniziando ad
afflosciarsi a terra- mi tenevano.” Io corsi via “ Mi tenevano!” mi urlò dietro
“ Sono io che ho staccato la mano!” Corsi più veloce che potevo, non vidi
neanche dove andavo. Mi fermai solo quando nella mia testa non sentii più il
raspare di nnnnnnnnnn.
Casa di 40 mq
“Che state facendo?”
Lui sollevò la testa appena per vedermi. Poi la riabbassò sul
viso di Lei. Lei riusciva a guardare solo lui.
“Ci amiamo, bimba”
Mi avvicinai, “Perché?”
Lui guardò di nuovo lei, lei continuava a guardargli la
fronte, le ciglia, gli occhi.
“Perché lei non è me,
bimba. Me la sto riprendendo.”
“Che significa?”
“ Significa che c’è stato uno sbaglio, lei avrebbe dovuto
essere me e io lei, bimba. Avremmo dovuto essere insieme. Qualcuno ci ha
separato, me la sto riprendendo e lei prende me.”
Li guardai
affascinata, erano bellissimi. Tutto quel nudo, pelle che non se ne vede mai così tanta, fa l’effetto
di tutto un cielo libero da palazzi. Lui era steso sopra di lei ma a lei
sembrava non pesasse, lei continuava a fissargli il collo, le spalle, i
capelli, accarezzandoli.
“E perché fate così?” “Perché se me la mangiassi non ce ne
sarebbe più.” Scossi la testa senza capire, lei gli passava la mano tra i
capelli. “ Bimba questa è la strada più diretta per portare me dentro di lei,
se la aprissi a metà non entrerei dentro di lei, ma così oh sì. Questa è la
strada per sentirla dentro.” Lei sorrise dolcemente.
“ Ma non ti basta fuori? E’ così bella.”
“Fuori è niente. Dove è il cuore, bimba?”
“Dentro.”
“(Fuori è niente. )Quella è la sua parte più bella.”
Sorrisi senza poterne fare a meno e me ne andai quando loro
ripresero a muoversi insieme, danzandosi dentro. E quando lei si voltò a guardarmi aveva lo
sguardo pieno, e dentro vidi lui.
Casa di 30 mq
Dopo qualche metro c’era la casetta da trenta mq, dietro le vetrate
senza tende quattro occhi spiavano gli amanti e denunciavano due disgusti.
Quando mi avvicinai si fissarono su di me. “Entra” “Entra, entra” si parlarono
sopra due vecchie voci. Tacquero entrambe. La casa stava stretta, le due
vecchie erano qualcosa che il chiuso consumava insieme all’aria. “Hai visto
quei due?” “Che vergogna, che vergogna.” “Certe cose una bambina non dovrebbe
vederle.” “Perché?”chiesi “Santo cielo, santo cielo” “Perché no e basta, certe
cose una bambina non dovrebbe vederle.”
Alzai le spalle. “Siete molto vecchie.” Dissi tanto per dire qualcosa. “Non
come il cucco, non come il cucco.” “Chi siete?”chiesi, guardando nella penombra lo squallore polveroso.
“ Siamo le Signorine Misericordia, bambina” “Strano nome.” “ E’ il nostro
nome.” “E che fate?” “Aiutiamo la
gente.” “Non vedo gente.” “Aiutiamo la gente che può entrare qua dentro” Mi guardai
intorno. “E’ uno spazio piuttosto piccolo.” Commentai. Si guardarono piccate.
“Le persone che possono entrare qua dentro sono quelle che meritano aiuto”
disse una, sostenuta “Non devono essercene molte” “Sono quelle degne, quelle
degne” disse l’altra. Strinsi le sopracciglia, “ Ma le persone che hanno
bisogno d’aiuto, generalmente non sono quelle indegne?” azzardai. Si guardarono di nuovo negli occhi,
come per darsi pazienza. “No bambina, le persone indegne non hanno bisogno di
niente.” “Perdizione eterna, eterna. Sono condannate.” Disse l’altra agitandosi. “ Non hanno bisogno
di noi” aggiunse la prima con voce strozzata. Mi mordicchiai il labbro di sotto,
riflettendo. Le Signorine intanto apparecchiavano un tavolo che sembrava un
altare. “Coltello a destra.” Borbottava una. “Non bestemmiare” masticava
l’altra. “L’inferno a chi fa peccato” andavano avanti e indietro dalla tavola
alla cucina con passo barcollante. Sul tavolo non posavano nulla, “ l’uomo propone e dio dispone” diceva una e tornava di
là. “chi dà e ritoglie, il diavolo lo raccoglie” arrivava l’altra e poi riscompariva.
Quando ebbero finito e si risedettero la tavola era vuota e squallida come
prima. “E quante persone avete aiutato?” Si guardarono sbattendo gli occhi
“Nessuna.” “Nessuna, nessuna” dissero nervosamente l’una sull’altra. Tacquero
entrambe. “Cioè, ci avete provato e non ci siete riuscite?” Mossero la testa
“Non è venuto nessuno.” “Cioè non ci avete mai
provato ad aiutare qualcuno?” “Non sono venuti.” Disse una, dura. “Non ci
entravano, non ci entravano.” Borbottò l’altra. “Ma siete le Signorine
Misericordia! Non potevate andarli a cercare?” “Dovevano entrare qui dentro.” “Ma se voi foste andate a
cercarli, forse li avreste convinti a entrare qui dentro! Forse non ce la facevano,
o stavano male, o non sapevano che voi eravate qui per aiutarli!” feci
accorata. “Non alzare la voce” fece una. “Schiena dritta e gomiti bassi”
aggiunse l’altra. Continuavo a fissarle in silenzio, una scosse leggermente il
busto e disse sussiegosa “Siamo le signorine Misericordia.” “Aiutiamo la gente”
aggiunse l’altra. “Lo so, questo l’ho capito. Allora potete aiutare me?” Si
guardarono stupite. D’un tratto persero sicurezza. “Vuoi la salvezza eterna?”
provò una timidamente. Scossi la testa. “Vuoi redimerti dal peccato?” Azzardò
l’altra. Feci ancora no, “Vorrei essere consolata.” Dissi con labbro tremulo,
guardando il pavimento e rendendomi più patetica possibile. Le sorelle si
scambiarono uno sguardo terrorizzato sopra di me. Mi sentivo triste e sola, mi
facevo tantissima pena, ero la più sofferente dei sofferenti, la più bisognosa
dei bisognosi. “Vi prego aiutatemi” dissi piangendo su me stessa. “ Sono
stanca, ho sonno, ho fame. Sono tanto triste e non so perché. Ve l’ho detto che
miei genitori sono morti orribilmente? Mi sento spersa. Non riesco a trovare
quello che cerco. Mi sento inutile, inadeguata, non ho guide, non ho punti di riferimento,
non credo a nulla. Sono spaventata.” scoppiai a piangere vinta dalla pena per
me stessa e mi sedetti per terra coprendomi la faccia. Le due vecchie si
irrigidirono. Io spiavo tra le lacrime aspettando un abbraccio o una carezza, che
mi dessero una parola dolce, o un dolce da mangiare. Invece improvvisamente le
loro facce si deformarono, erano stravolte dalla rabbia e dall’odio. “Tu essere
immondo!” strillò una. “ Piccola peccatrice ripugnante.” “Essere perduto!” “
Fuori di qui, persona indegna!” Si misero a gridarmi contro e a spingermi fuori
dalla casa. “Senza guida!” “Senza punti di riferimento!” Cercavo di parlare, di
spiegare, ma non mi ascoltavano. “Via di
qui, vagabonda” “Vieni ad insozzare la nostra casa?” “A prenderti gioco di
noi?” “Non ci faremo trascinare nel tuo fango” “Torna dalla tua razza
maledetta, miscredente” “Bastarda, figlia di nessuno, senzadio” e mi sbatterono
fuori, chiudendo la porta logora.
Casa di 60 mq
“Oh povera cara, povera piccola, stella mia.” Mi strinse
qualcosa di caldo e profumato e mi accarezzò i capelli. Non resistetti e
scoppiai a piangere. Piansi mentre mi faceva rialzare, piansi mentre mi metteva
un braccio intorno alla vita e mi faceva camminare, piansi quando ogni tanto mi
passava una mano sulla guancia o mi baciava gli occhi, piansi quando mi fece
entrare in casa. Fu uno dei pianti meglio riusciti della mia vita. Quando mi
fui calmata le chiesi chi fosse, mi rispose con una voce soffice che avvolgeva
tutte le parole “Sono una mamma, tesoro.” Chiusi gli occhi a godermele quelle
parole, come se avessi appena ingoiato qualcosa di squisito. Una mamma,
finalmente. “Mi piacciono le mamme” feci a occhi chiusi. “Ne sono contenta”
disse lei con un sorriso dolcissimo. L’aria intorno al suo corpo era calda e
vibrante, il suo seno era morbido, la sua pancia era morbida, la pelle del
volto era liscia di velluto. Alzai gli occhi e vidi la mamma che mi guardava.
Le sorrisi, mi sorrise. Dietro di lei, sotto una cupola di vetro chiaro,
sgambettavano, giocavano, piangevano e ridevano dei bambini. E tutti
assomigliavano a lei o meglio lei assomigliava a tutti. “Sono i tuoi figli?” dissi
avvicinandomi stupita.“Tutti pezzi del mio cuore.” Schiacciai la faccia sul vetro, i bambini mi
vennero vicino, avevano l’aria felice. Feci delle boccacce e scoppiarono a
ridere. La mamma li guardava amorosamente, le sue espressioni cambiavano
continuamente al mutare degli stati d’animo dei bambini. “Perché stanno lì dentro?”
“Perché devono crescere, il mondo strappa quel che è piccolo e delicato.”
Guardai meglio i bambini, alcuni avevano le dimensioni di adulti ma non me
n’ero accorta perché erano come tutti gli altri, con la pelle liscia, gli occhi
luminosi e innocenti. Solo che erano grandi. Strinsi le sopracciglia. “Tu li
picchi mai?” Mamma e figli mi guardarono scandalizzati “Oh santo cielo, no.” “E
li sgridi? Gli dici cose che potrebbero ferirli?” Mi guardò con infinita
compassione. “Ma no, tesoro mio. Perché dovrei?” Cercai di trattenermi ma mi
stavo innervosendo e non capivo neanche perché in tutta quella dolcezza dovessi
irritarmi così tanto. E poi capii. L’aria era irrespirabile, totalmente
rarefatta. Non c’era l’odio, è importante l’odio, non c’era il rancore, mancavano
l’ambizione, l’invidia, la solitudine, l’indifferenza, l’estraneità, la
varietà. La varietà, la tristezza, il rischio. C’è chi mette al mondo esseri umani e chi solo figli. Non si può creare
un altro uomo per talea. Mi guardai intorno smarrita e poi vidi uno di quei
bambini cresciuti che muoveva le labbra senza emettere suoni. Sentivo il suo
labiale. Quella donna non fa altro che
accrescere sé stessa, rendersi infinita nel tempo e nello spazio. Non vuole che soffriamo perché non vuole
soffrire, non vuole che conosciamo altro che lei per paura di perderci. “Tu
non sei una vera mamma.” Dissi senza riuscire a trattenermi “se no apriresti
quella campana e soffriresti come un cane permettendo ai tuoi figli di
soffrire.” Sgranò gli occhi. C’è chi si
copre di figli per non vedersi. “Tu! Tu ti copri di figli per non vedere te
stessa. Vorresti insegnare ai tuoi figli ad essere te perché in tutta la tua
vita tu non hai imparato a farlo, non sei stata capace di sentirti completa.” La mamma prese a piangere dolorosamente. E ora dalle il colpo finale, facci uscire. “No.
Cresci. Fallo tu.” L’adulto bambino scoppiò a piangere rumorosamente e a
battere i pugni per terra. Ma la mamma non corse a consolarlo, restò ferma a
piangere silenziosamente. Era terribile vederla piangere, una mamma non mostra
mai sofferenza, cede al dolore solo quando è enorme da spezzargli il cuore e
fluire via. La abbandonai col cuore pesantissimo e l’idea di essere ingrata,
impura, spezzata. Un dolore che mi sembrava quasi necessario. Come un peccato
originale di cui ci si macchia inevitabilmente a un certo punto dell’esistenza.
Zona poltrone
“Si sente bene?”
“Uh?” l’uomo aprì gli occhi per un istante e riprese a
dormire. Gli girai un po’ attorno poi parlai di nuovo“Sta dormendo?” Grugnì
qualcosa. “Lo sa che fuori è già primavera?” Aprì solo un occhio e strizzò
l’altro. “Primavera hai detto?” “Proprio così” annuii seria. “Devo aver dormito
per almeno due liquidazioni e quattro svendite.” “Eh?” “Lascia perdere.” Il
vecchio si raddrizzò lentamente sulla poltrona e si mise a massaggiarsi gli
occhi accuratamente allungando le palpebre verso il basso e facendo facce
strane. Scoppiai a ridere di gusto. Mi stava simpatico. “Dacci un taglio, ienetta.”
“Mi sta simpatico” gli dissi. “Uhm”
annuì distrattamente guardandosi intorno. “Oh santo dio, sono ancora qui, loro
coi figli e i figli dei loro figli.” “Chi?” “Chi, chi!” s’innervosì “Tu, i tuoi
genitori, i loro genitori, i cani e dio solo sa chi altro, a fare sempre le
stesse cose.” Guardai la folla disordinata tutta intorno che ci ignorava “Che
facciamo qui?” Il vecchio si raddrizzò a guardarmi “Come?” mi chiese puntandomi
addosso la faccia. “M-mi mette un po’ a disagio.” “Cosa hai detto prima?” “Ho
detto perché siamo qui” “Perché…” sospirò come assaporando quella parola e si
gettò sullo schienale chiudendo gli occhi. Aspettai un po’ , educatamente.
“Allora?” “Usi troppi punti
interrogativi, bambina. Non hai paura di finirli?” Strinsi le labbra
fissandolo. Lui mi spiò attraverso le palpebre calate. “ Perché non fai come
qualsiasi altro essere umano a questo mondo e non mi ignori?” Gonfiai le guance
“Voglio sapere.” Il vecchio si sollevò,
lo schienale della poltrona accompagnava tutti i suoi movimenti, “Tu vuoi sapere? Tu piccolo insignificante
esserino sogna-saldi? TU vuoi sapere?” scoppiò a ridere. Strinsi gli occhi
minacciosamente. Il vecchio si lasciò scappare un po’ di stupore. “Evidentemente
si. E cosa vorresti sapere di grazia? Dove è il bagno? Dove si vendono le
stoviglie? Se è migliore il tefal o l’alluminio?” “Lei ha detto che stiamo ancora tutti qui,
cosa ci facciamo qui?” “Non lo sai? Non sei convinta di vivere la vita, tu come
tutti quegli altri?” Scossi la testa “Non sono convinta di niente.” Parve
riflettere profondamente, poggiò le mani sui braccioli “ E cosa dicono i tuoi
genitori di tutte queste domande?” “…sono morti…orribilmente.” Dissi esitante.
Lui mi fissò in modo ancora più penetrante “Sono morti eh? Fine scontata.” “Come!”
dissi un po’ delusa e un po’ offesa “Non prova pena per me?” “No, perché
dovrei? Possono farti molto più bene da morti che da vivi, credimi. Quanto a loro,
sono morti buon per loro, si sono tolti un pensiero.” Aggrottai la fronte, curioso
punto di vista. “E- e lei cosa intende fare per prendersi cura di me?” azzardai.
Si sollevò seguito dallo schienale “Bambina,ti assicuro che non ho nessuna
intenzione di prendermi cura di te.” “ah- feci un po’ spiazzata- ok.” “Ma
veniamo a noi- disse il vecchio intrecciando le dita- tu vuoi sapere, non è
così? E vuoi che il sapere te lo trasmetta io.” Feci sì con la testa. “Male.”
Mi bacchettò. Smisi subito di scuotere la testa. “Credi forse che il sapere sia
una moneta che si passi da una mano all’altra?” Lo guardai incapace di
rispondere. “Il sapere è qualcosa di organico, di umano. Lo devi secernere, te
lo devi produrre, si deve staccare dai tuoi organi, usare i tuoi tessuti. Non
puoi certo aspettarti che ti arrivi così dall’esterno e tu sia pronta ad
accoglierlo senza alcuno sforzo. Imparalo per la prossima volta.” Annuii seria
fingendo di aver capito. All’improvviso mi fissò negli occhi “E ora vuoi dirmi dove
sono i tuoi genitori?” Lo guardai smarrita, “Eh?” “Dove sono.” Ripetè. Sospirai. “Al reparto notte.” “E perché fingi
che siano morti?” “… Per imparare.” Dissi a voce bassa. “Come?” “Per imparare-
ripetei più forte- Quando hai i genitori morti pensi a un sacco di cose e la
gente risponde alle tue domande.” “Santo dio, bambina. La morte non insegna
niente, la morte cancella. Sotterra. E’ la vita che deve insegnare ma nessuno
pensa di doverla stare a sentire. Tutti pensano solo al modo migliore di
viverla. Ma non senti come è tautologico? La vita non si deve vivere, già vive.
Se vivi la vita è come se ripetessi un’azione, facessi qualcosa che
contemporaneamente si sta già facendo. Tu sogni un sogno? Stringi una stretta?
Il sogno è già sogno senza dover essere sognato, la stretta è già stretta di
per sé, puoi aumentarla, allentarla ma una stretta è stretta perché la si
stringe. Se no non sarebbe tale. La vita è già vita senza dover essere vissuta.
La vita vive, porca miseria. E’ per questo che durante la vita non si può
solamente limitarsi a vivere, occorre fare altro.” Lo fissai con la bocca
semiaperta. La cosa parve irritarlo. “Non so perché perdo tempo con questo
animaletto.” Sbuffò e si rigettò sullo schienale fingendo di dormire. Strinsi
le labbra dalla rabbia. “E come mai lei che sa tutte queste cose è finito
dimenticato su una poltrona?” Corrugò la fronte. “Non risponde ora?” Sbuffò e
si girò dall’altro lato.
Deposito scatoloni
Tutt’intorno gli scaffali dall’altezza di cattedrali gotiche
si protendevano come costole gigantesche di un torace scheletrico, gli scatoloni
buttati qua e là sembravano brandelli di carne passita che nessuno si curava di
coprire. Quel luogo sporco sfoggiava il suo squallore e la sua bruttezza.
Uomini erano buttati in mucchi di stracci agli angoli non preoccupandosi di
rialzarsi, di dormire o stare svegli, di coprirsi. Io li guardavo intensamente
ma tenendo gli occhi bassi, volevo vedere se veramente erano uomini come me, se
erano nati da una madre anche loro, se erano stati bambini anche loro, e
avevano bocche e nasi. Una donna mi veniva incontro dalla parte opposta
zoppicando e borbottando qualcosa. Ogni tanto si fermava e si aggiustava la
gonna lacera poi riprendeva a camminare. Era sporca, scura come uno di quei
panni per la polvere e la sua voce era roca come se grattasse continuamente
contro la gola. Mi feci coraggio e la salutai “Buonasera.” Mi guardò di
traverso, storse la bocca e non si fermò. Deglutii, “C-cosa è questo posto?” ,
per un istante fissò i suoi occhi selvaggi su di me, sembrava pronta ad
attaccarmi se non l’avessi lasciata in pace. “Perché vive quaggiù?” Lei girò
sui tacchi e si inoltrò in uno dei tanti corridoi secondari, la seguii. Aumentò
la velocità del passo e del borbottio. “E’, è un posto orribile, perché sta
qui?” Si fermò e senza girarsi la sentii dire “Io sono questo posto orribile.”
“Non è vero, lei è una persona non un posto.”Questo mi pareva scontato. “Perché
sei qui? Tornatene di sopra. Non devi stare qui.” Mi stupii “Lei si preoccupa
per me?” “No” disse secca “la tua vista mi disturba.” Presi un’espressione
ferita. Degli inservienti in divisa scesero dal piano di sopra, caricarono uno
di quegli enormi scatoloni senza curarsi degli uomini distesi agli angoli e
ritornarono su. “Guardi! Di là si torna di sopra, perché non andiamo insieme?
Lì c’è luce e tanta gente.” “Mi fa schifo di sopra” “Beh sempre meglio di qui.
Questo posto puzza.” Si girò di scatto e quasi sbattei contro il suo naso,
“Almeno non fingiamo di non puzzare.” “Quelli là, quelli ci spingono via. E non
è che non puzzano. E’ che non hanno il naso.”
Lanterna bianca
E caddi nel bianco.
“E questo?”
“Questo è vuoto.”
“ Il vuoto è bianco?”
“…”
“Perché nel vuoto io esisto?”
“Tu non esisti se non nel vuoto. Se tutto fosse pieno non ci
sarebbe spazio per te.”
“Ma io sono piena?”
“Oh no che non lo sei. Sei un recipiente di vuoto. Trabocchi
di vuoto. Quasi non lo riesci a contenere, lo spargi qua e là.”
“ Ma è male essere vuoti?”
“Solo se credi di doverti riempire.”
“Non devo?”
“Oh no. Non devi.”
“Ma l’altra gente. Quella piena, è qui che viene a
riempirsi?”
“Si.”
“ E di cosa si riempie?”
“Oh, un po’ di tutto. Amore, rimpianti, carità, rancore. Qui
si trova tutto.”
“ E questo tutto è a buon prezzo?”
“Prende quello che dai.”
“Io non ho niente da dare.”
“Allora non puoi avere niente.”
“E le altre persone come pagano?”
“Oh dipende da quello che sono disposte a dare. Alcune danno
il loro tempo, altre dividono la loro integrità. Altre perdono i valori, alcune
cedono sogni, e vuoti, e aspirazioni. Ci sono delle persone che si riempiono a
forza come tacchini imbottiti e vogliono riempirsi di tutto. Altre scelgono,
qualcosa lo evitano, di qualcosa hanno paura.”
“Io non ho visto niente che mi piacerebbe avere.”
Aspettammo un po’ silenziosi, osservando il vuoto che si
insinuava tra noi come vento. Riflettevo.
“Tornerò qui?”
“ La domanda è se da qui te ne andrai.”
“Uh non so, non si sta male. Sento un po’ la mancanza del
corpo, e di altri colori. Cioè so di averlo un corpo ma con tutto questo bianco
non vedo nulla. Topo …”
“Si?”
“E’ per seguire te che non ho guardato gli scaffali …”
Esitai, sentivo il topo che attendeva educatamente.
“E se avessi perso qualcosa?”
“Che genere di cosa?”
“Non so, un’offerta, un’occasione.”
“Attenta stai ragionando come loro.”
“Si ma … E’ tanto terribile essere pieni? Insomma, nasciamo
vuoti, giusto? E poi moriamo pieni. Funziona così?”
“Generalmente.”
“ Non mi sembra sbagliato. Mi sembra … naturale.”
“Naturale è come dire bestiale.”
“Bestiale?”
“Si bestiale, animale, fatale. Naturale. La natura è una
schiavitù che crediamo di avere.”
“mmm”
“ Quando qualcosa ti sembra naturale, è perché segue la
normale evoluzione di quel genere di cose. E’ come un finale che si ha già in
corpo, una strada nota che si sa già dove va a finire. Naturale non significa
altro che buttare le proprie redini, abdicare alla massa, al tempo e al caso.”
“ Allora deve essere qualcosa di sbagliato.”
“Oh no. Ciò che è naturale è sempre giusto. Ma se tu sei
sbagliato, l’errore è il tuo giusto perché l’errore ti è innato ed è ciò che è
giusto ad essere inadeguato.”
“ Topo… Sono confusa.”
“Bene.”
Mi fermai ancora a pensare.
“Topo, qui posso pensare per tutta la vita senza concludere
nessun pensiero?”
“Se lo desideri.”
“Sai cosa vorrei, topo? Vorrei che niente cambiasse e tutto
fosse diverso. Questo mi piacerebbe. Mi piacerebbe che tutto mutasse in
continuazione ma che non fosse mai sconosciuto per me. Vorrei che i miei
pensieri sanguinassero. Vorrei che tutto quello che c’è nella mia testa lo si
potesse cacciare vivo di là e vorrei poterlo cambiare o distruggere senza
rimorsi. E vorrei che il mio corpo fosse vuoto come un fantoccio e potessi aprirlo
con una cerniera e mettermici dentro tutte le cose belle che amo e portarmele
dietro per tirarle fuori quando lo desidero. Vorrei che le persone che incontro
si prendessero qualcosa da me e mi lasciassero qualcosa. Una specie di baratto
esistenziale. Vorrei che nessun incontro fosse dato per scontato, che nessuna
natura umana venisse trascurata. Vorrei che l’incredibilità dell’uomo venisse
riconosciuta sempre e comunque anche nel più triste, stupido, noioso degli
esseri. A me l’uomo fa così pena per il solo fatto che è uomo che non riesco a
condannarlo per nient’altro. Allora non
ci potrebbero essere punizioni. Ma nessuno riuscirebbe ad uccidere perché si
ucciderebbe qualcosa di troppo complesso, vario, disarmato.”
Il topo restava in un silenzio triste.
“Non posso restare, topo.”
Il topo abbassò gli occhi.
“Devo tornare là sotto.”
Il topo non rialzò la testa. Scesi lentamente sperando che
mi dicesse qualcosa, anche che avessi torto e di tornare indietro. Ma non
diceva nulla, avvertivo solo il suo silenzio doloroso. Mentre scendevo guardavo
intorno abbracciando tutto con lo sguardo e seppi che ogni singola cosa era
mia, mi apparteneva. E io appartenevo loro. Doveva essere così. Quando non vidi più neppure la punta del lungo
naso del topo, seppi di essere arrivata con i piedi per terra.
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