lunedì 7 settembre 2015

Una vita all'Ikea



“Dove corri?”
“…”
“Non sai parlare?”
“…”
“Guardami almeno! Che stai cercando là in alto?”
“mmm”
“Ehi bambina, dove stai andando? Dove vai?”
Stavo inseguendo il mio topo. Non potevo fermarmi a parlare con quel bambino, l’avrei perso.  Avevo visto quel topo volare lievemente reggendosi sulle due zampe su una lanterna giapponese di carta di riso bianca e avevo preso a seguirlo. Continuavo a correre col naso all’insù quando sbattei su due ginocchia ossute.
“Ehi” disse un ginocchio.
“ Attenta a dove vai” disse l’altro risentito.
Dovevano essere gemelle. Parlavano con la stessa voce. Cercai di spiare nel mezzo per ritrovare il mio topo ma loro si serrarono.
“Ti sei persa?” Disse una, scocciata.
Scossi la testa vigorosamente tentando di scartare a destra per superarle, mi sbarrarono la strada.
“Dove sono i tuoi genitori?”
Mi fermai. Cessai tutti i tentativi di superare le ginocchia e alzai la testa a fissarle nelle rotule, seccata.
“Sono morti” dissi con cattiveria.
Le ginocchia ebbero un fremito. Strinsi gli occhi e alzai un sopracciglio. “Oh sì, sono morti orribilmente. L’ultima volta che li ho visti erano distesi, fermi immobili, avevano gli occhi chiusi ed erano rigidi come stendipanni.”  Le ginocchia si mossero a disagio, non volevano sentire altro. Io ridevo malignamente dal basso. “ Prima si agitavano a destra e sinistra, destra e sinistra, poi i petti si sollevavano come se volessero staccarsi dal corpo, le gambe scalciavano e battevano i pugni sul materasso. Oh soffrivano orribilmente. Poi più niente. - feci una pausa ad arte- Allora, come intendete prendervi cura di me?” Le ginocchia cedettero e si divaricarono. Sorrisi sprezzante e passai oltre vittoriosa, riprendendo la mia caccia al topo.

Bagno per famiglie

Avevo visto il mio topo svoltare a sinistra, girai l’angolo e mi trovai in una zona chiusa. Non c’era più strada, non c’era topo. C’era una porta e un uomo con i capelli unti ritto nel mezzo a fissarla. “Nnnnn nnnnnnnnn”, sentivo un basso raspio di sottofondo e sperai fosse il mio topo ma mi resi conto che era quell’uomo che farfugliava sommessamente. Avrei voluto chiedergli del topo, mi misi di fianco a lui aspettando e intanto guardai meglio la porta, sopra c’era il disegno di tre omini, due grandi e uno piccolo e una scritta, BAGNO PER FAMIGLIE.
“AH!” urlò d’un tratto l’uomo sudaticcio, sobbalzò e poi riprese a biascicare“nnnnnn nnnnnnnnn.”
Ero stanca di aspettare, “Scusi- gli dissi a voce un po’ più alta del normale- scusi ha-visto-un-topo-entrare?” “ NON POSSO!” gridò lui e finalmente si girò a guardarmi. Aveva gli occhi così tondi che probabilmente le palpebre non riuscivano a coprirli tutti e dei capelli appiccicati che partivano da metà cranio e colavano fino alle spalle. L’uomo allargò ancor di più gli occhi col rischio che rotolassero via e lo prese un minuscolo tremito, guardò me, poi guardò la porta, poi di nuovo me. Indicò l’omino in pantaloni che tendeva un braccino blu a quello più piccolo e mi tese una mano. Non la presi e continuai a fissarlo negli occhi. “S-mettila d-i f-issarmi” disse infine abbassando  la mano, mentre la faccia gli si torceva a scatti. “ Le ho chiesto se ha visto un topo bianco entrare.” “ Lì non può entrare” fece con voce aspra. “E perché?” “Perché potrebbe entrare solo con una moglie topo e un topolino. Quello è un bagno per famiglie.” Sospirò.  Mi fece pena, chiesi il più dolcemente possibile “ Neanche tu puoi entrare?” scosse la testa guardando il pavimento. “Non hai una famiglia?” annuì al pavimento. “Perché non la vai a cercare?” Dissi stendendo un braccio verso l’imbocco dello spiazzo. Mi guardò spaventato. Poi i suoi occhi si ritirarono un po’ più dentro e riprese a fissare la porta tendendo un braccio a destra e uno a sinistra come faceva l’omino blu verso il suo piccolo e l’omino con la gonna. Mi arrabbiai. “Sei uno stupido! C’è tanta gente che cerca un omino in pantaloni, potresti servire a tante persone e invece te ne stai lì a fissare quella stupida porta! Non ci puoi entrare, beh ecchissenefrega! Vai a cercare altre porte! Muoviti!” Strinse gli occhi dolorosamente “ Mio padre e mia madre sono lì dentro, quando ero piccolo presero mio fratello per mano e entrarono. Io non ce l’ho fatta, non sono riuscito ad entrare. Nnnnnnnnn nnnnnn non Posso! NON POSSO!” Si torceva in spasimi e sputava Non posso come se ce li avesse tutti sullo stomaco. Lo presi ai gomiti, dove arrivavano le mie braccia e cercai di calmarlo “Non vuoi, forse non vuoi.” Prese a piangere piano, con le lacrime che colavano giù per traboccamento, senza partecipazione o sforzo. “ Avrebbero dovuto prendere anche te, perché non ce la facevi da solo. Non è colpa tua, non è colpa tua.” Lo calmai accarezzandogli il braccio, lui mi guardò grato, abbozzò un sorriso e mi serrò la mano con una stretta di ferro. “ Ahio!” feci guardandolo spaventata dal basso, lui continuava a sorridere, “Lasciami, io non vengo con te.” Gli dissi cercando di sfilarmi via la sua mano. “Aspettiamo.” Disse lui riprendendo a fissare la porta e l’omino con la gonna. “ Io non voglio aspettare- feci agitandomi e torcendomi- io devo andare, non voglio stare qui ferma, sto cercando una cosa.” Ma l’uomo sembrava di granito. Mi contorsi, piansi, urlai. Lui non guardava neanche dalla mia parte. Presi a insultarlo, a dirgli cose a raffica senza sapere quello che dicevo “ Sei un mostro, pensi solo a te stesso, non pensi a me?Io devo inseguire il mio topo. Non t’importa di nessuno, solo di te! Ho capito perché i tuoi genitori ti hanno lasciato qui!” La mano si spalancò come una bocca. Io mi misi a distanza di sicurezza massaggiandomi il palmo. Lui si rannicchiò in sé stesso, facendosi piccolo “Non mi hanno lasciato- disse iniziando ad afflosciarsi a terra- mi tenevano.” Io corsi via “ Mi tenevano!” mi urlò dietro “ Sono io che ho staccato la mano!” Corsi più veloce che potevo, non vidi neanche dove andavo. Mi fermai solo quando nella mia testa non sentii più il raspare di nnnnnnnnnn.

Casa di 40 mq

“Che state facendo?”
Lui sollevò la testa appena per vedermi. Poi la riabbassò sul viso di Lei. Lei riusciva a guardare solo lui.
 “Ci amiamo, bimba”
Mi avvicinai, “Perché?”
Lui guardò di nuovo lei, lei continuava a guardargli la fronte, le ciglia, gli occhi.
 “Perché lei non è me, bimba. Me la sto riprendendo.”
“Che significa?”
“ Significa che c’è stato uno sbaglio, lei avrebbe dovuto essere me e io lei, bimba. Avremmo dovuto essere insieme. Qualcuno ci ha separato, me la sto riprendendo e lei prende me.”
 Li guardai affascinata, erano bellissimi. Tutto quel nudo,  pelle che non se ne vede mai così tanta, fa l’effetto di tutto un cielo libero da palazzi. Lui era steso sopra di lei ma a lei sembrava non pesasse, lei continuava a fissargli il collo, le spalle, i capelli, accarezzandoli.
“E perché fate così?” “Perché se me la mangiassi non ce ne sarebbe più.” Scossi la testa senza capire, lei gli passava la mano tra i capelli. “ Bimba questa è la strada più diretta per portare me dentro di lei, se la aprissi a metà non entrerei dentro di lei, ma così oh sì. Questa è la strada per sentirla dentro.” Lei sorrise dolcemente.
“ Ma non ti basta fuori? E’ così bella.”
“Fuori è niente. Dove è il cuore, bimba?”
“Dentro.”
“(Fuori è niente. )Quella è la sua parte più bella.”
Sorrisi senza poterne fare a meno e me ne andai quando loro ripresero a muoversi insieme, danzandosi dentro.  E quando lei si voltò a guardarmi aveva lo sguardo pieno, e dentro vidi lui.

Casa di 30 mq

Dopo qualche metro c’era la casetta da trenta mq, dietro le vetrate senza tende quattro occhi spiavano gli amanti e denunciavano due disgusti. Quando mi avvicinai si fissarono su di me. “Entra” “Entra, entra” si parlarono sopra due vecchie voci. Tacquero entrambe. La casa stava stretta, le due vecchie erano qualcosa che il chiuso consumava insieme all’aria. “Hai visto quei due?” “Che vergogna, che vergogna.” “Certe cose una bambina non dovrebbe vederle.” “Perché?”chiesi “Santo cielo, santo cielo” “Perché no e basta, certe cose una bambina non dovrebbe vederle.”  Alzai le spalle. “Siete molto vecchie.” Dissi tanto per dire qualcosa. “Non come il cucco, non come il cucco.” “Chi siete?”chiesi,  guardando nella penombra lo squallore polveroso. “ Siamo le Signorine Misericordia, bambina” “Strano nome.” “ E’ il nostro nome.”  “E che fate?” “Aiutiamo la gente.” “Non vedo gente.” “Aiutiamo la gente che può entrare qua dentro” Mi guardai intorno. “E’ uno spazio piuttosto piccolo.” Commentai. Si guardarono piccate. “Le persone che possono entrare qua dentro sono quelle che meritano aiuto” disse una, sostenuta “Non devono essercene molte” “Sono quelle degne, quelle degne” disse l’altra. Strinsi le sopracciglia, “ Ma le persone che hanno bisogno d’aiuto, generalmente non sono quelle indegne?”  azzardai. Si guardarono di nuovo negli occhi, come per darsi pazienza. “No bambina, le persone indegne non hanno bisogno di niente.” “Perdizione eterna, eterna. Sono condannate.”  Disse l’altra agitandosi. “ Non hanno bisogno di noi” aggiunse la prima con voce strozzata.  Mi mordicchiai il labbro di sotto, riflettendo. Le Signorine intanto apparecchiavano un tavolo che sembrava un altare. “Coltello a destra.” Borbottava una. “Non bestemmiare” masticava l’altra. “L’inferno a chi fa peccato” andavano avanti e indietro dalla tavola alla cucina con passo barcollante. Sul tavolo non posavano nulla, “ l’uomo propone e dio dispone” diceva una e tornava di là. “chi dà e ritoglie, il diavolo lo raccoglie” arrivava l’altra e poi riscompariva. Quando ebbero finito e si risedettero la tavola era vuota e squallida come prima. “E quante persone avete aiutato?” Si guardarono sbattendo gli occhi “Nessuna.” “Nessuna, nessuna” dissero nervosamente l’una sull’altra. Tacquero entrambe. “Cioè, ci avete provato e non ci siete riuscite?” Mossero la testa “Non è venuto nessuno.” “Cioè non ci avete mai provato ad aiutare qualcuno?” “Non sono venuti.” Disse una, dura. “Non ci entravano, non ci entravano.” Borbottò l’altra. “Ma siete le Signorine Misericordia! Non potevate andarli a cercare?” “Dovevano  entrare qui dentro.” “Ma se voi foste andate a cercarli, forse li avreste convinti a entrare qui dentro! Forse non ce la facevano, o stavano male, o non sapevano che voi eravate qui per aiutarli!” feci accorata. “Non alzare la voce” fece una. “Schiena dritta e gomiti bassi” aggiunse l’altra. Continuavo a fissarle in silenzio, una scosse leggermente il busto e disse sussiegosa “Siamo le signorine Misericordia.” “Aiutiamo la gente” aggiunse l’altra. “Lo so, questo l’ho capito. Allora potete aiutare me?” Si guardarono stupite. D’un tratto persero sicurezza. “Vuoi la salvezza eterna?” provò una timidamente. Scossi la testa. “Vuoi redimerti dal peccato?” Azzardò l’altra. Feci ancora no, “Vorrei essere consolata.” Dissi con labbro tremulo, guardando il pavimento e rendendomi più patetica possibile. Le sorelle si scambiarono uno sguardo terrorizzato sopra di me. Mi sentivo triste e sola, mi facevo tantissima pena, ero la più sofferente dei sofferenti, la più bisognosa dei bisognosi. “Vi prego aiutatemi” dissi piangendo su me stessa. “ Sono stanca, ho sonno, ho fame. Sono tanto triste e non so perché. Ve l’ho detto che miei genitori sono morti orribilmente? Mi sento spersa. Non riesco a trovare quello che cerco. Mi sento inutile, inadeguata, non ho guide, non ho punti di riferimento, non credo a nulla. Sono spaventata.” scoppiai a piangere vinta dalla pena per me stessa e mi sedetti per terra coprendomi la faccia. Le due vecchie si irrigidirono. Io spiavo tra le lacrime aspettando un abbraccio o una carezza, che mi dessero una parola dolce, o un dolce da mangiare. Invece improvvisamente le loro facce si deformarono, erano stravolte dalla rabbia e dall’odio. “Tu essere immondo!” strillò una. “ Piccola peccatrice ripugnante.” “Essere perduto!” “ Fuori di qui, persona indegna!” Si misero a gridarmi contro e a spingermi fuori dalla casa. “Senza guida!” “Senza punti di riferimento!” Cercavo di parlare, di spiegare,  ma non mi ascoltavano. “Via di qui, vagabonda” “Vieni ad insozzare la nostra casa?” “A prenderti gioco di noi?” “Non ci faremo trascinare nel tuo fango” “Torna dalla tua razza maledetta, miscredente” “Bastarda, figlia di nessuno, senzadio” e mi sbatterono fuori, chiudendo la porta logora.

Casa di 60 mq

“Oh povera cara, povera piccola, stella mia.” Mi strinse qualcosa di caldo e profumato e mi accarezzò i capelli. Non resistetti e scoppiai a piangere. Piansi mentre mi faceva rialzare, piansi mentre mi metteva un braccio intorno alla vita e mi faceva camminare, piansi quando ogni tanto mi passava una mano sulla guancia o mi baciava gli occhi, piansi quando mi fece entrare in casa. Fu uno dei pianti meglio riusciti della mia vita. Quando mi fui calmata le chiesi chi fosse, mi rispose con una voce soffice che avvolgeva tutte le parole “Sono una mamma, tesoro.” Chiusi gli occhi a godermele quelle parole, come se avessi appena ingoiato qualcosa di squisito. Una mamma, finalmente. “Mi piacciono le mamme” feci a occhi chiusi. “Ne sono contenta” disse lei con un sorriso dolcissimo. L’aria intorno al suo corpo era calda e vibrante, il suo seno era morbido, la sua pancia era morbida, la pelle del volto era liscia di velluto. Alzai gli occhi e vidi la mamma che mi guardava. Le sorrisi, mi sorrise. Dietro di lei, sotto una cupola di vetro chiaro, sgambettavano, giocavano, piangevano e ridevano dei bambini. E tutti assomigliavano a lei o meglio lei assomigliava a tutti. “Sono i tuoi figli?” dissi avvicinandomi stupita.“Tutti pezzi del mio cuore.”  Schiacciai la faccia sul vetro, i bambini mi vennero vicino, avevano l’aria felice. Feci delle boccacce e scoppiarono a ridere. La mamma li guardava amorosamente, le sue espressioni cambiavano continuamente al mutare degli stati d’animo dei bambini. “Perché stanno lì dentro?” “Perché devono crescere, il mondo strappa quel che è piccolo e delicato.” Guardai meglio i bambini, alcuni avevano le dimensioni di adulti ma non me n’ero accorta perché erano come tutti gli altri, con la pelle liscia, gli occhi luminosi e innocenti. Solo che erano grandi. Strinsi le sopracciglia. “Tu li picchi mai?” Mamma e figli mi guardarono scandalizzati “Oh santo cielo, no.” “E li sgridi? Gli dici cose che potrebbero ferirli?” Mi guardò con infinita compassione. “Ma no, tesoro mio. Perché dovrei?” Cercai di trattenermi ma mi stavo innervosendo e non capivo neanche perché in tutta quella dolcezza dovessi irritarmi così tanto. E poi capii. L’aria era irrespirabile, totalmente rarefatta. Non c’era l’odio, è importante l’odio, non c’era il rancore, mancavano l’ambizione, l’invidia, la solitudine, l’indifferenza, l’estraneità, la varietà. La varietà, la tristezza, il rischio. C’è chi mette al mondo esseri umani e chi solo figli. Non si può creare un altro uomo per talea. Mi guardai intorno smarrita e poi vidi uno di quei bambini cresciuti che muoveva le labbra senza emettere suoni. Sentivo il suo labiale. Quella donna non fa altro che accrescere sé stessa, rendersi infinita nel tempo e nello spazio. Non vuole che soffriamo perché non vuole soffrire, non vuole che conosciamo altro che lei per paura di perderci. “Tu non sei una vera mamma.” Dissi senza riuscire a trattenermi “se no apriresti quella campana e soffriresti come un cane permettendo ai tuoi figli di soffrire.” Sgranò gli occhi. C’è chi si copre di figli per non vedersi. “Tu! Tu ti copri di figli per non vedere te stessa. Vorresti insegnare ai tuoi figli ad essere te perché in tutta la tua vita tu non hai imparato a farlo, non sei stata capace di sentirti completa.”  La mamma prese a piangere dolorosamente. E ora dalle il colpo finale, facci uscire. “No. Cresci. Fallo tu.” L’adulto bambino scoppiò a piangere rumorosamente e a battere i pugni per terra. Ma la mamma non corse a consolarlo, restò ferma a piangere silenziosamente. Era terribile vederla piangere, una mamma non mostra mai sofferenza, cede al dolore solo quando è enorme da spezzargli il cuore e fluire via. La abbandonai col cuore pesantissimo e l’idea di essere ingrata, impura, spezzata. Un dolore che mi sembrava quasi necessario. Come un peccato originale di cui ci si macchia inevitabilmente a un certo punto dell’esistenza.

Zona poltrone

“Si sente bene?”
“Uh?” l’uomo aprì gli occhi per un istante e riprese a dormire. Gli girai un po’ attorno poi parlai di nuovo“Sta dormendo?” Grugnì qualcosa. “Lo sa che fuori è già primavera?” Aprì solo un occhio e strizzò l’altro. “Primavera hai detto?” “Proprio così” annuii seria. “Devo aver dormito per almeno due liquidazioni e quattro svendite.” “Eh?” “Lascia perdere.” Il vecchio si raddrizzò lentamente sulla poltrona e si mise a massaggiarsi gli occhi accuratamente allungando le palpebre verso il basso e facendo facce strane. Scoppiai a ridere di gusto. Mi stava simpatico. “Dacci un taglio, ienetta.”  “Mi sta simpatico” gli dissi. “Uhm” annuì distrattamente guardandosi intorno. “Oh santo dio, sono ancora qui, loro coi figli e i figli dei loro figli.” “Chi?” “Chi, chi!” s’innervosì “Tu, i tuoi genitori, i loro genitori, i cani e dio solo sa chi altro, a fare sempre le stesse cose.” Guardai la folla disordinata tutta intorno che ci ignorava “Che facciamo qui?” Il vecchio si raddrizzò a guardarmi “Come?” mi chiese puntandomi addosso la faccia. “M-mi mette un po’ a disagio.” “Cosa hai detto prima?” “Ho detto perché siamo qui” “Perché…” sospirò come assaporando quella parola e si gettò sullo schienale chiudendo gli occhi. Aspettai un po’ , educatamente. “Allora?”  “Usi troppi punti interrogativi, bambina. Non hai paura di finirli?” Strinsi le labbra fissandolo. Lui mi spiò attraverso le palpebre calate. “ Perché non fai come qualsiasi altro essere umano a questo mondo e non mi ignori?” Gonfiai le guance “Voglio sapere.”  Il vecchio si sollevò, lo schienale della poltrona accompagnava tutti i suoi movimenti,  “Tu vuoi sapere? Tu piccolo insignificante esserino sogna-saldi? TU vuoi sapere?” scoppiò a ridere. Strinsi gli occhi minacciosamente. Il vecchio si lasciò scappare un po’ di stupore. “Evidentemente si. E cosa vorresti sapere di grazia? Dove è il bagno? Dove si vendono le stoviglie? Se è migliore il tefal o l’alluminio?”  “Lei ha detto che stiamo ancora tutti qui, cosa ci facciamo qui?” “Non lo sai? Non sei convinta di vivere la vita, tu come tutti quegli altri?” Scossi la testa “Non sono convinta di niente.” Parve riflettere profondamente, poggiò le mani sui braccioli “ E cosa dicono i tuoi genitori di tutte queste domande?” “…sono morti…orribilmente.” Dissi esitante. Lui mi fissò in modo ancora più penetrante “Sono morti eh? Fine scontata.” “Come!” dissi un po’ delusa e un po’ offesa “Non prova pena per me?” “No, perché dovrei? Possono farti molto più bene da morti che da vivi, credimi. Quanto a loro, sono morti buon per loro, si sono tolti un pensiero.” Aggrottai la fronte, curioso punto di vista. “E- e lei cosa intende fare per prendersi cura di me?” azzardai. Si sollevò seguito dallo schienale “Bambina,ti assicuro che non ho nessuna intenzione di prendermi cura di te.” “ah- feci un po’ spiazzata- ok.” “Ma veniamo a noi- disse il vecchio intrecciando le dita- tu vuoi sapere, non è così? E vuoi che il sapere te lo trasmetta io.” Feci sì con la testa. “Male.” Mi bacchettò. Smisi subito di scuotere la testa. “Credi forse che il sapere sia una moneta che si passi da una mano all’altra?” Lo guardai incapace di rispondere. “Il sapere è qualcosa di organico, di umano. Lo devi secernere, te lo devi produrre, si deve staccare dai tuoi organi, usare i tuoi tessuti. Non puoi certo aspettarti che ti arrivi così dall’esterno e tu sia pronta ad accoglierlo senza alcuno sforzo. Imparalo per la prossima volta.” Annuii seria fingendo di aver capito. All’improvviso mi fissò negli occhi “E ora vuoi dirmi dove sono i tuoi genitori?” Lo guardai smarrita, “Eh?” “Dove sono.” Ripetè.  Sospirai. “Al reparto notte.” “E perché fingi che siano morti?” “… Per imparare.” Dissi a voce bassa. “Come?” “Per imparare- ripetei più forte- Quando hai i genitori morti pensi a un sacco di cose e la gente risponde alle tue domande.” “Santo dio, bambina. La morte non insegna niente, la morte cancella. Sotterra. E’ la vita che deve insegnare ma nessuno pensa di doverla stare a sentire. Tutti pensano solo al modo migliore di viverla. Ma non senti come è tautologico? La vita non si deve vivere, già vive. Se vivi la vita è come se ripetessi un’azione, facessi qualcosa che contemporaneamente si sta già facendo. Tu sogni un sogno? Stringi una stretta? Il sogno è già sogno senza dover essere sognato, la stretta è già stretta di per sé, puoi aumentarla, allentarla ma una stretta è stretta perché la si stringe. Se no non sarebbe tale. La vita è già vita senza dover essere vissuta. La vita vive, porca miseria. E’ per questo che durante la vita non si può solamente limitarsi a vivere, occorre fare altro.” Lo fissai con la bocca semiaperta. La cosa parve irritarlo. “Non so perché perdo tempo con questo animaletto.” Sbuffò e si rigettò sullo schienale fingendo di dormire. Strinsi le labbra dalla rabbia. “E come mai lei che sa tutte queste cose è finito dimenticato su una poltrona?” Corrugò la fronte. “Non risponde ora?” Sbuffò e si girò dall’altro lato.

Deposito scatoloni

Tutt’intorno gli scaffali dall’altezza di cattedrali gotiche si protendevano come costole gigantesche di un torace scheletrico, gli scatoloni buttati qua e là sembravano brandelli di carne passita che nessuno si curava di coprire. Quel luogo sporco sfoggiava il suo squallore e la sua bruttezza. Uomini erano buttati in mucchi di stracci agli angoli non preoccupandosi di rialzarsi, di dormire o stare svegli, di coprirsi. Io li guardavo intensamente ma tenendo gli occhi bassi, volevo vedere se veramente erano uomini come me, se erano nati da una madre anche loro, se erano stati bambini anche loro, e avevano bocche e nasi. Una donna mi veniva incontro dalla parte opposta zoppicando e borbottando qualcosa. Ogni tanto si fermava e si aggiustava la gonna lacera poi riprendeva a camminare. Era sporca, scura come uno di quei panni per la polvere e la sua voce era roca come se grattasse continuamente contro la gola. Mi feci coraggio e la salutai “Buonasera.” Mi guardò di traverso, storse la bocca e non si fermò. Deglutii, “C-cosa è questo posto?” , per un istante fissò i suoi occhi selvaggi su di me, sembrava pronta ad attaccarmi se non l’avessi lasciata in pace. “Perché vive quaggiù?” Lei girò sui tacchi e si inoltrò in uno dei tanti corridoi secondari, la seguii. Aumentò la velocità del passo e del borbottio. “E’, è un posto orribile, perché sta qui?” Si fermò e senza girarsi la sentii dire “Io sono questo posto orribile.” “Non è vero, lei è una persona non un posto.”Questo mi pareva scontato. “Perché sei qui? Tornatene di sopra. Non devi stare qui.” Mi stupii “Lei si preoccupa per me?” “No” disse secca “la tua vista mi disturba.” Presi un’espressione ferita. Degli inservienti in divisa scesero dal piano di sopra, caricarono uno di quegli enormi scatoloni senza curarsi degli uomini distesi agli angoli e ritornarono su. “Guardi! Di là si torna di sopra, perché non andiamo insieme? Lì c’è luce e tanta gente.” “Mi fa schifo di sopra” “Beh sempre meglio di qui. Questo posto puzza.” Si girò di scatto e quasi sbattei contro il suo naso, “Almeno non fingiamo di non puzzare.” “Quelli là, quelli ci spingono via. E non è che non puzzano. E’ che non hanno il naso.”

Lanterna bianca

E caddi nel bianco.

“E questo?”
“Questo è vuoto.”
“ Il vuoto è bianco?”
“…”
“Perché nel vuoto io esisto?”
“Tu non esisti se non nel vuoto. Se tutto fosse pieno non ci sarebbe spazio per te.”
“Ma io sono piena?”
“Oh no che non lo sei. Sei un recipiente di vuoto. Trabocchi di vuoto. Quasi non lo riesci a contenere, lo spargi qua e là.”
“ Ma è male essere vuoti?”
“Solo se credi di doverti riempire.”
“Non devo?”
“Oh no. Non devi.”
“Ma l’altra gente. Quella piena, è qui che viene a riempirsi?”
“Si.”
“ E di cosa si riempie?”
“Oh, un po’ di tutto. Amore, rimpianti, carità, rancore. Qui si trova tutto.”
“ E questo tutto è a buon prezzo?”
“Prende quello che dai.”
“Io non ho niente da dare.”
“Allora non puoi avere niente.”
“E le altre persone come pagano?”
“Oh dipende da quello che sono disposte a dare. Alcune danno il loro tempo, altre dividono la loro integrità. Altre perdono i valori, alcune cedono sogni, e vuoti, e aspirazioni. Ci sono delle persone che si riempiono a forza come tacchini imbottiti e vogliono riempirsi di tutto. Altre scelgono, qualcosa lo evitano, di qualcosa hanno paura.”
“Io non ho visto niente che mi piacerebbe avere.”
Aspettammo un po’ silenziosi, osservando il vuoto che si insinuava tra noi come vento. Riflettevo.
“Tornerò qui?”
“ La domanda è se da qui te ne andrai.”
“Uh non so, non si sta male. Sento un po’ la mancanza del corpo, e di altri colori. Cioè so di averlo un corpo ma con tutto questo bianco non vedo nulla. Topo …”
“Si?”
“E’ per seguire te che non ho guardato gli scaffali …”
Esitai, sentivo il topo che attendeva educatamente.
“E se avessi perso qualcosa?”
“Che genere di cosa?”
“Non so, un’offerta, un’occasione.”
“Attenta stai ragionando come loro.”
“Si ma … E’ tanto terribile essere pieni? Insomma, nasciamo vuoti, giusto? E poi moriamo pieni. Funziona così?”
“Generalmente.”
“ Non mi sembra sbagliato. Mi sembra … naturale.”
“Naturale è come dire bestiale.”
“Bestiale?”
“Si bestiale, animale, fatale. Naturale. La natura è una schiavitù che crediamo di avere.”
“mmm”
“ Quando qualcosa ti sembra naturale, è perché segue la normale evoluzione di quel genere di cose. E’ come un finale che si ha già in corpo, una strada nota che si sa già dove va a finire. Naturale non significa altro che buttare le proprie redini, abdicare alla massa, al tempo e al caso.”
“ Allora deve essere qualcosa di sbagliato.”
“Oh no. Ciò che è naturale è sempre giusto. Ma se tu sei sbagliato, l’errore è il tuo giusto perché l’errore ti è innato ed è ciò che è giusto ad essere inadeguato.”
“ Topo… Sono confusa.”
“Bene.”
Mi fermai ancora a pensare.
“Topo, qui posso pensare per tutta la vita senza concludere nessun pensiero?”
“Se lo desideri.”
“Sai cosa vorrei, topo? Vorrei che niente cambiasse e tutto fosse diverso. Questo mi piacerebbe. Mi piacerebbe che tutto mutasse in continuazione ma che non fosse mai sconosciuto per me. Vorrei che i miei pensieri sanguinassero. Vorrei che tutto quello che c’è nella mia testa lo si potesse cacciare vivo di là e vorrei poterlo cambiare o distruggere senza rimorsi. E vorrei che il mio corpo fosse vuoto come un fantoccio e potessi aprirlo con una cerniera e mettermici dentro tutte le cose belle che amo e portarmele dietro per tirarle fuori quando lo desidero. Vorrei che le persone che incontro si prendessero qualcosa da me e mi lasciassero qualcosa. Una specie di baratto esistenziale. Vorrei che nessun incontro fosse dato per scontato, che nessuna natura umana venisse trascurata. Vorrei che l’incredibilità dell’uomo venisse riconosciuta sempre e comunque anche nel più triste, stupido, noioso degli esseri. A me l’uomo fa così pena per il solo fatto che è uomo che non riesco a condannarlo per nient’altro.  Allora non ci potrebbero essere punizioni. Ma nessuno riuscirebbe ad uccidere perché si ucciderebbe qualcosa di troppo complesso, vario, disarmato.”
Il topo restava in un silenzio triste.
“Non posso restare, topo.”
Il topo abbassò gli occhi.
“Devo tornare là sotto.”
Il topo non rialzò la testa. Scesi lentamente sperando che mi dicesse qualcosa, anche che avessi torto e di tornare indietro. Ma non diceva nulla, avvertivo solo il suo silenzio doloroso. Mentre scendevo guardavo intorno abbracciando tutto con lo sguardo e seppi che ogni singola cosa era mia, mi apparteneva. E io appartenevo loro. Doveva essere così.  Quando non vidi più neppure la punta del lungo naso del topo, seppi di essere arrivata con i piedi per terra.



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