martedì 3 gennaio 2017

La ballata delle scarpe perdute


Riversa nell’erba sporca, la suola verso l’alto, fisso il cielo nero e umido. Vicino a me due bottiglie vuote, una busta di plastica, una siringa usata. Il fiume è a pochi metri, non più di due passi e mezzo. Se potessi muovermi, inizierei a scuotermi con violenza da un lato e dall’altro, sempre più forte, sempre più rapida. Finché non cadrei in acqua. A ricongiungermi col piede che mi calzava.

Non mi hanno più trovata dall’estate del 2005. Giocavano a chi tirava le infradito più lontano. Io sono finita in una fenditura della scogliera, scivolata dietro una sporgenza di roccia scura, dove solo i gabbiani arrivano e subito ripartono. Ma ero così leggera. Per un attimo mi è sembrato di volare.

Ero ancora al suo piede quando hanno iniziato a baciarsi furiosamente, con fame. Lui le aveva afferrato il sedere con una mano, con l’altra cercava di sfilarmi via. Ma io resistevo. Resistevo tenacemente. Poi è stata lei, mi ha sciolto i lacci come sapeva fare, mi ha sfilata senza nemmeno guardarmi, senza staccare la faccia da lui. Mi ha gettata via.

Era minuscolo. Sono minuscola anch’io. Non più grande di un pugno. Sono scivolata via mentre lo portavano di corsa in ospedale, dopo l’ennesima crisi respiratoria. Non sono più tornati a cercarmi.

Mi aveva fatta con cura. Puntale e contrafforte in cuoio pregiato, fodera e tomaia nella migliore pelle, chiodatura del tacco in ottone, rinforzo di metallo. “Queste – diceva alla moglie mostrandomi – le calzerà Vincenzo il giorno della sua laurea”. Quando terminava la cucitura “blake”, anni dopo, mi alzava e diceva alla moglie “Ancora qualche anno e si laureerà. E’ tutta la vita che lavoro per quel momento, per vedere Vincenzo con le mie scarpe il giorno della sua laurea”. Col tempo ha lavorato sempre meno a me finché non ha smesso del tutto. Non ha mai fatto la mia gemella.

Mi ha portato per anni e anni. Forse venti, forse trenta. Abbiamo fatto migliaia di chilometri, visto decine di città, dormito all’aperto o in cameroni pieni di gente. Mi ha difeso da due mani che cercavano di strapparmi via durante il sonno. Abbiamo camminato tanto insieme che mi si è aperto un sorriso sul davanti e dalla mia suola bucata mi si vedeva tutto il sottopiede. Ma non mi è mai importato. Oggi, semplicemente, è caduto. All’improvviso. Non ho sentito più il suo peso familiare su di me. Infarto, infarto, diceva la gente tutta intorno. Lo hanno portato via che già non respirava e sulla strada sono rimasta io sola.

Sì, sono stata io. Correva. Era senza fiato ma continuava ad andare. Lo inseguivano, gli urlavano di fermarsi, arrancavano. Io sentivo di farmi sempre più larga, qualcosa si andava allentando. Era il mio momento. Lo aspettavo da sempre. Individuai un sasso grande nel terreno. Mi ci buttai contro. Lui rotolò a terra, io finii qualche metro più avanti. Lo raggiunsero, lo legarono, lo portarono via. Non riuscivo a crederci. Finalmente libera.

Era la mia metà, la mia gioia. Il mio completamento. Così uguale eppure così diversa. Era lo specchio di me. Ogni mia sporgenza era una sua rientranza. Ogni suo graffio sulla pelle, il segno del mio tempo che trascorreva. Amavo ogni screpolatura della nostra vecchiaia, amavo come si andava stingendo. E così lei con me. Poi un giorno, quei rumori terribili. Urla dall’alto, grida, pianti. Fu afferrata, in uno scatto cieco, in un lampo di secondo, la vidi levata in alto e scagliata via. Mancò l’uomo cui era diretta, volò via dalla finestra aperta del quinto piano e non la vidi mai più. Vittima di una guerra incomprensibile che non era la nostra.

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