Riversa nell’erba
sporca, la suola verso l’alto, fisso il cielo nero e umido. Vicino a me due
bottiglie vuote, una busta di plastica, una siringa usata. Il fiume è a pochi
metri, non più di due passi e mezzo. Se potessi muovermi, inizierei a scuotermi
con violenza da un lato e dall’altro, sempre più forte, sempre più rapida.
Finché non cadrei in acqua. A ricongiungermi col piede che mi calzava.
Non mi hanno più
trovata dall’estate del 2005. Giocavano a chi tirava le infradito più lontano.
Io sono finita in una fenditura della scogliera, scivolata dietro una sporgenza
di roccia scura, dove solo i gabbiani arrivano e subito ripartono. Ma ero così
leggera. Per un attimo mi è sembrato di volare.
Ero ancora al suo piede
quando hanno iniziato a baciarsi furiosamente, con fame. Lui le aveva afferrato
il sedere con una mano, con l’altra cercava di sfilarmi via. Ma io resistevo.
Resistevo tenacemente. Poi è stata lei, mi ha sciolto i lacci come sapeva fare,
mi ha sfilata senza nemmeno guardarmi, senza staccare la faccia da lui. Mi ha
gettata via.
Era minuscolo. Sono
minuscola anch’io. Non più grande di un pugno. Sono scivolata via mentre lo
portavano di corsa in ospedale, dopo l’ennesima crisi respiratoria. Non sono
più tornati a cercarmi.
Mi aveva fatta con
cura. Puntale e contrafforte in cuoio pregiato, fodera e tomaia nella migliore
pelle, chiodatura del tacco in ottone, rinforzo di metallo. “Queste – diceva
alla moglie mostrandomi – le calzerà Vincenzo il giorno della sua laurea”.
Quando terminava la cucitura “blake”, anni dopo, mi alzava e diceva alla moglie
“Ancora qualche anno e si laureerà. E’ tutta la vita che lavoro per quel
momento, per vedere Vincenzo con le mie scarpe il giorno della sua laurea”. Col
tempo ha lavorato sempre meno a me finché non ha smesso del tutto. Non ha mai
fatto la mia gemella.
Mi ha portato per anni
e anni. Forse venti, forse trenta. Abbiamo fatto migliaia di chilometri, visto
decine di città, dormito all’aperto o in cameroni pieni di gente. Mi ha difeso
da due mani che cercavano di strapparmi via durante il sonno. Abbiamo camminato
tanto insieme che mi si è aperto un sorriso sul davanti e dalla mia suola
bucata mi si vedeva tutto il sottopiede. Ma non mi è mai importato. Oggi,
semplicemente, è caduto. All’improvviso. Non ho sentito più il suo peso
familiare su di me. Infarto, infarto, diceva la gente tutta intorno. Lo hanno
portato via che già non respirava e sulla strada sono rimasta io sola.
Sì, sono stata io.
Correva. Era senza fiato ma continuava ad andare. Lo inseguivano, gli urlavano
di fermarsi, arrancavano. Io sentivo di farmi sempre più larga, qualcosa si
andava allentando. Era il mio momento. Lo aspettavo da sempre. Individuai un
sasso grande nel terreno. Mi ci buttai contro. Lui rotolò a terra, io finii
qualche metro più avanti. Lo raggiunsero, lo legarono, lo portarono via. Non
riuscivo a crederci. Finalmente libera.
Era la mia metà, la mia
gioia. Il mio completamento. Così uguale eppure così diversa. Era lo specchio
di me. Ogni mia sporgenza era una sua rientranza. Ogni suo graffio sulla pelle,
il segno del mio tempo che trascorreva. Amavo ogni screpolatura della nostra
vecchiaia, amavo come si andava stingendo. E così lei con me. Poi un giorno,
quei rumori terribili. Urla dall’alto, grida, pianti. Fu afferrata, in uno
scatto cieco, in un lampo di secondo, la vidi levata in alto e scagliata via.
Mancò l’uomo cui era diretta, volò via dalla finestra aperta del quinto piano e
non la vidi mai più. Vittima di una guerra incomprensibile che non era la
nostra.
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