venerdì 3 febbraio 2017

Clerici vagantes. Ai giovani perduti dell'Accademia

Clerici vagantes

Portami a casa.
 Cos’è casa?
Casa è il posto dove te ne puoi stare dentro te stesso
 senza che nessuno tenti di cavartene fuori e mandarti via.
Lo sai che non posso.
Perché?
Perché sei morto e di tuo non ho neanche il corpo.
Per Giulio Regeni

A chi apparteniamo? Allo Stato? Alla società? Alla famiglia? Alle “formazioni sociali che permettono il pieno sviluppo della nostra personalità”?
Niente ci appartiene e quindi non apparteniamo a niente. Non abbiamo più crediti verso nessuno. Tutti ci devono qualcosa. Qualcosa che, forse non volendolo, ci hanno sottratto.
Siamo un popolo di senza patria e senza radici. Un popolo apolide e sotterraneo che si incontra, si perde, si ritrova, si riconosce. Sosta e poi riparte. Riparte desiderando sostare. Cosa cerca? Un posto da chiamare casa. Ma chi l’ha persa la casa ce l’ha stampata dentro e nessun’altra può adattarsi alla sua forma.
Siamo i profughi del sapere, i nuovi chierici vaganti con gli zaini strappati e gli affitti stanchi. Siamo dottorandi, assegnisti, post-doc, ricercatori. Siamo le generazioni perdute dell’accademia, quelle che la desidereranno per tutta la vita e non potranno che girarle affannosamente intorno come scarni cani affamati.
Il mondo ha rinunciato a noi. Centinaia, migliaia di menti lasciate fuori. Che cosa avremmo potuto dargli? Non lo sapremo mai. Che cosa ha perso l’umanità futura? Non possiamo immaginarlo.
Se c’è un disegno del fato nelle cose umane, il fato ha scelto di non scrivere lì col nostro inchiostro. Siamo punti muti, pagine bianche. Non lasceremo nulla su quella traccia.
Diventeremo avvocati, bancari, impiegati aziendali. Nessuno ci restituirà i mezzi per mettere a frutto le nostre intuizioni. Le idee che forse un qualche dio illuminato aveva inserito in nuce nella nostra testa, nostra e di nessun altro, seccheranno morte e friabili sul ramo secco delle nostre vite di ripiego.
Ma noi intanto vaghiamo, come un popolo senza patria, alla ricerca di chi ci dica “resta”. Ma raramente accade. Il nostro destino è il movimento e noi siamo il movimento del mondo.
Ma è un mondo sempre più chiuso, ci si stringe intorno alle caviglie. Alzano muri e barriere di tutti i tipi, materiali e immateriali, fatte di stabilità negata o visti sottratti. Muri trasparenti di appropriazione e conservazione.
Ci negate l’accesso al vostro mondo, noi siamo gli straccioni dell’anima, gli accattoni della cultura. Come se non vi servissimo.
Come se non vi servisse quello che abbiamo noi, che è unico e nessuno tornerà a portarvelo.
A volte moriamo. Perché è un mondo incattivito quello in cui ci fate girare. L’avete imbizzarrito voi. Ma voi non dovete più viaggiare. Lo facciamo noi al vostro posto, i manovali della sapienza.
C’è sempre uno di noi che crepa quando succede qualcosa di brutto, un attentato un incidente. Perché noi siamo sparsi ovunque, come manciate di sale sulla strada per evitare che ghiacci.
Dovevamo essere nodi e raccordi, dovevamo avvicinare e unire. E invece non siamo che dei rinnegati. Dei rifiutati. E ci portiamo in cuore il senso dell’abbandono che è un buco nero. Come fa ad unire uno che ha il buco nero in corpo?
Dateci una casa. Fateci entrare. Fateci entrare col camino spento. Il fuoco lo portiamo noi.

2 commenti:

  1. Ciao, hai dato voce a quello che penso, sento, vivo. Complimenti.

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  2. Grazie. Lo stesso è anche per me, purtroppo, e per molte delle persone che ho intorno.

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